“Scienza della felicità”? Un controcanto
“Scienza della felicità”? Un controcanto
Nel 1998, Martin Seligman, allora presidente dell’American Psychological Association, dichiarò che psicologi e psichiatri non dovevano più occuparsi solo di disturbi mentali e problemi psichici; secondo lui era ora di elaborare modelli e tecniche per insegnare alle persone a stare bene[1]. Fin qui, si sarebbe potuto supporre che fosse un invito a rafforzare le raccomandazioni che aiutano a preservare la salute psicofisica delle persone, un obiettivo peraltro non nuovissimo: di “benessere” erano già in tanti a ragionare, da molteplici angolature. Si pensi, ad esempio, che la Psicologia dello sport risale alla fine del XIX secolo.
Ben presto, però, l’obiettivo del filone della psicologia che egli aveva inaugurato, cd. “Psicologia positiva”, si rivelò in tutta la sua ambizione: non si trattava solo aiutare le persone a restare in salute, ma di occupare un ambito semantico dove fino allora si erano spinti – senza peraltro convergere su una stessa definizione - solo le religioni e la filosofia: la felicità. La “Psicologia positiva” intendeva rappresentare la sintesi e la quintessenza di tutte le religioni e le teorie filosofiche su questo tema. Nacque così la “Scienza della felicità”, con la promessa dichiarata di insegnarci addirittura la vera felicità[2].
In poco più di due decadi, a partire dagli USA per poi diffondersi nel resto del mondo, sulla “Scienza della felicità” si sono moltiplicati pubblicazioni, conferenze, finanziamenti a ricerche, consulenze di esperti, corsi universitari, persino figure manageriali specializzate, insomma tutto un fiorente mercato che incontra il favore di aziende, eserciti, governi preoccupati del morale delle truppe («…perché il nostro piangere fa male a re», cantava Jannacci).
La nuova scienza ha elaborato una formula matematica che assomiglia alla ricetta di una torta:
Felicità = Fattori costituzionali genetici (con peso pari al 50%) + Circostanze della vita (con peso pari al 10%) + Fattori sotto il proprio controllo (con peso pari al 40%).
Numerose critiche a questa scienza si accentrano sui suoi fondamenti epistemologici, ovvero sulla possibilità stessa di elaborare modelli universali di definizione, misurazione e valutazione della felicità[3] e più avanti vedremo cosa ne pensano alcuni specialisti che ho intervistato.
Per valutare quel (presunto) 40% di fattori di felicità sotto il controllo individuale, la Psicologia positiva elabora precisi modelli di rilevazione degli “ingredienti” della felicità. Il principale modello è il PERMA, acronimo di:
Positive emotions (emozioni positive),
Engagement (coinvolgimento in attività percepite come gratificanti),
Relationship (relazioni positive),
Meaning (senso della vita),
Accomplishment (raggiungimento degli obiettivi personali).
Ciascuna di queste dimensioni si articola in specifici indicatori[4].
Questo modello ha poco in comune col BES, Benessere Equo e Sostenibile, misurato periodicamente in Italia dall’ISTAT[5]. La differenza sta nel fatto che le indagini sul BES rilevano il livello di benessere della collettività prendendo in considerazione soprattutto i fattori ambientali, economici, sociali (livelli di istruzione, di reddito, di occupazione, di salute, di fruizione culturale ecc.), evidentemente presupponendo che questi pesino assai più di quel trascurabile 10% teorizzato da Seligman e allievi.
Ha poco a che fare anche con la “prescrizione sociale”, un mezzo raccomandato in anni recenti ai professionisti sanitari dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che parte dalla constatazione dell’impatto dei fattori socioeconomici sulla salute e fa leva sul ricorso a servizi e risorse non cliniche della comunità a vantaggio del benessere dei pazienti[6].
Invece, il PERMA model, la psicologia positiva e la “Scienza della felicità” si concentrano esclusivamente sull’individuo, responsabile di quel (presunto) 40% di fattori sotto il proprio esclusivo controllo.
Proprio l’assenza della dimensione sociale, lo scaricare sugli individui la responsabilità principale del proprio benessere viene criticata da autori come Edgar Cabanas ed Eva Illouz, che a tal fine hanno inventato un neologismo intraducibile in italiano, Happycracy, il cui significato è esplicitato nel sottotitolo del loro libro: Come la scienza della felicità controlla le nostre vite (tradotto in italiano da Davide Fassio. Torino, Codice, 2019).
In verità, all’interno del grande filone della psicologia positiva, non tutti cantano all’unisono e ci sono anche autori e autrici che provano a superare lo schematismo del PERMA proponendo approcci più inclusivi. Tra questi c‘è Susan David, una psicologa di Harvard che ha co-curato l’Oxford Handbook of Happiness[7] e dà lezioni di agilità emotiva agli aspiranti manager, osservando che la rigida classificazione delle emozioni in positive e negative non è adatta a fronteggiare la complessità della vita, anzi è proprio tossica. Traduco dall’inglese alcune sue frasi:
«[…] essere positivi è diventata una nuova forma di correttezza morale. La gente col cancro viene automaticamente invitata a pensare positivo, le donne a non essere così arrabbiate e la lista prosegue. È tirannia. La tirannia della positività. Ed è crudele. È sgarbato. E inefficace. E noi lo facciamo a noi stessi e lo facciamo agli altri»[8]. E osserva che solo i morti non sono mai stressati, non hanno mai il cuore infranto, non provano mai disappunto per un fallimento. Il disagio, soprattutto in tempi difficili e incerti come i nostri, è il prezzo da pagare per vivere, costruirci una carriera, mettere su famiglia, lasciare il mondo migliore di come lo abbiamo trovato, insomma per dare un senso alla nostra vita.
E allora, questa è la sua ricetta: Susan David, Agilità emotiva. Non restare bloccato, accogli il cambiamento e prospera nella vita e nel lavoro. Traduzione di Massimo Simone e Raffaelle Voi; prefazione di Diego Ingrassia. Milano, Giunti Editore, 2018.
Prendiamo ora un altro degli elementi prescritti dal PERMA model, le “relazioni positive” (empatia, accettazione e comprensione dell’altro, ecc.). Come dimostra Lundy Bancroft parlando dei benefici che gli uomini abusanti traggono dal maltrattare le donne[9], non è affatto detto che l’empatia sia una condizione di felicità:
«La felicità in un rapporto dipende molto dalla capacità di ottenere che i bisogni individuali vengano ascoltati e presi in seria considerazione. Se queste decisioni sono prese con un partner violento, l’altro subirà delusioni e delusioni, dovrà sopportare il sacrificio costante delle proprie esigenze. Il maltrattante, invece, godrà il lusso di un rapporto in cui raramente deve scendere a compromessi, otterrà sempre ciò che vuole in cambio di nulla. […]
Certamente l’uomo maltrattante perde anche qualcosa a causa del suo agire violento. Perde la possibilità di vivere un vero rapporto intimo con la sua partner, ad esempio, e la sua capacità di provare compassione ed empatia. Ma spesso queste non sono cose alle quali lui dà un qualche valore; quindi, non è in grado di sentirne la mancanza. E anche se volesse una maggiore intimità, quel desiderio è superato dal suo attaccamento ai benefici che gli derivano dagli abusi che perpetra.
[…] I vantaggi che si ottengono per mezzo della violenza sono un grande segreto, raramente menzionato nella nostra società. Perché? Soprattutto perché i maltrattanti sono specialisti nel distrarre la nostra attenzione. Essi non vogliono che si noti quanto questo sistema funzioni bene per loro (e di solito non hanno nemmeno voglia di ammetterlo con se stessi)».
Quindi, l’uomo abusante non ha bisogno di essere empatico per realizzare se stesso: il suo segreto è che maltrattando ottiene potere, sicurezza di sé, libertà di scegliere come impiegare il suo tempo, soddisfazione dei propri bisogni eccetera. Ma siccome sa simulare, e poi la sua relazione con la vittima è positiva dal suo punto di vista, potrebbe ben superare un test sulla felicità. Chi non lo supererebbe probabilmente è la sua vittima.
Da parte mia, non discuto l’utilità delle tecniche per rilassarsi e affrontare i cambiamenti, il malumore o la malinconia evitando di annegarci dentro o spargerli intorno a sé, né di quelle per migliorare l’autoconsapevolezza e la fiducia nelle proprie possibilità, coltivare l’intelligenza emotiva eccetera. Cerco quotidianamente di impararle e di applicarle anche io e sono sicura che possano aiutarmi a vivere e lavorare meglio. Inoltre, ammiro chi riesce sempre a trovare motivi di ottimismo nelle difficoltà e credo di saper distinguere abbastanza bene tra le vittime e i vittimisti essendo convinta che il nostro mondo produca troppi esemplari di entrambe le categorie e offra poche risposte per le prime e troppe per i secondi.
Ma se da un lato tutte queste pratiche possono aiutare a fare la propria parte per mantenere decenti livelli di salute personale, collettiva e organizzativa, d’altro canto non mi sembra corretto evocare promesse di felicità individuale quando in realtà si vuole insegnare o prescrivere un’etica comportamentale e considererei illiberale un mondo in cui qualcuno applicasse il PERMA model o cose simili alla selezione del personale o alla valutazione della performance individuale, per la serie “Tutti i felici dentro, tutti gli infelici fuori”.
Per capire se ho torto, ho chiesto a persone più esperte di me - tre neuroscienziati e un filosofo - se si possa scientificamente definire la felicità e se questa possa essere insegnata e misurata. Ecco di seguito una sintesi dei loro pareri (nelle note riporto un breve profilo biografico di ciascuno/a).
Imma Fiorito, psicologa[10], osserva:
«I libri segnalati su questo argomento mi sembrano un mix di pillole di saggezza e tecniche di rilassamento e di psicologia. Non mi inquieta l’uso del termine “felicità” e non lo trovo inappropriato di per sé, perché tutti cercano la felicità… pure chi scrive i libri. Sicuramente i filosofi hanno provato a definirla nei secoli, ma intorno a questo termine anche tanti psicologi, psicoterapeuti, analisti, artisti, guru hanno detto, pensato e “sentito” tanto, ognuno con la sua metodologia.
Mi meraviglia di più il termine “scienza” accostato a “felicità”. Piuttosto, io parlerei di “arte”, perché nella mia esperienza (non solo terapeutica), la felicità intesa come realizzazione di se stessi è un’esperienza collettiva e insieme personale non replicabile. Credo però che proprio quest’associazione tra i due termini “Scienza” e “Felicità” crei aspettative, curiosità e che pubblicazioni o programmi con questa intitolazione siano accattivanti, attirino acquirenti».
Giuseppe Sorrentino, neurologo[11], è più categorico:
«Dal punto di vista neuroscientifico la “felicità” non esiste. Esistono invece l’edonia[12], la condizione di chi prova piacere nel fare una cosa, e il suo opposto, l’anedonia.
L’edonia è certamente un driver per l’apprendimento e più in generale per portare a termine con successo un compito, per realizzare un obiettivo. Viceversa, l’anedonia, non riuscire a provare piacere, è un sintomo comune a diverse patologie, ad esempio la malattia di Parkinson, in cui i circuiti dopaminergici sono alterati.
Non mi sorprende che questa “Scienza della felicità” sia stata “inventata” negli USA, dato che negli Stati Uniti spesso si anticipano le direzioni in cui va la storia. Ma ho l’impressione che buona parte della cultura contemporanea si avviti intorno a queste cose anziché concentrarsi sui problemi reali. Poi, se lo scopo del gioco fosse accrescere lo stato edonico, tanto varrebbe ricorrere ai farmaci, che se non altro hanno un effetto comprovato».
Eugenio Mazzarella, filosofo, politico e poeta[13], è alquanto scettico:
«Non esiste un concetto universale di felicità o un metodo generale per perseguirla. Per alcuni filosofi la felicità è Dio, per altri sono le relazioni erotiche, per altri ancora è la capacità di contentarsi di ciò che si ha, la contemplazione o la rinuncia ai desideri, eccetera.
Che si pensi d’insegnare la felicità è segno che nella società ne circola poca. Queste strategie sono sintomatiche di insoddisfazione sociale e di una crisi valoriale e culturale, ma è come tentare di apporre cerotti su ferite purulente, dubito che siano rimedi efficaci. Poi, se l’azienda ti dice che devi essere felice, quello può essere un modo creativo per farti funzionare meglio. L’importante è saperlo».
Gian Mario Borra, psichiatra e psicanalista[14], che ha risposto anche a nome del suo collega Fabrizio Gambini[15], invita a diffidare:
«Bisogna distinguere tra la felicità individuale e quella pubblica. La felicità individuale è l’unica vera felicità; la felicità pubblica è la felicità “prescritta”. La felicità individuale ognuno la trova (o non la trova) per fatti suoi e la mia felicità è diversa dalla tua e da quella di un altro, al punto che possono anche entrare in conflitto. Inoltre, la felicità individuale può entrare in conflitto con la “felicità prescritta”, quella pubblica. Faccio due esempi.
Secondo la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti del 4 luglio 1776, ognuno ha diritto a perseguire la propria felicità[16]. La prima stesura della Dichiarazione fu a cura di Thomas Jefferson, padre fondatore e successivamente presidente degli USA. Jefferson era uno schiavista, proprietario di schiavi. Sua moglie gli portò in dote ulteriori schiavi appartenuti alla sua famiglia e, tra questi, Sally Hemings, che era anche la sua sorellastra, poiché suo padre, il suocero di Jefferson, aveva violentato la madre di Sally e da quello stupro era nata Sally, in condizione di schiavitù dalla nascita. Jefferson a sua volta possedette carnalmente Sally, i cui figli (suoi e di Jefferson) divennero anche loro dalla nascita schiavi di loro padre. Se Sally e i suoi figli si fossero ribellati, sarebbero stati presi a bastonate: evidentemente, la felicità personale di Jefferson e degli uomini del suo ceto e della sua mentalità non coincideva con la felicità personale di Sally e dei suoi figli, anzi la felicità degli uni era causa d’infelicità per gli altri.
Dal punto di vista della felicità pubblica, quella prescritta, andava tutto bene, perché allora la schiavitù era considerato un legittimo motore dell’economia. La Dichiarazione d’indipendenza? Di fatto era rivolta a quelli come Jefferson che l’aveva scritta, non agli schiavi che non erano titolari di diritti.
Altro esempio. Il protagonista del romanzo distopico 1984 di George Orwell era un funzionario del Ministero della Verità, aveva una serie di obblighi e godeva della felicità prescritta dal Grande Fratello, capo supremo dello Stato. Appena ebbe trovato la sua personale via per la felicità, cioè l’amore con una donna, entrò in confitto col Grande Fratello, fu catturato da agenti del Ministero dell’Amore e sottoposto a molteplici torture volte a rieducarlo fino a perdere qualsiasi desiderio di ribellione.
Probabilmente oggi si teme che la gente possa deragliare e allora si cerca di metterla in riga, anche con soluzioni come la “Scienza della felicità”, ma occorre diffidare da questi tutori. Il mio compito di specialista non è mai stato mettermi davanti a qualcuno e dispensare consigli non richiesti; il mio compito come specialista era seguire, non precedere.
Ancora sulla felicità individuale: io sono un individuo etico e sono più felice, ovvero la mia felicità è piena se anche gli altri intorno a me sono felici. A questo scopo posso arrivare a rinunciare a una parte della mia libertà, ma resta il fatto che le vie per trovare la felicità sono esclusivamente le mie».
Mi sembra di poter concludere che nessuno degli intervistati pensa che possa esistere una scienza della felicità o che insegnarla possa servire a migliorare le sorti dell’umanità.
Le conversazioni con loro e le letture che ho fatto sull’argomento mi hanno ulteriormente convinta che etichettare “Scienza della felicità” una commistione tra tecniche per il benessere individuale e prescrizioni etiche renda ambigue le finalità reali di questa operazione e discutibile la sua scientificità.
E voi cosa ne pensate?
[1] Due anni dopo, Seligman pubblicò quello che è considerato il Manifesto della Psicologia positiva: cfr. Martin E. P. Seligman e Mihály Csikszentmihalyi, Positive Psychology: An Introduction. «American Psychologist», 55 (2000), n. 1, p. 5-14.
[2] Martin Seligman, Authentic Happiness: Using the New Positive Psychology to Realize Your Potential for Lasting Fulfillment, Free Press, 2002.
[3] Cfr. B. Mazza, e M. Grasso, La scienza del benessere e i suoi fondamenti teorici: Una revisione critica del paradigma della Psicologia Positiva. «Rivista di Psicologia Clinica», 1 (2015), p. 9-32, doi: 10.14645/RPC.2015.1.526.
[4] Cfr. Butler, J., & Kern, M. L., The PERMA - Profiler: A brief multidimensional measure of flourishing. «International Journal of Wellbeing», 6(2016), n. 3, p. 1-48, doi:10.5502/ijw.v6i3.526.
[5] https://www.istat.it/statistiche-per-temi/focus/benessere-e-sostenibilita/
[6] Sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità è disponibile una pagina descrittiva della “prescrizione sociale” e la traduzione in italiano del toolkit elaborato dall’OMS: https://www.epicentro.iss.it/politiche_sanitarie/oms-toolkit-social-prescribing.
[7] https://global.oup.com/academic/product/oxford-handbook-of-happiness-9780198714620?cc=it&lang=en&
[8] Lo ha affermato nel TED Talk riportato qui: https://www.mindful.org/real-gift-negative-emotions/.
[9] Lundy Bancroft, Why Does He Do That? Inside the Minds of Angry and Controlling Men. Berkley books, 2003, cap. Ten Reasons to stay the same. Ho estratto alcuni brani dalla traduzione italiana pubblicata qui: https://ilricciocornoschiattoso.wordpress.com/2014/07/25/perche-lo-fa/.
[10] Imma Fiorito è dirigente psicologa presso la ASL Napoli1 Centro e Docente dell’Istituto di Psicoterapia relazionale di Napoli; è autrice di numerosi saggi su rivista e in volume.
[11] Giuseppe Sorrentino è stato professore ordinario di Neurologia all’Università di Napoli Parthenope, dove tuttora ha incarichi didattici; precedentemente ha lavorato al CNRS INSERM di Strasburgo e all’University of Manitoba a Winnipeg (Canada); ha diretto numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali; ha dato avvio a un laboratorio di analisi tridimensionale del corpo umano in movimento e, in collaborazione con il CNR- ISASI, a un laboratorio per lo studio del connettoma umano; è autore di un fortunato manuale tuttora in commercio e di oltre un centinaio di saggi su rivista sui temi della biologia cellulare delle demenze e del metabolismo delle cellule nervose.
[12] Il termine deriva dal nome di Hedoné, che nella mitologia greca era la figlia di Eros e Psiche, la Voluptas della mitologia latina.
[13] Eugenio Mazzarella è stato professore ordinario Storia della Filosofia e poi di Filosofia teoretica in varie università italiane e tuttora svolge incarichi didattici presso l’Università di Napoli Federico II dove è stato, tra l’altro, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia e ha diretto numerosi progetti di ricerca nazionali e internazionali. Eletto nel 2008 alla Camera dei deputati, ha fatto parte della Commissione Cultura, Ricerca e Istruzione; ha pubblicato circa 150 saggi su rivista e in volume, varie raccolte di poesie e migliaia di articoli sui maggiori quotidiani italiani.
[14] Gian Mario Borra è stato primario di Psichiatria all’Ospedale Cardarelli di Napoli. Precedentemente ha lavorato in varie cliniche pubbliche della Campania, tra cui il Frullone di Napoli dove è stato, con Sergio Piro, tra i protagonisti di Psichiatria democratica, il movimento che portò il teatro e l’arte nei manicomi e ne promosse la chiusura, avvenuta con la “legge Basaglia”, a favore di soluzioni terapeutiche rispettose dell’umanità del paziente. Successivamente a quell’esperienza ha promosso e allestito il primo servizio di assistenza psichiatrica territoriale della città.
[15] Fabrizio Gambini, psichiatra e psicanalista, ha diretto il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale Mauriziano “Umberto I” di Torino ed è autore di numerosi saggi in volume e su rivista.
[16] «tutti gli uomini sono creati uguali […] essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, tra questi diritti vi sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità»