Profili critici dell’obbligo della p.a. ad emanare un bando di concorso: rimedi giurisdizionali nei casi di inerzia delle amministrazioni

Profili critici dell’obbligo della p.a. ad emanare un bando di concorso: rimedi giurisdizionali nei casi di inerzia delle amministrazioni
Abstract
Nei casi in cui le amministrazioni hanno il dovere di provvedere verranno presi in considerazione i rimedi giurisdizionali per fronteggiare i casi di inerzia della p.a. nell’adozione di un atto amministrativo generale, tra cui figureranno l’azione avverso il silenzio-inadempimento e la class action pubblica.
In particolare la giurisprudenza maggioritaria ritiene inammissibile il rito del silenzio-inadempimento rispetto alla mancata adozione di atti normativi o amministrativi generali, in quanto l’assenza di destinatari specifici rende complessa l’individuazione dei requisiti della legittimazione e dell’interesse a ricorrere in capo a chi si attivi per l’adozione di provvedimenti di tal natura.
This paper aims to analyze situations in which public administrations are obliged to issue a competition notice, even though such an act typically falls within the realm of administrative discretion.
In cases where administrations have a duty to act, the paper will consider the judicial remedies available to address instances of administrative inertia in adopting a general administrative act, including the action against default silence and the public class action.
In particular, the predominant case law considers the silence-inertia procedure inadmissible in relation to the failure to adopt regulatory or general administrative acts, as the absence of specific recipients complicates the identification of the requirements for standing and legitimate interest on the part of those seeking the issuance of such measures.
Amministrazioni silenti e inquadramento del silenzio inadempimento: un’ipotesi tutt’altro che residuale all’interno dell’ordinamento
La dimensione del silenzio ha assunto un’importanza sempre più pregnante nel diritto amministrativo, scorrendo parallela ad almeno altri tre fenomeni che ne hanno influenzato la portata: da una parte il rapporto sempre più stretto tra cittadino e pubblica amministrazione, che ha visto quest’ultima non più relegata a monade di potere in grado di incidere unilateralmente sulle situazioni giuridiche soggettive dei privati, ma sempre più protesa al dialogo e alla trasparenza nei confronti dei cittadini coerentemente al rispetto dei principi di buon andamento e imparzialità; dall’altra, la volontà del legislatore di improntare la relazione tra munus pubblico e privato ad una maggiore semplificazione. Infine la crescente valorizzazione del fattore tempo, il quale è diventato unità di misura di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa al punto che il suo ruolo nevralgico nel procedimento amministrativo ha permesso di connotarne la natura di “bene della vita’’ e, come tale, riconoscerne la tutela.
Partendo dall’analisi dei primi due fenomeni menzionati è opportuno evidenziare che, seppur si possa rimanere suggestionati dall’idea di inquadrare la pubblica amministrazione come un soggetto ormai in grado di lavorare in absentia per esigenze di semplificazione, muovendosi invisibile in quel cono d’ombra che ricomprende i numerosi casi in cui al silenzio è attribuito il valore legale tipico di atto amministrativo (silenzio assenso o diniego), non bisogna tuttavia convincersi che essa abbia rinunciato definitivamente ad esercitare i propri poteri autoritativi emanando atti espressi.
È infatti il legislatore che, proprio in una delle prime disposizioni delle “nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi’’ (Legge n. 241/1990) all’art. 2, impone alle p.a. di concludere il procedimento amministrativo con l’adozione di un provvedimento espresso ogni qualvolta sia stata proposta un’istanza dal privato o quando sussista l'obbligo per le medesime di procedere d'ufficio all'avvio del procedimento.
La prima precisazione da fare in tema di silenzio inadempimento è quindi quella per cui, nonostante siano numerosi i casi di silenzio qualificato come silenzio assenso, esiste altresì un’ampia area in cui il silenzio delle amministrazioni è qualificato come mero inadempimento e il cui campo di applicazione si ricava dal combinato disposto degli articoli 2 e 20, comma 4 della Legge n. 241/90, (norma quest’ultima che disciplina il silenzio assenso e che non si applica alle materie indicate al comma 4).
Le ipotesi di silenzio inadempimento, dunque, si verificano qualora le pubbliche amministrazioni abbiano omesso di ottemperare all’obbligo di provvedere entro il termine di conclusione del procedimento e il legislatore abbia escluso di riconoscere all’inerzia della p.a. il valore di accoglimento della domanda (silenzio assenso) o, ancora, quello di provvedimento negativo (silenzio diniego).
Affinché però l’inerzia della p.a. possa essere qualificata come inadempimento è necessario che il privato sia titolare di una situazione giuridica soggettiva, la cui consistenza è di un interesse pretensivo ricollegabile al mancato esercizio di un potere provvedimentale da parte delle amministrazioni; in questi casi, inoltre, la p.a. deve essere investita di un “obbligo’’ di provvedere che trova la propria fonte non necessariamente in una disposizione di legge.
Se poi si considera che, negli ultimi anni, si è assistito ad un’elefantiasi giurisprudenziale delle situazioni in cui è plausibile ravvisare un “obbligo di provvedere’’ (il quale sussiste “anche al di là di un’espressa disposizione normativa che preveda la facoltà del privato di presentare un’istanza e, dunque, anche in tutte le fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia ed equità impongano l’adozione di un provvedimento’’, Tar Campania n. 2293/2019), si intuisce come abbia ancora senso esplorare il tema del silenzio inadempimento, il quale è tutt’altro che ipotesi residuale e poco frequente nella pratica.
In sintesi, a fronte di quanto esposto e dell’ampliamento della casistica inerente agli obblighi di provvedere della p.a., si può sicuramente affermare che il silenzio non qualificato, qual è il silenzio inadempimento, continua a rivestire importanza nella misura in cui si pone come comportamento antitetico all’opera di disvelamento delle informazioni detenute da parte delle amministrazioni, le quali dovrebbero promuovere una maggiore trasparenza mediante l’adozione di comportamenti attivi e provvedimenti formali[1]. Ciò soprattutto a fronte di una stigmatizzazione accentuata che sembra emergere nell’ordinamento, in termini negativi, dell’assenza della p.a. ogni qualvolta ciò sia indicativo della violazione della doverosità dell’azione amministrativa (ne sono degli esempi il danno da ritardo e l’indennizzo, nonché quanto previsto dai commi 9 e 9-bis della Legge n. 241/1990).
Discrezionalità da parte delle pubbliche amministrazioni ad emanare un bando di concorso: quando è possibile configurare un obbligo di provvedere ed esperire l’azione avverso il silenzio
Prima di procedere all’esposizione dei possibili rimedi giurisdizionali avverso l’inerzia delle amministrazioni nei casi in cui queste omettano di emanare un bando di concorso, occorre domandarsi quando possa configurarsi un obbligo di questo tipo in capo alle medesime, avente ad oggetto un atto amministrativo generale. Quest’ultimo si caratterizza per l’indeterminabilità a priori dei destinatari, i quali diventano determinabili in un momento successivo in relazione alle vicende concrete su cui l’atto è destinato a produrre gli effetti, conformemente alla sua natura amministrativa (si veda per la distinzione tra atti normativi e amministrativi generali Cons. St., Ad. Plen. 4 maggio 2012, n. 9).
Nello specifico, l’emanazione di un bando attiene tipicamente a quelle scelte rientranti nella cosiddetta “discrezionalità amministrativa’’ poiché la pubblica amministrazione rimane libera di indire o meno un concorso, decidendo se colmare o meno il vuoto in organico (ad esempio, nei casi in cui sia venuta meno un’unità che è andata in pensione o si è dimessa), così come può non avere alcun tipo di interesse alla copertura del posto a causa, ad esempio, di un livello di efficienza già interamente soddisfatto tramite l’operato del personale in servizio o a causa di situazioni correlate alla disponibilità di bilancio.
Non solo: la p.a. conserva un margine di discrezionalità non soltanto sull’an, trattandosi di “scelte organizzative di pertinenza del soggetto pubblico’’, ma anche sulle modalità concrete di copertura di un posto (Ad. Plen. n. 14 del 2011). Di conseguenza, è ben possibile che, secondo le valutazioni di opportunità e convenienza che governano la sfera del merito amministrativo nel perseguimento degli interessi di cui all’art. 97 Cost., le amministrazioni optino per una modalità alternativa rispetto all’indizione del pubblico concorso, soprattutto dopo che quest’ultima procedura non è più considerata come modalità ordinaria di reclutamento dei dipendenti, a fronte del favor che l’ordinamento accorda allo scorrimento della graduatoria per esigenze di economicità[2]. Il margine di scelta di cui dispone l’amministrazione in questo campo è stato poi valorizzato ulteriormente mediante un ridimensionamento della posizione del privato il quale, rivestendo la posizione di idoneo non vincitore in un concorso pubblico, non vanta un diritto al posto ma una mera aspettativa all’assunzione, “atteso che l’Amministrazione conserva un’ampia discrezionalità e ha una semplice facoltà, non un obbligo di procedere allo scorrimento della graduatoria (Cons. Stato n. 3855 del 23.04.2024)’’.
Qualora però l’amministrazione decida di emanare un bando di concorso, in luogo dello scorrimento delle graduatorie degli idonei, ha l’onere di fornire una specifica e dettagliata motivazione della scelta effettuata, coerentemente ai più recenti orientamenti giurisprudenziali che richiedono la presenza di “ragioni di interesse pubblico prevalenti’’. Al contempo può aversi l’attenuazione dell’onere motivazionale allorché vengano in gioco situazioni in cui emerge il “dovere primario dell’amministrazione di bandire una nuova procedura selettiva, in assenza di particolari ragioni di opportunità per l’assunzione degli idonei collocati nelle preesistenti graduatorie’’: nella pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 14 del 2011 si dà conto delle “ipotesi in cui speciali disposizioni legislative impongano una precisa cadenza periodica del concorso, collegata anche a peculiari meccanismi di progressioni nelle carriere, tipiche di determinati settori del personale pubblico’’. Tra l’altro vengono segnalati i casi in cui “si manifesta l’opportunità, se non la necessità, di procedere all’indizione di un nuovo concorso, pur in presenza di graduatorie ancora efficaci’’: vi rientrerebbe “l’esigenza preminente di determinare, attraverso le nuove procedure concorsuali, la stabilizzazione del personale precario, in attuazione delle apposite regole speciali in materia’’ (con l’obbligo però dell’amministrazione di valutare comparativamente le posizioni giuridiche e le aspettative dei soggetti collocati nella graduatoria come idonei’’); in secondo luogo, può acquistare rilievo l’intervenuta modifica sostanziale della disciplina applicabile alla procedura concorsuale, rispetto a quella riferita alla graduatoria ancora efficace, con particolare riguardo al contenuto delle prove di esame e ai requisiti di partecipazione; in terzo luogo, deve attribuirsi risalto determinante anche all’esatto contenuto dello specifico profilo professionale per la cui copertura è indetto il nuovo concorso e alle eventuali distinzioni rispetto a quanto descritto nel bando relativo alla preesistente graduatoria’’.
Pertanto, a parere di chi scrive, se il privato non può sindacare la scelta che ab origine spetta all’Amministrazione per il reclutamento del personale, vi sono senz’altro situazioni in cui la discrezionalità di cui dispone la p.a. è ridotta in presenza di circostanze, come quelle sopra menzionate, in cui può perfino sorgere un obbligo di provvedere coercibile, laddove ricorrano determinati presupposti, mediante l’esperibilità del ricorso avverso il silenzio nei casi di inerzia.
Quanto detto può verificarsi non solo qualora esistano disposizioni normative che impongono all’amministrazione di determinarsi attraverso l’adozione del bando di concorso entro un termine ma anche quando sia stata la stessa amministrazione ad auto-vincolarsi, in forza di un atto precedentemente adottato, limitando la propria discrezionalità e decidendo in anticipo di esercitare i propri poteri mediante l’indizione di una procedura concorsuale.
Orientamenti giurisprudenziali a confronto: il problema dell’individuazione dell’interesse qualificato e differenziato in capo al privato per esperire l’azione di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a.
Il rito camerale speciale avverso il silenzio è disciplinato dagli articoli 31 e 117 c.p.a. ed è attivabile da chiunque dimostri di avere un interesse all’accertamento dell’ordine dell’amministrazione di provvedere. Tale azione è diretta ad ottenere l’accertamento dell’inadempimento dell’obbligo da parte dell’amministrazione, con fissazione di un termine stabilito dal giudice entro cui provvedere ed eventualmente, nel caso di ulteriore inottemperanza, costringere la p.a. a provvedere mediante la nomina di un commissario ad acta, che si sostituirà all’amministrazione.
I problemi principali che si pongono con tale rito, a fronte della mancata emanazione di un bando di concorso, riguardano, più che la natura del provvedimento, l’individuazione dell’interesse ad agire del ricorrente.
A tal proposito si sono confrontati due orientamenti in giurisprudenza che si sono espressi sulla possibilità di ammettere il ricorso quando si domandi l’adozione di atti di portata generale.
In tema di atti amministrativi generali, sia pronunce più risalenti nel tempo (Consiglio di Stato n. 1460 del 2014) che attuali (Tar Catania, sez. III, n. 797 del 2024) hanno escluso l’ammissibilità del ricorso avverso il silenzio dell’amministrazione per la mancata adozione di provvedimenti pianificatori, motivando sulla circostanza che tali atti rientrano nel perimetro delle scelte discrezionali dell’attività amministrativa e che, come tali, non possono dar luogo ad un obbligo di legge da poter considerare “coercibile’’.
Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, non può configurarsi un interesse qualificato del privato a rivendicare l’adozione di atti normativi e atti amministrativi generali (e, quindi, anche di un bando di concorso) in ragione del fatto che l’azione avverso il silenzio è esperibile solo qualora venga in rilievo un’attività amministrativa provvedimentale, indirizzata a produrre i suoi effetti nei confronti di specifici destinatari. Nel caso di atti amministrativi generali, nei quali non sarebbe possibile individuare a priori i soggetti nei cui confronti si produrranno gli effetti, non si può agire per far dichiarare l’obbligo di emanare il bando di concorso in assenza di quella posizione legittimante qualificata e differenziata che possa tradursi in un interesse a ricorrere attuale e concreto.
Una decisione rilevante in tale orientamento si rinviene nella pronuncia del Consiglio di Stato, sez. IV, 17 dicembre 2018, n. 7090 in cui il Collegio ha ammesso che l’azione avverso il silenzio possa essere esperita qualora vengano individuati ex ante i destinatari sui quali ricadranno gli effetti dell’atto: non a caso nella pronuncia vengono riprese situazioni passate in cui i ricorsi sono stati ritenuti ammissibili, in quanto l’inerzia era ricaduta su atti di pianificazione (di cui però è incerta la classificazione come atto generale), che si riferivano ad una determinata platea di destinatari.
Spostata l’attenzione dal dato oggettivo della natura regolamentare o generale dell’atto da adottare a quello soggettivo della posizione giuridica del ricorrente, in quest’occasione il Consiglio di Stato si è occupato altresì di stabilire i requisiti per agire da parte di un ente collettivo, quale può essere un’associazione di categoria, indagando sui presupposti che determinano la sussistenza di un interesse legittimo collettivo.
Nel caso di specie, il Collegio ha esaminato la questione dell’ammissibilità del ricorso di primo grado presentato da Direpubblica Federazione del Pubblico Impiego, la quale lamentava l’inerzia serbata da parte dell’Agenzia delle Entrate, a seguito di un atto di diffida e costituzione in mora, notificato dallo stesso ente, con cui si sollecitava la pubblicazione del bando del concorso pubblico da indire ai sensi e per gli effetti dell’articolo 4 bis del decreto-legge 19 giugno 2015, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2015, n. 125.
La pronuncia è interessante per due motivi
Il primo è quello per cui il Consiglio, dopo aver fatto cenno al fatto che non vi siano preclusioni ontologiche all’esperimento di tale rito nel caso di atti amministrativi generali, sembra aprire la via del ricorso non solo ai soggetti interessati che siano ben individuati anticipatamente, ancorché possano mutare in futuro, ma anche ai soggetti che si assumono esponenziali dell’interesse collettivo della generalità dei potenziali destinatari dell’atto generale di cui è sollecitata l’adozione. In tale occasione viene altresì ribadita la difficoltà ad individuare la legittimazione e l’interesse ad agire in capo ai destinatari di atti di natura generale.
Tuttavia, a fronte dell’apertura ad ammettere i sodalizi tra professionisti tra i soggetti a proporre un ricorso di tal tipo, il Consiglio dà prova di come i presupposti per ammettere l’azione da parte delle associazioni di settore vengano interpretati in maniera stringente: ed infatti, dopo aver individuato in capo a Direpubblica una situazione giuridica legittimante, in quanto associazione rappresentativa della dirigenza pubblica che vanta “un interesse ad una sollecita e regolare copertura delle vacanze nella dirigenza delle Agenzie fiscali’’, afferma come ciò non sia sufficiente a radicare l’ulteriore requisito dell’interesse a ricorrere poiché “non è invece dimostrata la rispondenza all’interesse della totalità degli iscritti della pretesa di privilegiare la strada dell’articolo 4 bis, comma 1, d.l. n. 78/2015 piuttosto che altre consentite o introdotte dal legislatore, in presenza di più soluzioni normativamente possibili’’. Quindi il primo dato che si ricava è che l’ente deve rappresentare un interesse collettivo in giudizio riferibile all’intera categoria dei consociati che ne prendono parte, invocando “la violazione di norme poste a tutela dell’intera categoria, e non anche le questioni concernenti singoli iscritti ovvero questioni capaci di dividere la categoria in posizioni contrastanti’’.
Secondariamente si può rilevare come, a sostegno dell’insussistenza di un interesse concreto e attuale a ricorrere, i giudici argomentano ritenendo che possa esserci una parte di iscritti che predilige che la procedura si svolga in un modo piuttosto che in un altro, omettendo di pronunciarsi sulla sussistenza di un obbligo di provvedere in un determinato modo da parte dell’Amministrazione. Secondo quanto statuito dal T.A.R., infatti, l’Amministrazione si era autovincolata all’emanazione del bando, posto che aveva già annullato in autotutela la procedura selettiva indetta, nel 2014, iniziando a dare attuazione alla previsione dell’articolo 4-bis (norma che sollecitava la pubblicazione del bando di concorso) e consumando la propria discrezionalità. Il Consiglio di Stato, diversamente, richiamando la possibilità che si proceda con modalità normative anche diverse dal concorso per soli esami, previsto dal citato art. 4-bis, sembra indirettamente riconoscere la discrezionalità di cui dispone l’Amministrazione, senza che venga preso in considerazione un obbligo di provvedere sulla base di una legge o di un autovincolo.
L’orientamento minoritario, invece, ammette l’esperibilità del ricorso avverso il silenzio anche nei casi in cui si faccia questione di atti normativi, pianificatori e generali (come il bando), fatta salva la verifica della legittimazione attiva in capo al concorrente nei casi concreti.
Tale filone giurisprudenziale sostiene che non sussistano infatti preclusioni normative, in quanto, l’applicazione dell’istituto del silenzio inadempimento a queste categorie di atti, si ricaverebbe dal combinato disposto degli artt. 2 e 13 della Legge n. 241/1990; norma, quest’ultima, dalla cui lettura si evincerebbe a contrario che le disposizioni normative al di fuori del Capo III, tra cui l’art. 2, continuerebbero ad applicarsi ai procedimenti di atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione, a cui potrebbe applicarsi altresì il rito del silenzio (Cons. Giust. Amm., 19/04/2012, n. 396).
Nel caso di specie, il Collegio ha poi accolto il ricorso accertando con maggiore facilità l’interesse differenziato e qualificato in capo al ricorrente, sulla base del riconoscimento dello status di operatore economico che questo rivestiva in un determinato settore[3].
Ad ogni modo, non sembra che negli ultimi anni sia intervenuta una virata negli impianti motivazionali della giurisprudenza rispetto a quanto sostenuto dall’orientamento maggioritario sugli atti amministrativi generali.
In particolare, con la sentenza n. 7316 del 23 novembre 2020, il Consiglio di Stato è tornato a pronunciarsi sull’ammissibilità del rito del silenzio da parte di un cittadino che lamentava la mancata adozione degli atti necessari ad attuare il Piano di contenimento dell’inquinamento acustico da parte di RFI e del Ministero dell’ambiente.
Facendo applicazione dei principi sopra esposti il Collegio, pur riconoscendo le difficoltà pratiche nell’individuare i requisiti della legittimazione e dell’interesse qualificato e differenziato in capo ai destinatari di atti generali, ha sottolineato come solo rispetto agli atti normativi tale azione sia impraticabile poiché “per la loro generalità e astrattezza vedono quali loro destinatari la collettività’’; in seguito, riprendendo quella parte di giurisprudenza che individuava gli interessi legittimi differenziati e qualificati anche nel caso di atti generali, ha affermato che il “dovere di concludere il procedimento entro il termine all’uopo definito dalla legge si applica anche agli atti amministrativi generali di pianificazione e di programmazione. Tale dovere, peraltro, prescinde dal fatto che il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio.
In entrambi i casi, l’inosservanza del termine per la definizione del procedimento, pur non comportando la decadenza dal potere, connota in termini di illegittimità il comportamento della pubblica amministrazione, con conseguente possibilità per i soggetti interessati di ricorrere in giudizio avverso il silenzio-rifiuto ritualmente formatosi, al fine di tutelare le proprie posizioni giuridiche soggettive attraverso l’utilizzo di tutti i rimedi apprestati dall’ordinamento’’.
Infine, con questa decisione, i giudici hanno chiarito come alcuni profili dell’azione avverso il silenzio vengano a declinarsi nel caso in cui il rimedio processuale sia diretto all’adozione della categoria degli atti generali: difatti, si è precisato come “ai fini dell’individuazione dei requisiti della legittimazione e dell’interesse a ricorrere in capo a chi si attivi per l’adozione di provvedimenti di tal natura, non rilevi l’ampiezza della discrezionalità, salvo il caso in cui quest’ultima, come in precedenza rilevato, investa anche l’“an” del provvedere (è il caso, ad esempio degli strumenti di pianificazione generale in materia urbanistica e relative varianti); poiché “in tali casi, infatti, al pari di quelli relativi al ritardo nell’emanazione di atti normativi, è da escludersi la sussistenza di un obbligo di provvedere, anche in considerazione delle valutazioni lato sensu politiche riservate all’Amministrazione che rendono l’inerzia sostanzialmente insindacabile da parte del giudice amministrativo (arg. Ex art. 7, comma 1, ultimo periodo, c.p.a.). Semmai, l’ampiezza del potere discrezionale comporta unicamente una limitazione dei poteri del giudice con riguardo alla portata conformativa della pronuncia sul silenzio. Invero, l’azione disciplinata dall’art. 117 del c.p.a. ha natura strumentale e il giudice non può pronunciarsi sul merito della pretesa azionata, essendo tale eventualità limitata ai soli atti vincolati, ed a quelli in relazione ai quali si sia interamente esaurito lo spettro di discrezionalità riconosciuto all’amministrazione e al contempo non siano necessarie attività istruttorie, come stabilito dall’art. 31, comma 3, del c.p.a.’’.
Nel caso di specie il Consiglio di Stato, pur rilevando che il Piano di contenimento acustico disciplinato dall’art. 10, comma 5, del d.P.R. n. 447 del 1998, non è propriamente un atto di pianificazione, volto a disciplinare in via generale l’uso del territorio e dunque manifestazione di potere di governo, trattandosi piuttosto di un programma di interventi specifici da eseguire, ha riconosciuto la posizione di interesse legittimo del ricorrente in quanto differenziata da quella degli altri potenziali destinatari dei benefici derivanti dalle opere di contenimento acustico non individuabili ex ante (ad esempio, chi si trovi occasionalmente a frequentare la zona), nonché qualificata dalla titolarità del diritto alla salute e ad un ambiente salubre.
L’azione di classe pubblica: un altro rimedio processuale per superare l’inerzia delle amministrazioni
Tenuto conto dei limiti dell’azione avverso il silenzio al fine di ottenere l’emanazione di un bando di concorso, si può prendere in considerazione un ulteriore rimedio per risolvere l’inerzia serbata dall’amministrazione, consistente nell’azione di classe per l’efficienza della pubblica amministrazione, disciplinata dal d.lgs. 20 dicembre 2009 n. 198. Si tratta di uno strumento processuale connotato da una funzione latamente sanzionatoria, poiché diretto a rimediare a violazioni reiterate e generalizzate da parte delle amministrazioni pubbliche e dei concessionari di servizi, che si traducono in forme di inefficienza amministrativa, qualora le violazioni degli obblighi di legge finiscano per inficiare direttamente la qualità dei servizi o la funzione svolta.
Ai sensi dell’art. 1 del decreto sono legittimati a proporre l’azione i titolari di interessi giuridicamente rilevanti e omogenei per una pluralità di utenti e consumatori, quando la lesione diretta, concreta e attuale degli interessi abbia come presupposto: la violazione di termini procedimentali; la mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi carattere normativo, qualora questi debbano obbligatoriamente emanarsi entro e non oltre un termine fissato ex lege o per regolamento; violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi; violazione di standard qualitativi ed economici stabiliti dalle autorità preposte alla regolazione e al controllo del settore (nel caso dei concessionari di servizi pubblici) o definiti dalle stesse autorità in conformità alle disposizioni legislative in materia di performances (nel caso delle Pubbliche Amministrazioni).
Pertanto, il ricorso può essere esperito anche dal singolo cittadino, purché sia titolare di un interesse che fa capo ad altri soggetti appartenenti alla medesima classe, senza il bisogno di connotarlo come interesse collettivo.
Vi è, poi, da puntualizzare che il ricorso è devoluto alla giurisdizione del giudice amministrativo e, nel caso in cui il giudice lo accolga, quest’ultimo non avrà alcun potere sostitutivo e, al più, potrà intimare all’ente di porre fine al comportamento con il quale si sono violate le regole sul rispetto dei termini: tale effetto è conseguente all’emanazione di un provvedimento “penetrante’’ , la cui efficacia non è limitata solo a coloro che hanno esperito l'azione, ma si estende a tutti quei soggetti che hanno subito un'analoga lesione da parte della p.a. o del concessionario (TAR Lazio, Roma, sez. II, 26 febbraio 2014, n. 2257). Al contempo, a differenza della class action privata, non consente di ottenere il risarcimento del danno per le violazioni contestate. Nel caso, invece, in cui si opti per il rito del silenzio, sicuramente si è di fronte un’alternativa più celere, che permette, però, l’adozione dell’unico provvedimento di cui si lamenta l’inadempimento entro un termine, di norma, non superiore a trenta giorni. Il presupposto delle due azioni può quindi essere il medesimo in considerazione della violazione dei termini per l’emanazione di un atto amministrativo generale obbligatorio e non normativo (quale può essere il bando); ciò che cambia è l’oggetto del giudizio.
Nel caso specifico dei bandi di concorso, le amministrazioni possono essere tenute ad emanarli entro termini perentori stabiliti dalle leggi o da regolamenti e il fatto che non sia indicato un termine preciso ma una “cadenza temporale’’, non esclude l’applicabilità dell’azione per l’efficienza (un esempio è dato dall’art. 125, co. 1, r.d. n. 13/1941 che prevede che il concorso per le nomine dei magistrati abbia luogo “di regola una volta l’anno, in relazione ai posti vacanti nell’organico della magistratura’’)[4].
[1] Non a caso alcuni autori parlano di silenzio assenso relegandolo a fenomeno residuale, il quale assume “carattere patologico’’ e si profila come rimedio preventivo ammesso dall’ordinamento per offrire al privato una tutela più incisiva nei confronti dell’inerzia della pubblica amministrazione (in questi termini F. D’Alessandri, E. Scatola, Quaderni del diritto, Il silenzio inadempimento. Profili sostanziali e processuali, 2016, p. 2 e V. Cerulli Irelli, Modelli procedimentali alternativi in tema di autorizzazioni, in Dir. amm., 1993, p. 55 ss.)
[2] Seppur la Corte costituzionale, seguendo l’orientamento più consolidato in giurisprudenza, rimanga di diverso avviso, ribadendo che il pubblico concorso costituisce la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego in quanto strumentale al canone di efficienza dell’amministrazione e si possa derogare solo in presenza di “peculiari e straordinarie ragioni di interesse pubblico ’’ (Corte Cost. n. 110 del 2023).
[3] Difatti, è stata riconosciuta la legittimazione a ricorrere alla società che operava quale operatore del settore delle affissioni pubblicitarie e che chiedeva al Comune di Messina l’emanazione del piano comunale delle pubbliche affissioni, di cui agli artt. 3 e 36 del D.Lgs. 507/1993, atto ritenuto propedeutico rispetto al rilascio dei singoli provvedimenti autorizzatori alla gestione degli impianti pubblicitari in ambito comunale, alla cui gestione miravano proprio i singoli operatori.
[4] G. Fidone, L’azione per l’efficienza nel processo amministrativo: dal giudizio sull’atto a quello sull’attività, Torino, 2012, p. 193-194