Contratto della PA senza forma scritta ed esperibilità dell’azione di arricchimento senza causa

Contratto della PA senza forma scritta ed esperibilità dell’azione di arricchimento senza causa
ABSTRACT: La PA, anche quando abbia reso prestazioni in favore del privato senza alcun contratto scritto, deve comunque ritenersi legittimata ad esperire l’azione di arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 c.c. . Ciò in quanto nell’ordinamento è previsto l’istituto del silenzio assenso, dal quale si evince che la violazione dell’obbligo della forma scritta negli atti della PA non impedisce il sorgere, oltre che di diritti a favore del privato (in virtù, appunto, del tacito accoglimento dell’istanza), anche di obblighi a carico del medesimo. Questo sta ad indicare che l’obbligo della forma scritta nei rapporti contrattuali della PA non può considerarsi come stabilito da una norma “imperativa”.
The PA, even when it has rendered services in favor of the private individual without any written contract, must still be considered entitled to bring the action for unjust enrichment referred to in art. 2041 of the Italian Civil Code. This is because the legal system provides for the institution of silent consent, from which it can be deduced that the violation of the obligation of the written form in the acts of the PA does not prevent the arising, in addition to rights in favor of the private individual (by virtue, precisely, of the tacit acceptance of the application), also of obligations on the part of the same. This indicates that the obligation of the written form in the contractual relations of the PA cannot be considered as established by a "mandatory" rule.
L’art. 2042 c.c. stabilisce che l’azione di arricchimento senza causa “non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un'altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito”. Tale “altra azione” potrebbe essere, in teoria, quella di ripetizione d’indebito di cui all’art. 2033 e ss.., in quanto le due azioni sono coincidenti, sia nei presupposti che negli effetti. Tuttavia, anche per l’azione di ripetizione dovrebbe essere previsto che essa non possa essere esercitata quando lo stesso risultato è conseguibile utilizzando altri strumenti di tutela previsti (p. es. domanda di annullamento del contratto).
Pertanto, all’esperibilità dell’azione di arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 c.c. . non osta il fatto che sia presente nell’ordinamento l’azione di ripetizione d’indebito di cui all’art. 2033 e ss., in quanto quest’ultima dovrebbe essere sottoposta allo stesso limite che l’art. 2042 c.c. prevede per la prima.
Uno strumento di tutela (domanda di ripetizione) non può essere considerato come preclusivo di un altro strumento di tutela (domanda di arricchimento) se deve essere soggetto agli stessi limiti di quest’ultimo.
The art. 2042 c.c. establishes that the action of unjust enrichment "is not possible when the injured party can exercise another action to obtain compensation for the damage suffered". This "other action" could, in theory, be that of recovery of undue payments referred to in the art. 2033 et seq., as the two actions are coincident, both in terms of conditions and effects. However, even for the action for repetition it should be provided that it cannot be exercised when the same result can be achieved using other protection tools provided for (e.g. request for annulment of the contract).
Therefore, the possibility of unjust enrichment action referred to in art. 2041 c.c. . does not preclude the fact that the action for recovery of undue payments referred to in the art. is present in the legal system. 2033 et seq., as the latter should be subject to the same limit as the art. 2042 c.c. foresees for the first.
An instrument of protection (application for repetition) cannot be considered as preclusive of another instrument of protection (application for enrichment) if it must be subject to the same limits as the latter.
La Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su una fattispecie in cui il Comune aveva provveduto all’erogazione di una fornitura idrica in favore di un privato senza alcun contratto scritto. A seguito del mancato pagamento, da parte del privato, dei canoni previsti, il Comune aveva emesso un’ingiunzione di pagamento, la quale, tuttavia, era stata dichiarata nulla dal Giudice di primo grado, in quanto relativa ad un rapporto che non era stato formalizzato mediante accordo scritto.
Essa, con l’ordinanza interlocutoria n. 1284/2025, ha sollevato tre questioni di particolare rilevanza giuridica, rimettendole alle Sezioni Unite per un chiarimento definitivo.
Prima questione: se l’azione di arricchimento senza causa sia compatibile con la nullità per mancanza della forma scritta nei contratti pubblici. L’ordinanza sottolinea come le norme sulla forma scritta, poste a tutela dell’art. 97 Cost., siano di natura imperativa e quindi teoricamente ostative all’azione di arricchimento.
L’art. 16 del R.D. N. 2440/1923 stabilisce che “i contratti sono stipulati da un pubblico ufficiale delegato a rappresentare l'amministrazione”.
L’art. 17 prevede che “i contratti a trattativa privata, oltre che in forma pubblica amministrativa nel modo indicato al precedente art. 16, possono anche stipularsi: per mezzo di scrittura privata firmata dall'offerente e dal funzionario rappresentante l'amministrazione; per mezzo di obbligazione stessa appiedi del capitolato; con atto separato di obbligazione sottoscritto da chi presenta l'offerta; per mezzo di corrispondenza, secondo l'uso del commercio, quando sono conclusi con ditte commerciali”.
L’obbligo della forma scritta nei contratti della PA si deduce anche dall’art. 1 della Legge 241/90, (di seguito “Legge”) a norma del quale l’attività amministrativa deve basarsi, tra l’altro, sui criteri della “pubblicità” e della “trasparenza”.
Tuttavia, in merito si osserva quanto segue.
A norma dell’art. 11 della stessa Legge, gli accordi integrativi e/o sostitutivi del provvedimento “debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti.” Pertanto, l’obbligo della forma scritta ad substantiam, ossia ai fini della validità del contratto, sussiste, ma solo se la legge non preveda diversamente. La domanda è questa: una norma può dirsi effettivamente imperativa anche laddove (come in questo caso) venga fatta salva una diversa previsione di legge? Un “atto di imperio” è quell’atto che non soltanto viene imposto contro la volontà di coloro che ne sono destinatari (questa è una caratteristica della “legge” in generale), ma assume anche la consistenza di un “principio” il quale riveste una rilevanza “fondamentale” all’interno dell’ordinamento, dovendo considerarsi un pilastro di quest’ultimo, al pari di un principio costituzionale. Se così non fosse, non vi sarebbe alcuna differenza tra una norma “comune” ed una norma “imperativa”. Pertanto, la “imperatività” di una norma si traduce, necessariamente, nella “inderogabilità” della medesima, ossia nell’impossibilità che diverse ed ulteriori previsioni di legge possano scalfirne il contenuto.
A conferma di ciò, l’art. 1423 c.c. stabilisce che ““il contratto nullo non può essere convalidato, se la legge non dispone diversamente”. Un contratto nullo per mancanza di forma scritta non è convalidabile, ma la legge può anche prevedere che possa essere convalidato. La convalida è prevista dal codice civile per il vizio di annullabilità del contratto: a norma dell’art. 1444 c.c., “il contratto annullabile può essere convalidato dal contraente al quale spetta l'azione di annullamento, mediante un atto che contenga la menzione del contratto e del motivo di annullabilità, e la dichiarazione che s'intende convalidarlo”. Tuttavia, la convalida può essere non soltanto espressa, ma anche tacita: infatti, lo stesso art. 1444 c.c., al comma 2, prevede che “il contratto è pure convalidato, se il contraente al quale spettava l'azione di annullamento vi ha dato volontariamente esecuzione conoscendo il motivo di annullabilità”. Tale principio, applicato alla fattispecie del contratto nullo per mancanza di forma scritta, comporta che quest’ultimo possa essere convalidato non soltanto in modo espresso, e cioè attraverso la stipula postuma dell’accordo, ma anche tacitamente, ossia mediante l’adempimento degli obblighi che dal medesimo sono derivati (“esecuzione”).
Ma in questo caso qual è la “legge che dispone diversamente”, ossia quella in base alla quale il contratto della PA può essere stipulato anche senza forma scritta (art. 11 della Legge) e/o quella in base alla quale anche un contratto nullo (per mancanza di forma scritta) può essere convalidato (art. 1423 c.c.)?
L’obbligo della PA di utilizzare, nei rapporti con il privato, la forma scritta, è stabilito dall’art. 2 comma 1 Legge, il quale impone alla stessa di concludere il procedimento amministrativo con un provvedimento che sia “espresso”, e cioè venga formalizzato per iscritto. Talvolta la legge, nel caso in cui il provvedimento “espresso” non venga adottato, prevede l’istituto del silenzio assenso: la mancata osservanza della forma scritta comporta l’accoglimento dell’istanza del privato. L’ordinamento, se considerasse la “forma scritta” come un principio inderogabile e quindi come un qualcosa che “non può non esserci”, non prevederebbe il silenzio assenso: esso, coerentemente, dovrebbe prevedere che il privato, dinanzi alla mancata risposta scritta, debba proporre una domanda giudiziale volta ad ottenere una sentenza che condanni la PA a fornire tale risposta (che, naturalmente, potrà essere di accoglimento così come di diniego dell’istanza). Invece non accade questo: il silenzio assenso non soltanto è presente nell’ordinamento, ma, ai sensi dell’art. 29 comma 2 ter della Legge, attiene “ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione”. Quindi, la violazione, da parte della PA, dell’obbligo di rispettare la forma scritta, è fonte di ampliamento (vedi silenzio assenso) della sfera giuridica del privato. Quest’ultimo, in tal modo, riesce a conseguire, senza alcun provvedimento “espresso” e quindi senza alcun “atto scritto”, i benefici che aveva richiesto presentando la propria istanza.
Ebbene, il punto è questo: il silenzio assenso, come costituisce in capo al privato determinati diritti, conferisce al medesimo anche alcuni obblighi, che sono quelli di provvedere a tutti gli adempimenti previsti al fine di mantenere tali diritti. Tali obblighi possono essere quello di pagare annualmente l’imposta comunale, oppure, più in generale, di astenersi dal compiere un’attività che potrebbe ledere l’interesse pubblico oppure altro interesse privato egualmente meritevole di tutela. Quindi la violazione, da parte della PA, dell’obbligo della forma scritta, anche se genera, in favore del privato, dei diritti (tacito accoglimento dell’istanza), non determina una “assenza di obblighi” da parte del medesimo.
In base a tale principio, allora, anche nel caso in cui la PA abbia reso in favore del privato una prestazione senza sottoscrivere con il medesimo un previo accordo ed abbia quindi violato l’obbligo della forma scritta, la situazione è la stessa: da un lato, la PA ha erogato un servizio al privato e quindi ha, tacitamente, riconosciuto il medesimo quale titolare di un “diritto”, dall’altro lato quest’ultimo deve adempiere all’ “obbligo” del pagamento dei canoni previsti a titolo di corrispettivo del servizio stesso.
Non appare esservi alcuna fondata ragione di distinguere tra quando la violazione dell’obbligo della forma scritta ha riguardato un provvedimento (art. 2 comma 1 Legge) e quando la medesima ha avuto ad oggetto un rapporto negoziale (come accaduto nella fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento). Ciò in quanto, in base all’art. 11 comma 4 bis della Legge, la stipula di accordi sostitutivi od integrativi del provvedimento deve essere sempre preceduta da una “determinazione”, la quale è, a sua volta, un provvedimento. Quindi, siccome la vita del contratto è legata alla vita del provvedimento, tutto ciò che la legge prevede per il provvedimento (vedi obblighi del privato derivati dal silenzio assenso, ossia in mancanza della forma scritta) si estende, automaticamente, anche al contratto, proprio in virtù di tale rapporto di dipendenza. Pertanto, la violazione dell’obbligo della forma scritta, se non viene considerata dalla legge come ostativa alla nascita di obblighi da parte del privato (oltre che di diritti in favore del medesimo) neppure quando essa abbia riguardato un “provvedimento”, ossia l’atto tipico con cui si esplica la funzione amministrativa, a maggior ragione non potrà essere considerata ostativa al sorgere dei suddetti obblighi quando la stessa abbia riguardato un “contratto”, il quale è sempre subordinato al provvedimento.
Quindi, al quesito sopra formulato – ossia qual è la “legge che dispone diversamente” (art. 11 della Legge ed art. 1423 c.c.) rispetto all’obbligo della forma scritta – si deve rispondere: l’istituto del silenzio assenso. Come abbiamo visto (art. 29 comma 2 ter della Legge), a quest’ultimo viene assegnata una rilevanza costituzionale. Ed allora la tesi secondo cui la mancata osservanza della forma scritta violerebbe il principio del “buon andamento” dell’azione amministrativa di cui all’art. 97 della Costituzione, suscita più di qualche dubbio.
Nel caso di specie, il privato, che avrebbe potuto opporre la nullità del contratto di fornitura idrica per mancanza di forma scritta, ha comunque ricevuto tale fornitura, e quindi ha beneficiato dei vantaggi derivati dalla prestazione dell’Ente pubblico. Egli, perciò stesso, deve considerarsi anche tenuto ad adempiere ai correlativi obblighi (pagamento dei canoni). Di conseguenza, la PA, nel caso di inadempimento a tali obblighi, deve considerarsi legittimata ad esercitare l’azione giudiziale di arricchimento senza causa (art. 2041 c.c.).
Seconda questione: se la PA possa considerarsi “soggetto impoverito” ex art. 2041 c.c., e se, di conseguenza, essa possa dirsi effettivamente legittimata ad esperire l’azione ivi prevista.
La risposta a tale quesito è già stata fornita al punto 1): poiché il rapporto instaurato in via di fatto, ossia senza contratto, con il privato per l’erogazione idrica deve considerarsi valido anche in assenza di un contratto scritto, automaticamente la PA, nel caso di mancato pagamento dei canoni, deve ritenersi quale soggetto leso da un’inadempienza contrattuale, e quindi essa viene, legittimamente, ad assumere la qualità di “soggetto impoverito” ex art. 2041 c.c. .
L’omesso pagamento del canone idrico ha determinato una perdita economica per le casse pubbliche, e di conseguenza la PA “deve” poter agire per ottenere la somma dovuta, altrimenti la stessa si renderebbe responsabile di un “danno erariale”. Quest’ultimo sorge a seguito non soltanto di un illecito compiuto dai dipendenti della PA, ma anche di un’inadempienza del privato a determinati obblighi.
Terza questione:
A norma dell’art. 2042 c.c., l’azione di arricchimento senza causa “non è proponibile quando il danneggiato può esercitare un'altra azione per farsi indennizzare del pregiudizio subito”. Da ciò si desume che tale azione è stata introdotta nell’ordinamento per dare alle parti la possibilità di tutelare i loro diritti contrattuali anche quando non risultano sussistere i presupposti previsti per l’esperibilità delle azioni “tipiche” di tutela, quali la nullità, l’annullabilità, la rescissione, la risoluzione. Si tratta, pertanto, di un’azione residuale rispetto alle altre azioni esperibili a tutela dei diritti sopra citati.
La ratio sembra essere la seguente: anche se il contratto non viola norme imperative (nullità), oppure la volontà manifestata dalla parte al tempo della stipula non risulta essere stata viziata (annullabilità), oppure non vi è alcuna situazione di squilibrio negoziale tra le prestazioni (rescissione), oppure non si è verificato alcun inadempimento ad opera della controparte né la prestazione della parte sia divenuta eccessivamente onerosa (risoluzione), bisogna comunque dare alla parte uno strumento mediante cui essa possa dimostrare che la controparte si è arricchita “ingiustamente”, ledendo interessi che vengono considerati dall’ordinamento giuridico come meritevoli di tutela e dimostrando quindi che la controparte ha “violato la legge”.
Ciò premesso, la Terza Sezione Civile ha posto il seguente quesito: se, a seguito del divieto disposto dall’art. 2402 c.c., l’esperibilità dell’azione di arricchimento senza causa debba considerarsi preclusa dall’esistenza dell’azione di ripetizione d’indebito, disciplinata dagli art. 2033 e ss. c.c. .
Si tratta, pertanto, di vedere se l’azione di ripetizione d’indebito produca lo stesso effetto che deriva dall’accoglimento della domanda di arricchimento senza causa: in caso affermativo, al quesito dovrà essere data una risposta positiva, ossia l’azione di arricchimento non è esperibile.
L’art. 2033 c.c. dà diritto alla “ripetizione” di quanto pagato, nonché ai frutti (oltre che agli interessi), e pertanto alla restituzione sia della somma versata sia dei vantaggi che quest’ultima ha prodotto a favore di chi l’ha ricevuta.
L’art. 2041 c.c., invece, dà diritto ad un “indennizzo”. Quest’ultimo, in ogni caso, deve corrispondere al “depauperamento” subìto, e quindi è una misura non già “forfettaria” bensì integralmente compensativa dell’impoverimento. Esso, inoltre, deve essere commisurato alla somma di cui l’altra parte si sia effettivamente arricchita, e quindi se l’ottenimento di tale somma ha prodotto ulteriori vantaggi, anche questi ultimi dovranno essere ricompresi nell’indennizzo.
Quindi, sotto il profilo degli effetti, le due azioni risultano abbastanza coincidenti.
Dal punto di vista dei presupposti, per quanto riguarda l’azione di ripetizione, il carattere “non dovuto” del pagamento sta ad indicare che a quest’ultimo la parte (che chiameremo Tizio) non era obbligata per legge, e, per ciò che attiene all’azione di arricchimento, la mancanza di una “giusta causa” sta ad indicare che l’altra parte (Caio) si è arricchita in violazione di una previsione di legge. Per “giusta causa”, infatti, si intende un interesse che viene riconosciuto dall’ordinamento come meritevole di tutela e che, perciò stesso, viene ad essere oggetto di una norma o comunque di un principio ricavabile dal sistema normativo.
In entrambi i casi, quindi, il presupposto per l’esercizio dell’azione è una “violazione di legge”.
Ma allora, nel caso dell’azione di ripetizione, Tizio, se ha eseguito una prestazione alla quale la legge non lo obbligava, è incorso in un “errore di diritto”: egli, infatti, ha ritenuto erroneamente come sussistente una norma che invece non c’era, oppure c’era ma non prevedeva comunque “quel” tipo di obbligo. L’errore di diritto è causa di annullamento del contratto ex art. 1429 c.c., e quindi Tizio, oltre che l’azione di ripetizione, potrebbe esperire quella di annullamento: infatti, a differenza di quanto previsto per l’azione di arricchimento senza causa (art. 2042 c.c.), per l’azione di ripetizione non è previsto alcun limite di compatibilità con altre azioni di tutela teoricamente esperibili.
Però Tizio, esercitando l’azione di annullamento, andrebbe incontro a tutti i limiti ai quali la legge subordina la proponibilità di tale azione: p. es. il fatto che l’errore, per poter determinare l’annullamento del contratto, debba essere “riconoscibile” dall’altro contraente; oppure che l’annullamento è inibito nel caso in cui l’altra parte (Caio), prima che a Tizio sia derivato un pregiudizio dall’errore, offra di eseguire la prestazione in modo conforme al contenuto e alle modalità del contratto che Tizio stesso intendeva concludere (art. 1432 c.c.). Invece, Tizio, esercitando l’azione di ripetizione d’indebito, non incontra tali limiti.
A ben vedere, dunque, l’azione di ripetizione si configura come uno strumento tramite il quale è possibile ottenere lo stesso risultato (ossia restituzione di quanto reso) che si potrebbe conseguire esercitando l’azione di annullamento, però senza i limiti che quest’ultima presenta. Pertanto, mediante l’azione di ripetizione, si bypassano i confini di un’altra azione giudiziale avente effetti analoghi. Ebbene, se il principio della “tipicità” dei mezzi di tutela giudiziale – che sta alla base dell’incompatibilità (art. 2042 c.c.) dell’azione di arricchimento con altre azioni aventi lo stesso effetto – deve essere considerato quale “principio generale dell’ordinamento”, allora la suddetta incompatibilità dovrebbe essere prevista anche per l’azione di ripetizione d’indebito: anche per quest’ultima si dovrebbe prevedere che essa non possa essere esercitata quando la medesima situazione sostanziale è tutelabile con altri mezzi “tipici” (vedi la domanda di annullamento).
Di conseguenza, la tesi secondo cui l’azione di arricchimento senza giusta causa non può essere esercitata in quanto nell’ordinamento è prevista già l’azione di ripetizione d’indebito, a motivo del fatto che questa produce gli stessi effetti, e secondo la quale quindi la domanda proposta ex art. 2041 c.c. non può essere accolta, rischia di apparire “fragile”, in quanto, a sua volta, per un principio di pari trattamento tra istituti che, come abbiamo visto, sono analoghi (sia nei presupposti che negli effetti), neanche l’azione di ripetizione di indebito dovrebbe poter esercitata quando con essa si tutelano situazioni che possono benissimo essere tutelate con altri strumenti “tipici” (vedi domanda di annullamento).
La conclusione, quindi, è la seguente: all’esperibilità dell’azione di arricchimento senza causa di cui all’art. 2041 c.c. . non osta il fatto che sia presente nell’ordinamento l’azione di ripetizione d’indebito di cui all’art. 2033 e ss., in quanto quest’ultima dovrebbe essere sottoposta allo stesso limite che l’art. 2042 c.c. prevede per la prima. Ciò in quanto uno strumento di tutela (domanda di ripetizione) non può essere considerato come preclusivo di un altro strumento di tutela (domanda di arricchimento) se deve essere soggetto agli stessi limiti di quest’ultimo.