Purché ne sian degni

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Purché ne sian degni

 

«Essere nominati direttori di qualcosa non fa di voi persone migliori di quello che siete! Prenderne atto e fare un passo indietro, invece, vi farebbe onore».

Un grido di rabbia e sdegno fuoriuscito dalle mura di una pubblica amministrazione.

Qualcuno doveva essersi imbattuto in un qualche dirigente poco degno, là dentro.

E, nel suo sbotto, a quel qualcuno è pure riuscita una sintesi sorprendente del pensiero di Cicerone che, più di duemila anni fa, nel primo secolo avanti Cristo, ragionava sul concetto di dignitas.

In un bell’articolo di Maria Cristina Torchia del 30 settembre 2019, consultato sul sito web dell’Accademia della Crusca il 15 ottobre 2024, si legge che, per Cicerone, la dignitas stava in diretto rapporto con le cariche pubbliche e consisteva nel possesso delle qualità morali che rendevano un uomo adatto a ricoprire un incarico preminente nella società. Da qui, nel tempo, la parola dignitas passa a significare la carica in sé. Nel suo articolo, Torchia riferisce che il primo significato documentato della parola dignità è proprio questo: “carica elevata, alto ufficio che comporta onori, preminenza, autorità”.

In effetti capita ancora di leggere espressioni come “Raggiungere le più alte dignità nel governo”, “La cerimonia si è svolta con la partecipazione delle più alte dignità civili e religiose”.

Prosegue, Torchia, osservando che in questo passaggio dall’astratto al concreto c’è uno spostamento di senso, per cui è il fatto stesso di ricoprire un certo ruolo nella società a conferire valore, prestigio, autorità, rispettabilità e non viceversa. A rafforzare quest’osservazione, dall’altra parte stanno gli idioti, ovvero gli individui privati, quelli senza cariche pubbliche. In questo caso, sorvoleremo sullo spostamento di senso, benché molto eloquente riguardo al rapporto non sempre di reciproca stima tra le due parti …

Senza scomodare le alte cariche pubbliche, lo spostamento della dignità dalla persona al ruolo si osserva anche tra coloro che ricoprono incarichi dirigenziali all’interno della pubblica amministrazione.

Spesso, ciò che motiva una persona ad aspirare a un posto di dirigente è, prima ancora del vantaggio economico, il prestigio sociale che da tale posto gli deriverà, unito a un’inebriante e abbagliante sensazione di potere. E proprio di un abbaglio si tratta: un dirigente vero non è al comando, ma al servizio. Ha l’arduo compito di creare le condizioni di lavoro idonee al raggiungimento del fine istituzionale dell’ente a cui appartiene. E lo deve fare nel rispetto della legalità, dell’imparzialità, dell’economicità e di altri nobili principi costituzionali, districandosi tra vincoli e pressioni di ogni sorta. Il solo potere che ha (tralasciando le inevitabili derive) è quello discrezionale, che gli consente di svolgere il proprio lavoro con ampio margine di autonomia decisionale, salvo poi motivare e rispondere di ogni scelta e azione compiuta. Scelte e azioni che hanno lo scopo di rimuovere gli ostacoli al buon andamento del servizio, trovare soluzioni efficaci e durevoli, valorizzare qualità, attitudini e competenze di chi fa squadra con lui, oriendandole al fine ultimo istituzionale, l’erogazione delle prestazioni.

Orientare essendo a propria volta orientati.

Nell’accezione più estesa, il vocabolario Treccani definisce l’umanesimo come orientamento che riconosce la centralità dell’uomo e della sua dignità. E il motto di Umanesimo Manageriale 2.0 recita: “La persona al centro dell’agire del manager etico”. Forse a dire che c’è vita oltre il profitto!? Si potrebbe allora affermare che il manager e il dirigente etici sono orientati al bene comune e lavorano per le persone. I punti cardinali della bussola che li aiuta a mantenere la rotta sono valori e atteggiamenti quali il rispetto reciproco, lo spirito di collaborazione, il senso di responsabilità e la fiducia.

Persone apprezzate e coinvolte difficilmente entreranno a far parte di quel 15% di lavoratori attivamente disingaggiati, quelli che la società californiana di analisi e consulenza Gallup, nel suo report 2024 sullo “State of the global Workplace”, definisce come lavortori che mettono tempo ed energie per sabotare il lavoro e l’organizzazione. Nella peggiore delle ipotesi, potrebbero decidere di fare il minimo sindacale, schierandosi nelle folte fila dei non ingaggiati (72%), ma almeno non remeranno contro. Allo stesso modo, utenti ascoltati e capiti non se ne andranno da un ufficio pubblico gridando rabbia e disprezzo.

E qui entra in gioco il 13% mancante poco più sopra, ovvero gli ingaggiati, che Gallup definisce come persone coinvolte ed entusiaste che fanno da traino per tutta l’organizzazione: sarà stato uno di loro ad ascoltare e capire gli utenti summenzionati?

Riguardo agli ingaggiati, quel che conta è che sappiano valutare consapevolmente e con onestà le proprie attitudini, competenze e potenzialità. Essi, infatti, godono spesso di un alto indice di gradimento ai piani alti, dove salgono a chiedere, ottenendoli, incarichi per i quali non sempre sono adatti. Assumere un ruolo dirigenziale sapendo, in cuor proprio, di non possedere le competenze e le qualità necessarie, dovrebbe far tremare le vene ai polsi. Saper fare quel passo indietro invocato dall’utente arrabbiato, rivelerebbe un lodevole buon senso. Purtroppo, più del buon senso, può fare la vanagloria.

Da qui, il diffondersi di una nube tossica in tutta l’organizzazione.

Per la scarsa visibilità causata dalla nube si può far ricorso alla bussola, puntando sul senso di responsabilità verso colleghi e utenti, che consentirà di aprire le finestre per far defluire la nebbia sostituendola con aria nuova e limpida; per la tossicità assorbita, invece, serve un antidoto. Andarsene per un po’ offre un primo sollievo. Molti optano per l’abbandono definitivo. Per quelli che rientrano, l’antidoto è la condivisione di idee ed esperienze con persone, anche sconosciute, che siano immediatamente percepite come felix, feconde, capaci di superare qualcosa di storto con qualcosa di generativo. Qui è doveroso e gradito dire che questo concetto di “persone feconde” viene da un balsamico articolo di Aldo Piccone, pubblicato il 12 giugno 2024 su www.filodiritto.com, nella rubrica UM 2.0, curata da Gianni Penzo Doria. L’articolo è intitolato “Ancora sulla felicità. La terza via”.

La consolazione, gli spunti di riflessione e la rinnovata energia che derivano dal confronto con persone felici risvegliano la fiducia che dare il meglio di sé, con tutta la dignità di cui si dispone, non è mai invano, tanto più in un’organizzazione storta.