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L’Umanesimo al centro della futura riforma della PA?

Sfumature
Ph. Cinzia Falcinelli / Sfumature

Leggere e studiare la Costituzione, a prescindere da un corso di laurea in Giurisprudenza, provoca da un lato un senso di appartenenza al nostro "Stato Italiano" e dall'altro un senso di sicurezza, protezione.

Dentro c'è tutto quello che serve per farci sentire difesi dalle condotte, dagli atti, dai comportamenti, così come dalle leggi e dai provvedimenti normativi illegittimi.

Eppure questi ultimi non sono mancati negli ultimi anni: norme che rasentano la legittimità, altre percepite come ingiuste.

Una di questa è stata la c.d. "Riforma Brunetta", che ha interessato l’amministrazione pubblica sin dal 2008 e che sicuramente ha apportato notevoli cambiamenti nell’attività delle amministrazioni pubbliche, omogeneizzandola alla disciplina privatistica in un'ottica di efficientamento e di accountability.

Ma ciò che è stato da subito percepito davvero come  “indigesto” è stata la regolamentazione delle assenze per malattia. Sono state infatti introdotte delle iniziative legislative (confluite nel D.L. 112/2008, convertito nella legge n. 133/2008) volte a disincentivare il ricorso opportunistico alle assenze per malattia. L’articolo 71, co. 1, del citato decreto legge n. 112 del 2008 prevede, infatti, che, per i primi dieci giorni di assenza per malattia, ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni sia corrisposto solo il trattamento economico fondamentale, con esclusione di “ogni indennità o emolumento, comunque denominati, aventi carattere fisso e continuativo, nonché di ogni altro trattamento accessorio”.

In pratica la legge opera una presunzione di “fannullaggine” in capo a ogni dipendente pubblico che si assenta per malattia e la riconosce solo dall’undicesimo giorno in poi. Così, per porre un argine a dei fenomeni distorsivi della normativa di settore, si utilizza la fonte legislativa primaria per fare populismo, ma soprattutto per ledere e discriminare le fasce di lavoratori più fragili[1]. Sebbene tale norma non sia stata mai dichiarata apertamente incostituzionale (anzi la Corte Costituzionale, nella sua famosa sentenza n. 120/2012, ha operato il bilanciamento di interessi tra il diritto alla salute e il buon andamento della pubblica amministrazione a favore di quest’ultimo, considerando la misura introdotta una efficace forma di razionalizzazione della finanza pubblica), ha inevitabilmente creato una “rottura” nel rapporto dipendente pubblico - ente di appartenenza.

Per sconfiggere la furbizia di alcuni (o forse l’inadeguatezza dei sistemi di controllo in capo a ciascuna P.A.) si è minato un equilibrio fondamentale: quello basato sul senso di appartenenza a una istituzione che crede nei propri dipendenti e conta su di loro per la sua sopravvivenza e  la sua efficacia sul mercato.

Si è declassato un diritto fondamentale, quale quello alla salute, per tutelare un’esigenza di rango primario, quale quella di controllo della spesa pubblica, penalizzando il dipendente dal punto di vista economico e costringendo il lavoratore ammalato a rimanere in servizio pur di non subire la decurtazione retributiva, anche a costo di compromettere ulteriormente la salute. Circostanza questa ancor più inaccettabile nell’attuale contesto storico caratterizzato da una pandemia globale.

E allora ecco che compare il ministro Brunetta che, attraverso una sua recente conferenza stampa, ha presentato una riforma liberale della pubblica amministrazione, manifestando un orientamento diverso rispetto a quello a cui ci aveva abituato, quasi più “umano”: intende rivedere tutte le norme che hanno introdotto meccanismi troppo “punitivi”, a partire dal danno erariale fino ad arrivare all’ipertrofia normativa in tema di prevenzione della corruzione, oltre a guardare di buon occhio lo smart working.

Ma se si vuole creare un nuovo clima basato su un rapporto di fiducia tra Stato e cittadino e in particolare tra P.A. e lavoratore, risulta prioritario eliminare la presunzione di illegittimità del comportamento del dipendente, soprattutto quando ne va di mezzo la salute.

L’arma per sciogliere questa contraddizione in senso sociale è la Costituzione, “spesso insidiata, trascurata, sottoposta alle intemperie di velleitari e proditorii manifesti di revisione e modifica[2]: basterebbe leggere gli articoli 3, 32, 36 e 38 della nostra Carta Fondamentale, capire gli intenti dei suoi Padri Fondatori, carpirne l’humus dal quale è fiorita e applicarli al buon andamento e all’imparzialità della pubblica amministrazione invocati dall’articolo 97.

La Costituzione è la chiave di volta del restyling di ogni amministrazione pubblica, perché una riforma che mina il rapporto dipendente – ente di appartenenza, azzerando il clima di fiducia tra le due parti in nome di un asserito risparmio pubblico, è una riforma se non incostituzionale, quantomeno (anche percepita come) ingiusta.

 

[1] Sul punto l’interessante articolo del prof. Marco Plutino, pubblicato su www.huffingtonpost.it, dal titolo “Riforma P.A.: subito via il taglio di stipendio per malattia

[2] Per usare le parole di Daniele Piccione , Consigliere parlamentare del Senato della Repubblica, Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l'Università La Sapienza di Roma.