Ancora sulla felicità. La terza via
Ancora sulla felicità. La terza via
(Seconda parte)
E arriviamo al punto. Mi devo ripetere, richiamando quanto già detto altrove: nella mia esperienza - evidentemente limitata - l'essenza del vivere da protagonisti è nel provare a fare frutto con ciò che c'è ed è qui, credo, che si insinua la felicità.
Non intendo cacciarmi in un guaio nel parlare troppo astrattamente di felicità. Spesso, però, trovo utile ricorrere all'etimologia di una parola. Un po' paraculo, certo, ma almeno abbiamo una coordinata di partenza.
Guarda caso, felice deriva dal latino felix, che significa proprio fecondo. Allora scopriamo che sono quelli che decidono di vivere da protagonisti, dando il proprio contributo, piccolo o grande che sia, ogni volta che la realtà scopre uno dei suoi molteplici fianchi, che hanno maggiori possibilità di introdurre un minimo di fecondità in ogni situazione, ed essere felici.
Potremmo quindi dire che la felicità risiede nel progetto deliberato di fecondità. È una scelta, non è solo agganciare il proprio stato emotivo ad eventi esterni su cui abbiamo pochissimo potere.
Allora ecco che il mio timore iniziale di deludervi a causa delle mia infallibile imperfezione potrà essere riassorbito dalla consapevolezza che ogni mattina inizia una nuova giornata in cui è possibile agire un nuovo atto di felicità, superando qualcosa di storto con qualcosa di generativo. Potrà anche capitare di predicare bene e razzolare male, ma è nulla in confronto alla possibilità di contribuire già adesso a creare la realtà che ho intorno, rialzandomi e rimettendomi in movimento.
Però attenzione. Se è una scelta la felicità, lo è anche il suo negativo: l'infelicità, il progetto deliberato di infecondità, di indisponibilità a dare frutto, di compromettersi con una realtà che non si può mai addomesticare del tutto. E (tenetevi forte), sapete qual è la strada diretta per l'infelicità? Accontentarsi di esser contenti.
Anche qui ricorriamo all'etimologia. Contento deriva dal latino contentus, participio passato di continere, ovvero tenere in sé, contenere. In qualche modo suggerisce trattenere qualcosa fino a riempimento. E dunque, più che la fecondità, individua l'appagamento ombelico-centrico, la gratificazione che deriva dalla soddisfazione di bisogni che (ahimè) tendono a ripresentarsi. E che pasticcio quando usiamo l'esser contenti come surrogato di felicità.
Giusto per tracciare due linee di demarcazione grezze: se la felicità è programmaticamente relazionale, poiché contiene già nel suo statuto una proiezione oltre noi stessi (dare frutto), la contentezza si esaurisce nel nostro contorno. Se la felicità ha più probabilità di essere stabile, poiché risiede in una scelta sulla nostra postura di vita, la contentezza è volatile, dipende troppo da riempitivi esterni che non controlliamo.
Ed è per questo che possiamo vivere per sempre infelici e contenti.
Tornando alle nostre categorie iniziali (vittoria/sconfitta), troviamo che la contentezza che può derivare dalla vittoria è ben diversa dalla felicità che può derivare dal vivere da fecondi protagonisti.
Il problema, poi, è che, quand'anche ci andasse bene e portassimo a casa una vittoria, se c'è una perdita, una falla interiore, la sensazione di sazietà è destinata a durare ben poco. Neanche il tempo di godersi il risultato che già sentiamo la mancanza di qualcosa.
Sia chiaro, non sto gettando discredito sul dinamismo, ma il rischio di vivere per la vittoria è quello di non creare la realtà, bensì di divorarla e, dopo la digestione, per quanto tempo possa richiedere, ritornare ad essere guidati da una fame che torna a tormentarci senza tregua. Un anticipo di inferno in terra.
Quindi facciamo pace con la nostra imperfezione, consapevoli che inevitabilmente sbaglieremo e deluderemo, sottraiamoci, almeno qualche volta, alla tensione che si crea nell'oscillare tra le due polarità della vittoria e della sconfitta, per provare semplicemente ad essere fecondi in qualche cosa, anche piccola, ovvero ad essere protagonisti.
Che poi diciamolo, la felicità è una cosa che cercano tutti, perché in tutti, prima o poi, affiora quel desiderio di lasciare una traccia positiva del proprio transito, per fugare il timore che alla fin fine è alla base di tutti gli altri, ovvero quello di essere passati invano.
Permettetemi di concludere con l'estratto di una lettera che Madre Teresa di Calcutta scrisse confidenzialmente a Bush padre e Saddam Hussein nel gennaio 1991:
Potrete anche vincere la guerra, ma quale prezzo dovranno pagare quanti rimarranno feriti, mutilati o annientati? [...] Lasciate che i vostri nomi siano ricordati per il bene che avete fatto, per la gioia che avete seminato e per l'amore che avete condiviso.
Madre Teresa di Calcutta, La mia vita, a cura di J.L. Gonzalez-Balado, nota 73.