Esercizi bizzarri per arrivare vivi alla morte

vita e morte
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Esercizi bizzarri per arrivare vivi alla morte

 

E se oggi fosse il mio ultimo giorno di vita? Se sapessi di avere ancora poche ore a disposizione, cosa mi passerebbe per la testa? Cosa farei?

No, non sono impazzito. Queste sono solo alcune delle domande che periodicamente sento la necessità di pormi per aggiustare il tiro di una vita sottoposta a così tante sollecitazioni da correre il rischio di essere portata a spasso da priorità, interessi, paturnie o ansie altrui, dove può pure capitare che qualcuno si stupisca di non vedermi scodinzolare riconoscente davanti alla schiavitù – certamente ben infiocchettata – che mi va proponendo.

Bene, qualcuno potrebbe obiettare che sia facile filosofare di morte quando ci si trova ragionevolmente lontani da essa, ma credo che siffatte domande siano così connaturate all’esistenza umana che un minimo di ingaggio lo possono portare anche quando ci si trova statisticamente nel mezzo del cammin di nostra vita. Oltre al fatto, decisamente meno filosofico, che non sono in grado di sapere se tra molto tempo nutrirò le fila di coloro che l’aspettativa di vita media la alzano, o tra pochissimo sarò tra quelli che l’abbassano.

Porsi queste domande dunque non è il tarlo di uno che ha tanto tempo e anche il lusso di sprecarlo ma costituisce un modo formidabile per far affiorare alcuni nodi prima che il pettine passi per l’ultima volta.

Ah, specifico: qui intendo che ognuno pensi alla propria di morte. Non posso e non voglio entrare nel più straziante campo del lutto per l’altrui dipartita. Per carità. 

Ma perché parlare proprio di morte? Beh, perché passiamo una vita alla ricerca di certezze che prima o poi manifestano la loro evanescenza, e perdiamo di vista gli unici incontrovertibili punti fermi che abbiamo, ovvero: (i) siamo vivi adesso; (ii) certamente moriremo.

Se del primo tema si trova traccia bene o male in quasi tutti i miei precedenti contributi, in questo e nel prossimo articolo vorrei introdurre il secondo punto. Lo farò partendo da una storia vera.

Bronnie Ware ha lavorato per diversi anni nell’ambito delle cure palliative, assistendo persone che non avevano possibilità di guarigione, accompagnandole alla morte nelle loro ultime settimane di vita.

Questo le ha permesso di raccogliere le ultime parole di molte persone, tra cui anche confidenze importanti. Una categoria abbastanza frequentata di queste confidenze è rappresentata dai rimpianti.

Premetto: non è un lavoro scientifico. È una testimonianza dalla prima, o meglio, dall’ultima linea (qui il blog, dove ci sono anche informazioni sul libro che ne ha tratto, tra l’altro tradotto in diverse lingue tra cui l’italiano).

Bronnie ha riscontrato che i rimpianti più ricorrenti sono compendiabili in cinque principali categorie:

1. Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita fedele a me stesso, non la vita che gli altri si aspettavano da me.

2. Vorrei non aver lavorato così duramente.

3. Vorrei aver avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti.

4. Vorrei essere rimasto in contatto con i miei amici.

5. Vorrei essermi permesso di essere più felice.

A chi di noi abbia accettato di farsi interrogare dalla domanda iniziale propongo ora di verificare se l’esperienza altrui, riportata da Bronnie, possa essere d’insegnamento. A volte la saggezza sta nel risparmiarsi fatiche e dolori da cui sono già passati altri. Bisogna per forza arrivare in punto di morte per godere di un po’ di lucidità?

Dunque: se avessimo ancora un giorno di vita, avremmo dei rimpianti simili ai pazienti di Bronnie? Ne avremmo degli altri? Fermiamoci a pensare per più di qualche secondo.

Inoltre, dato che questa comunità ha uno sguardo sul lavoro, preme sottolineare come tra i rimpianti più ricorrenti non sia contemplato quello di aver lavorato troppo poco. Ma allora perché il lavoro (rectius: le sue dinamiche, anche di competizione) assorbono così tante energie nella nostra vita da lasciare poco tempo e poche forze per tutto il resto? Abbiamo idea di quanta vita (e quante altre vite!) ci sia(no) in questo resto?

Non è che un po’ dipende dal fatto che il lavoro, finalmente quasi del tutto affrancato da schiavitù e sfruttamento, al posto di essere approcciato come il modo per ottenere di che vivere e al contempo contribuire a creare una realtà buona, è usato come il travestimento protettivo dei nostri nodi irrisolti? (Si ascolti, su tutte, la canzone Giudice di Fabrizio De Andrè).

Ecco allora che acquisire familiarità con la morte attraverso un esercizio di prossimità con essa (le poche ora a disposizione) può aiutare a sbrindellare gli scafandri del camice, della toga, della divisa, della giacca e della cravatta per farci capire che tutti, indistintamente, all’ultimo appuntamento ci presentiamo in ciabatte e canottiera. Quindi, se arriviamo tutti comunque allo stesso punto (e in déshabillé), per quale motivo correre come i matti per poi inanellare quaderni di rimpianti quando è troppo tardi?

L’esercizio dell’ultimo giorno proposto in apertura può essere portato a livelli ancora più intensi. Se non avessi un giorno, ma un’ora? E se fosse solo un minuto? Dove andrebbero i miei pensieri e le mie azioni? 

Possiamo fare un esperimento simile anche con gli oggetti. Se dovessi improvvisamente lasciare il posto dove vivo, adesso, per non tornare mai più, e potessi portare con me solo un oggetto, quale sceglierei?

Probabilmente le risposte che ci siamo dati a queste domande altro non fanno che additarci delle priorità, le nostre. Il passo successivo è quindi quello di valutare l’allineamento tra queste priorità e il nostro attuale stile di vita e, una volta misurato lo scarto esistente, lavorare per ridurlo, prima che sia troppo tardi.

Il tutto per provare a vivere più umanamente ciò che non ritorna: il tempo.

E ora l’esercizio finale: provate ad abbozzare il vostro epitaffio, pensando a quelle poche parole che dovrebbero cogliere la vostra essenza e descrivere come avete vissuto fino ad oggi.

Abbiamo scritto ciò che siamo e come abbiamo vissuto, come pensiamo di essere e di aver vissuto o come vorremmo essere ed aver vissuto?

In altre parole, i nostri cari e i nostri amici che venissero a rendere omaggio alle nostre spoglie mortali ci riconoscerebbero solo grazie alla foto?

Sapere che questa terrena esperienza a un certo e ignoto punto finisce ci aiuta a mettere in prospettiva le vicende umane e a ridimensionare noi stessi, che non è rimpicciolirsi (anche se potrebbe – talvolta – risultare salutare) ma rimettere le cose nella giusta scala, ponendo fine a una certa fastidiosa tracotanza e non curanza, entrambe figlie della mancanza di senso del limite, a sua volta parente della rimozione, umanamente comprensibile ma fasulla, del limite supremo.

Vivere allontanando, rimuovendo, dimenticando la morte significa illudersi di un’immortalità che promette che ci sarà sempre tempo: per chiedere scusa, per riallacciare un rapporto, per passare un po’ di tempo con qualcuno... quando non è detto che questo tempo ci sia.

Riflettere sulla nostra morte non è dunque occasione di alienazione, ma opportunità per entrare ancora di più nella vita. Per volare un po’ più alti. Come recita il ritornello di una canzone per bambini che tanto commuove le mie figlie: dal momento che impari a volare, vedi le cose piccolissime (Il panda con le ali, Piccolo coro dell’Antoniano).

 

Alla morte, meglio arrivarci vivi.