L’ignoranza degli eruditi

Carmen Cortés Cañagueral – La nebbia
Carmen Cortés Cañagueral – La nebbia

L’ignoranza degli eruditi

 

C'è sempre da rimanere stupiti quando le peggiori bassezze e i più meschini soprusi provengono da persone levigate da anni di studio e riflessioni. Questo non per classista attribuzione di superiorità ma perché ci si aspetterebbe – da chi è dotato di qualche strumento culturale – che il senso di irrilevanza che si prova di fronte allo sconfinato campo del sapere, che più si penetra e più si divarica ulteriormente, possa operare come elemento moderatore di tracotanza e sicumera.

Ma allora perché quell'intellettuale così interessante si rivela, alla prova dei fatti, una persona da cui stare alla larga?

Raffino la domanda: cosa ce ne si fa di tanta conoscenza?

L'acquisizione della conoscenza è un fatto di emancipazione. Essa permette di ottenere degli strumenti in più sia rispetto al sé stesso di prima, sia rispetto a qualcun'altro. È quindi un processo di acquisizione di risorse. E dunque di potere.

Chi detiene una importante frazione di conoscenza, poi, deve decidere che uso farne tra due possibili.

Il primo, quello per cui potrebbero aver optato gli attori delle bassezze di cui all'incipit, è quello di un'erudizione per un consumo individualizzato ed escludente, attraversato dalla vertigine del dominio. 

Se sappiamo qualcosa è per esercitare potere e se non abbiamo abbastanza potere è perché non sappiamo abbastanza di qualcosa. Si tratterà dunque di acquisire conoscenza fino al punto critico di svolta raggiunto il quale, dopo tanto sudore, non faremo fatica a legittimare la nostra posizione dominante con la retorica del merito (scoccia autocitarsi, ma si guardi: Manifesto contro il merito).

Alla fine di questo viaggio solitario verso la vetta è probabile che il potere che si rivendicherà avrà un carattere premiale e quindi, per forze di cose, assumerà una connotazione di privilegio personale. Per questo motivo si è studiato tanto e si sono fatti tanti sacrifici, come le notti insonni vegliate all'ombra del rancore del giudice di Fabrizio de André. 

Sia beninteso: l'erudizione è una tappa fondamentale nel processo di conoscenza. Chi non vorrebbe farsi curare dal medico più competente? O chi non vorrebbe abitare la casa costruita dal miglior ingegnere? O chi non vorrebbe volare su un aereo guidato dal miglior pilota?

Ma fermarsi a questo modo di procedere non aggiunge vita: o la distrugge, o le è indifferente. Nelle parole di William Hazlitt (1778-1830) nel suo L'ignoranza delle persone colte (ma io preferirei sostituire erudite a colte), l'erudito non pensa e non si interessa dei suoi vicini di casa, ma è al corrente di usi e costumi delle tribù e delle caste degli indù e dei tartari calmucchi

È però possibile una seconda via e credo sia quella che ben individua Ignazio di Loyola nei suoi Esercizi Spirituali: non è il molto sapere che sazia o soddisfa l’anima, ma il sentire e gustare le cose internamente. È la differenza che passa tra sapere e comprendere. Tra l'acquisire una dottrina per solo studio o lasciarsi ammorbidire dalle cose che, dopo essere entrare in testa, penetrano ancor più in profondità.

Come dire: non è una cassetta piena di attrezzi a soddisfarmi, ma il saper usare bene qualcuno di questi attrezzi, sia per dare un senso alla realtà che per modificarla. 

Allora, pochi strumenti possono dare senso e direzione. In questo modo l'erudizione, impastata con l'esperienza, diventa cultura. Che etimologicamente rimanda al coltivare. Processo tutt'altro che semplice perché richiede di dissodare, irrigare, seminare, curare, fare i conti con gli imprevisti naturali e antropici. Insomma: un mettersi in discussione integrale.  

In questo caso la precondizione è un'umiltà che ha un ché di socratico. Chi si rende conto di sapere qualcosa, sa che è sempre poco, ma si dispone all'accompagnamento altrui, perché fa i conti con i propri limiti e li assume per metterli in comune con altri, che ne hanno di diversi, e quindi progredire.

Ho trovato una definizione di cultura in un articolo di Giovanni Casoli del 2010, per Città Nuova, in cui la descrive, a mio parere, in modo sublime. La cultura è quella che non si fa avanti e non sgomita e non si fa valere e non trama per la carriera e si vergogna dei premi letterari – io premio te, tu premi me – e non cerca il cavalierato; perché è troppo occupata, lei, la cultura, a correggersi, affinarsi, a estrarre, distillare, elaborare, faticando più di un facchino, e, sì, a contemplare, perché senza contemplazione – non pagata – le parole, anche quelle della cultura, non cessano di avere sapore di chiacchiera. [...] Quello che sant’Agostino diceva di Dio: «Si fa cercare perché sia più dol­ce trovarlo, e si fa trovare per farsi cercare con accresciuto desiderio», lo dice di sé stessa, perché sa, lei relativa, di avere radici assolute di esigenza e di amore.

Ecco che possiamo a questo punto intuire alcuni aspetti fondamentali della differenza tra erudizione e cultura.

L'erudizione è strutturalmente parziale, ovvero mira a conoscere una parte molto limitata dello scibile umano. La cultura – pur assumendo questo limite – si caratterizza per la ricerca di una visione profonda e integrale del mondo, con una finalità edificatrice, ovvero aggiungere vita. 

La cultura è aperta alla (e diventa tale con la) esperienza, che non è mai solo individuale. Infatti essa considera in partenza che da sé stessi non ci si può bastare e si ha bisogno di altri che sappiano qualcosa che noi non sappiamo. La cultura è dunque necessariamente relazionale. L'erudizione può avvitarsi nel solipsismo.

Un orizzonte solamente di erudizione mira alla contentezza (ovvero all'appagamento di un contenitore finito), mentre la cultura guarda alla felicità, ovvero ad una fecondità che va oltre il sé (ancora un'antipatica autocitazione, ma i temi che provo a trattare sono collegati). 

Dopo anni di lavoro a testa bassa, figlio dell'ossessione ombelicocentrica di realizzarsi, ossa e muscoli saranno anchilosati e sarà molto doloroso alzare la testa per guardare al mondo circostante. Per questo l'erudizione ha sé stessi come punto di arrivo. Diversa è la cultura, che assume sé stessi come punto di partenza. A cascata, se l'erudizione si estingue col soggetto, la cultura si tramanda perché aggiunge.

Se la conoscenza per l'erudizione è uno strumento di esercizio di potere come privilegio, per la cultura è un servizio. L'una affina le risposte, l'altra le domande.

L'erudizione può sapere molto ma comprendere poco. La cultura può sapere poco ma comprendere molto. 

L'erudizione rischia di degradare al rango di una conoscenza triste, come la passione che ne ha mosso la motivazione ad acquisirla. Non riuscendo ad avere un buon sapore, difficilmente diverrà sapienza.