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Manifesto contro il merito

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Manifesto contro il merito

 

Le parole vanno usate con attenzione, soprattutto quando, una volta scelte, vi si associano effetti che incidono sulla vita delle persone. Merito è una di queste. Se ne parla nel dibattito politico, nelle aziende, nelle amministrazioni pubbliche, nelle università e nelle altre articolazioni del sistema educativo, assumendolo a valore portante di rilevanti processi sociali.

Il merito, estrapolato dall’art. 34 dalla nostra Costituzione che ne fornisce lo statuto (il diritto per i capaci e meritevoli ma privi di mezzi di raggiungere i più alti gradi degli studi), nella narrazione che comunemente se ne fa, è assolutizzato a parametro di riferimento del successo. La persona ha meritato una posizione, ha meritato un riconoscimento, ha meritato il successo che ha o, al contrario, a dispetto del merito, non si trova in una situazione con esso coerente.

Ma cosa c'è dietro a un buon risultato ritenuto meritato? La domanda va scomposta in sotto-domande: che merito c'è nell'essere stati accolti in una famiglia che, nella parte giusta del mondo, non soffriva la fame o la deprivazione culturale e che ci ha trasmesso il gusto per l'arte e per il bello? Che ci ha sostenuto negli studi presso un'università lontana e magari in collegio? Che ci ha permesso di partire per quell'Erasmus che tanto ci ha smerigliato la mente o che ci ha permesso di partecipare a quello stage mal retribuito ma che tante strade ci ha aperto? Oppure, ancora, che merito abbiamo nel godere di un censo che ci permette di sostenere anni di precariato pur di svolgere il lavoro che amiamo? Potremmo continuare a lungo.

La verità è: pochissimo merito. Molto dipende da privilegiate condizioni di partenza che ci troviamo per date.

Allora nel merito inizia ad intravedersi qualcosa che non è solo merito. O meglio, dove il merito consiste nel non aver sprecato opportunità immeritate (o non più meritate di altri) ma disponibili, opportunità che - per dirla con la Costituzione – altre persone ugualmente "capaci e meritevoli" non hanno avuto in dote.

Il punto è proprio qui. Il discorso sul merito funziona "in entrata", secondo lo statuto costituzionale, dove è inteso come equalizzatore di opportunità, non "in uscita", nella vita. In entrata tende ad essere più puro, in uscita si confonde con fattori ambientali comunque determinanti e ignora gli sforzi che una collettività invisibile ha compiuto per sostenere una prestazione individuale, ovvero non considera appieno che qualcuno, pur validissimo, possa essere arrivato così lontano anche sulla base di squilibri sociali di partenza. Insomma, si rischia di trasferire sul singolo una valutazione che però non può essere ridotta alla sua componente individuale.

Dico anche che il merito in entrata "tende" ad essere puro perché forse una purezza assoluta non è possibile. 

Infatti, anche nella distribuzione iniziale dei talenti non c'è merito. Chi ne ha di più, chi di meno, chi in un campo, chi in un altro. Ci sono stati dati (e ognuno ne attribuisca la provenienza secondo fede o convinzioni personali) e, ancora una volta, magari li abbiamo scoperti per immeritato caso, magari per l’intervento di un saggio maieuta che abbiamo incontrato sul nostro cammino (comunque sul talento ci ritorneremo).

Allora, che fare? Abolire il merito? A dispetto del titolo provocatorio, certo che no. Proviamo però ad approcciarlo in chiave di umanesimo manageriale.

Per esplorarne più a fondo le implicazioni, passiamo dal sostantivo merito al verbo: meritare. Se ci soffermiamo un istante, meritare significa essere degni. Ed ecco che il discorso assume tutt'altro senso: si sposta da un'ottica premiale ad una di assunzione di responsabilità. 

Come nella parabola evangelica, di cui anche il non credente può apprezzarne il dato culturale, ad ognuno è dato un talento diverso, e si ha la responsabilità di farlo fruttare non solo in un’ottica di consumo individualizzato ma anche di restituzione, nella consapevolezza che il più delle volte si semina e si raccoglie su un terreno che altri hanno strappato al deserto, dissodato e reso fertile per noi. 

Ecco quindi che domani mattina, qualora guardandoci allo specchio dovessimo trovarci meritevoli di qualcosa, trasformiamo questo pensiero in domanda: più che meritevoli, ne siamo degni? E la cosa bella è che non dovremmo arrovellarci su cosa fare: la risposta, affermativa o negativa che sia, chiama alla stessa azione: restituire. In un caso per ringraziare, nell'altro per riparare.