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Inutile

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Inutile

Se conoscessi una cosa utile alla mia nazione che però fosse deleteria per un’altra, non la proporrei al mio principe, poiché, prima di essere un francese, sono un uomo, (o meglio) sono necessariamente un uomo, mentre sono francese solo per caso.

Se fossi a conoscenza di qualcosa che mi fosse utile, ma risultasse pregiudizievole per la mia famiglia, lo scaccerei dalla mia mente. Se conoscessi qualcosa di utile alla mia famiglia, ma non alla mia patria, cercherei di dimenticarlo. Se conoscessi qualcosa di utile alla mia patria, ma dannoso all'Europa, oppure di utile all'Europa e pregiudizievole per il genere umano, lo considererei un delitto.

(Montesquieu, 'Pensieri diversi')

 

Aggettivo dal latino inutĭlis, che sta ad indicare tutto ciò che non dà vantaggio, infruttuoso, inconcludente, inefficace.

In questi tempi – agitati e concitati – è normale ed obbligatorio quasi lasciare andare ciò che è inutile, per dedicarci a ciò che può procurarci al contrario un vantaggio, il più delle volte traducibile in termini economici.

Ma cosa ci spinge a definire qualcosa come utile e un’altra come inutile?

Questa domanda ha infiammato il dibattito di filosofi da tempo tanto che, ad esempio, nel suo “Esercizi spirituali e filosofia antica” Pierre Hadot affermò che «il ruolo della filosofia è proprio quello di rivelare agli uomini l’utilità dell’inutile o, se si vuole, di insegnare loro a distinguere tra i due sensi della parola utile». 

Parlare di utilità dell’inutile sembra voler insistere su un paradosso. Eppure basta guardarci intorno per renderci conto che questi due concetti sono estremamente legati fra loro.

Il corso di calligrafia seguito da Steve Jobs dopo aver abbandonato gli studi al Reed College di Portland (Oregon), materia non solo distante dal mondo della tecnologia, ma anche contrapposta perché legata al passato, a prima vista sarebbe potuto apparire inutile per lo sviluppo della sua carriera professionale e assolutamente marginale per il suo curriculum. Quel corso, invece, 10 anni più tardi, avrebbe determinato l’elemento distintivo di un particolare personal computer che ha segnato la fortuna della sua società. La progettazione del primo Mac e successivamente la “tipografia individuale” che ora tutti i computer possiedono era ancorata proprio a quanto sembra inutile.

Sempre rimanendo nel campo scientifico, in linea generale la maggior parte delle scoperte e delle invenzioni hanno tratto origine da ricerche c.d. “inutili”, prive di uno scopo determinato, ma orientate a intenti puramente speculativi, come nota Nuccio Ordine nel suo manifesto intitolato  “L’utilità dell’inutile”. Anzi, proprio il carattere causale (causale) delle scoperte, non vincolate alla ricerca applicata, ha fatto sì che fossero  “favorite da una mente aperta e curiosa”.

Soffermandoci sul concetto di utilità nel campo dell’insegnamento e delle attività culturali in generale, la notoria contrapposizione tra le scienze umanistiche e i saperi scientifici ci porta a identificare le prime come “inutili” e i secondi come “utili”. Eppure basta prendere un solo esempio, però degno di menzione solitaria, per confutare tale classificazione: Carlo Azeglio Ciampi. Egli fu Governatore della Banca di Italia, Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro del Tesoro e del bilancio e della programmazione economica, Presidente della Repubblica, Governatore onorario della Banca di Italia, oltre ad aver ricoperto numerosi incarichi di rilevanza internazionale, tra cui quelli di presidente del Comitato dei governatori della Comunità europea e del Fondo europeo di cooperazione monetaria, vicepresidente della Banca dei regolamenti internazionali, presidente del Gruppo Consultivo per la competitività in seno alla Commissione europea e presidente del comitato interinale del Fondo Monetario Internazionale. Carlo Azeglio Ciampi, dopo essersi laureato in lettere, iniziò la sua carriera lavorativa come insegnante di Lettere Italiane e Latine al liceo classico e tale formazione umanista ha impregnato tutti i suoi discorsi e la sua attività da politico, economista e banchiere.

Tempo fa, durante la lettura di una intervista alla filosofa Agnes Heller, mi sono imbattuta in questo suo pensiero: «Se qualcuno dovesse chiedermi, come filosofa, che cosa si dovrebbe imparare al liceo, risponderei: “Prima di tutto, solo cose ‘inutili’, greco antico, latino, matematica pura e filosofia. Tutto quello che è inutile nella vita”. Il bello è che così, all’età di 18 anni, si ha un bagaglio di sapere inutile con cui si può fare tutto. Mentre col sapere utile si possono fare solo piccole cose» [1].

Da queste parole emerge la miopia di una concezione utilitaristica del sapere e, di contro, la vastità degli orizzonti che si aprono a chi non rifugge dalle scienze umane.

L’essenza della cultura, come spiega sapientemente Ordine [2], si fonda sulla gratuità, non sull’aziendalismo delle scuole e delle università: lo studio è prima di tutto acquisizione di conoscenze prive di connotazioni utilitaristiche, che ci fanno crescere rendendoci più autonomi. «E proprio l‘esperienza dell’apparentemente inutile e l’acquisizione di un bene non immediatamente quantificabile si rivelano investimenti i cui profitti vedranno la luce nella longue durée».

Da tempo si parla della direzione professionalizzante che dovrebbero imboccare le scuole e le università, come se questi fossero luoghi deputati solo a formare lavoratori, perdendo di vista il ruolo educativo dell’istruzione, oltre che quello di erogare competenze tecniche.

Prima di diventare avvocati, ingegneri, medici, bisognerebbe pensare a diventare “uomini” e“donne” consapevoli di sé a prescindere da ogni connotazione utilitaristica del proprio sapere, altrimenti si correrebbe il gravissimo rischio di identificare l’essere umano con il proprio “mestiere”. L’università non deve trovare un lavoro ai propri studenti, ma fornire gli strumenti per decidere dove e come trovarlo.

E, come fa notare magistralmente Ordine, senza questa dimensione pedagogica del sapere scevra da ogni utilitarismo, l’uomo difficilmente si allontanerebbe dal proprio egoismo “per abbracciare il bene comune, per esprimere solidarietà, per difendere la tolleranza, per rivendicare la libertà, per proteggere la natura, per sostenere la giustizia…”.

Se trasponessimo questo discorso all’ambiente lavorativo e focalizzassimo l’attenzione sui progetti di formazione offerti ai dipendenti, noteremmo che essi raramente rispondono alla concezione non utilitaristica del sapere. Una facile obiezione a tale constatazione potrebbe essere la più che giustificata necessità di utilizzare i soldi pubblici o dell’azienda per la professionalizzazione delle risorse umane, lasciando all’otium di queste ultime la facoltà di irrobustire il proprio bagaglio culturale attraverso corsi o letture che “nutrano” l’essere umano.

Eppure se ogni azienda o PA si preoccupasse di elevare la crescita “umana” dei propri dipendenti, oltre che quella legata al ruolo di ciascuno di essi, ne avrebbe un diretto beneficio in termini di etica, senso di appartenenza e miglioramento della propria produttività con inevitabili ricadute positive nel rispetto della normativa che dovrebbe impregnare ogni Ente: quella che si occupa della diminuzione dei rischi corruttivi.

Un dipendente reso consapevole del proprio lato “umano” attraverso un percorso formativo “inutile” offerto dal proprio datore di lavoro si identifica nei valori fatti propri dall’Azienda/Ente attraverso quel corso e sente di appartenervi; come tale non potrà che apportare benefici all’Ente mettendo a disposizione della stessa non solo le proprie competenze tecniche, ma anche il proprio bagaglio emotivo e spirituale, tale da esaltare e rendere maggiormente efficienti le prime.

Per riprendere alcune magnifiche parole che il prof. Lodigiani ha voluto tempo fa condividere con me, «solo attraverso la cura della crescita interiore della persona si può crescere» - anche come azienda o Ente, aggiungerei io - e “la cosiddetta inutilità favorisce l’avanzata dell’essere”, presente dietro ogni ruolo e, dunque, in ogni Ente/azienda. 

Utile, insomma, è ciò che contribuisce a renderci migliori e ci eleva a esseri umani pienamente compiuti e realizzati, a prescindere dal ruolo, con ricadute positive anche su di esso.

Note: 

[1] Tratto dal libro “Solo se sono libera”, Castelvecchi, 2017.

[2] Nuccio Ordine, “L’utilità dell’inutile”, Firenze 2013