Respiro

respiro
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Respiro

Dimmi come respiri e ti dirò chi sei

 

Nel 1850, il filosofo Ludwig Feuerbach, commentando un trattato del fisiologo Jakob Moleschott, scrisse una frase destinata a rivoluzionare la filosofia tedesca: «L’uomo è ciò che mangia e beve». Dodici anni dopo (1862) nel saggio Il mistero del sacrificio o L’uomo è ciò che mangia, egli precisò quel concetto: «Perché tu introduca qualcosa nella tua testa e nel tuo cuore è necessario che tu abbia messo qualcosa nello stomaco»[1]. Ciò gli permise di sostenere la tesi che gli premeva, ossia che il progresso morale e civile delle persone e delle società dipende dal miglioramento delle condizioni materiali di vita.

Dunque, per pensare bisogna essere vivi e per vivere bisogna nutrirsi; e qual è il primo indizio del fatto che siamo vivi e quale la prima forma di nutrimento? È il respiro. È stato osservato che, mentre i neonati respirano con tutto il corpo, profondamente, gli adulti perlopiù respirano superficialmente, incamerano ed espellono meno aria di quanta dovrebbero. La respirazione superficiale, o trattenere il respiro, è una reazione tipica degli stati di stress o di paura, un modo istintivo per reagire a un disagio, che però alla lunga lo accresce, riducendo lucidità ed energia vitale e causando irritabilità e patologie varie[2]. Madame de Staël aveva anticipato una tesi che le neuroscienze hanno poi dimostrato:

«L'uomo volgare scambia per follia il disagio di un'anima che non respira in questo mondo abbastanza aria, abbastanza entusiasmo, abbastanza speranza». È

(La Germania, libro XIII, cap. IV, 1810).

Le emozioni positive nutrono l’anima (dal greco ἄνεμος, “aria” “vento”, fiato”) e cioè la capacità stessa di respirare bene e condurre una vita che non sia solo sopravvivenza. Non a caso, «Vogliamo il pane, ma vogliamo anche le rose» fu il motto delle operaie delle fabbriche tessili che nel 1912 scioperarono in Massachussets per ottenere condizioni di lavoro più umane. 

La respirazione può essere in parte gestita mediante procedure volontarie - come sa chi pratica sport o tecniche di meditazione trascendentale o di medicina riabilitativa - ma è prevalentemente un processo automatico, regolato dal cervello in base alle esigenze dell’organismo, dove gli automatismi sono influenzati da stimoli interni ed esterni, compresi quelli di tipo intellettuale e psichico che mobilitano memoria, ragionamento, immagini del mondo e di noi stessi. La lettura e altre forme di fruizione culturale, che arricchiscono il nostro paesaggio interiore, secondo l’Organizzazione mondiale per la salute migliorano i livelli di salute e benessere della popolazione, perché aiutano a prevenire le malattie e costituiscono un complemento alle cure[3].

Su queste basi, possiamo affermare che il nostro modo di vivere, ricordare, immaginare, emozionarci sono influenzati dal e al contempo influenzano il nostro modo di respirare.


“Di ampio respiro” o “Dal fiato corto”?

Aggiungiamo un altro tassello: noi tutti siamo parte attiva in questo processo, perché le nostre azioni, i nostri comportamenti e le nostre scelte producono effetti sulla respirazione e, in generale, sulla salute fisica e (quindi anche) mentale nostra e altrui, e il prodotto di tutto questo è il benessere collettivo all’interno di un’organizzazione.

Chi ha responsabilità di guida o comunque decisionali dovrebbe allora chiedersi: la nostra organizzazione è sufficientemente “ariosa” e generatrice di entusiasmo e ispirazione (che ha lo stesso etimo di inspirazione)?

 In prima istanza, vengono in mente gli spazi, l’illuminazione, gli arredi, i servizi da rendere accessibili e confortevoli, inclusi gli ambienti e le tecnologie digitali che mettiamo a disposizione: sentirsi bene accolti dai luoghi che si abitano per tanta parte della giornata concilia concentrazione, inventiva e buona disposizione al lavoro.  

Non meno importanti sono le scelte organizzative rispecchiate negli atti e nei documenti, che producono un impatto anche emotivo su chi li legge/utilizza/subisce: una strategia, un piano, un progetto, una relazione, persino un organigramma o un bilancio “di ampio respiro” sono quelli che danno l’idea di abbattere barriere, aprire strade, mostrare prospettive, ampliare l’orizzonte (altra figura implicata è il cuore: “gettare il cuore oltre l’ostacolo”), includere, provocando la gioia di risolvere problemi e la voglia di partecipare all’impresa, proseguire l’opera, condividere; se, viceversa, quei prodotti ci sembrano “dal fiato corto”, o addirittura “asfittici” è perché suscitano un’impressione  di chiusura, come se costruissero un recinto, un ambiente ristretto dal quale non si vede l’ora di scappare come il protagonista della canzone di Bob Dylan Maggie’s Farm[4]:

«ho fatto del mio meglio / per essere ciò che sono / ma tutti vogliono che tu / sia proprio come loro / cantano mentre mi schiavizzano e ciò m'infastidisce / Non voglio più lavorare nella Fattoria di Maggie».

E si sa che la penuria d’aria causa affanno, un’esperienza di fatica. Non occorre conoscere la teoria della relatività di Einstein per capire che lo stesso impegno può essere percepito dalla stessa persona come più o meno pesante o noioso, secondo che ad esso sia collegato o meno un sentimento di soddisfazione, o almeno un’aspettativa o la speranza che ne derivi qualcosa di buono e importante.


Nutrire «quella cosa con le piume»

Quando sembra profilarsi il rischio di disfatta, quando ci si vede persi, ecco, impavida, risuonare la speranza, «quella cosa con le piume» che ci canta melodie dolcissime durante le tempeste e ci rincuora[5]. La speranza è vita («Finché respiro, spero», scrisse Cicerone ad Attico tra il 68 e il 44 a.C.), e viceversa si può morire quando ci abbandona: nel Riccardo III di Shakespeare, Atto V, Scena II, proprio «Dispera e muori!» è il malaugurio scagliato sull’assassino dai fantasmi delle sue vittime. Ed è solo alimentando la speranza contro ogni evidenza che Chuck Noland, il protagonista di Cast away (un film del 2000 di Robert Zemeckis interpretato da Tom Hanks) riesce a resistere fino a salvarsi e a tornare a casa, dopo essere precipitato in mare da un aereo incendiato ed essere rimasto per anni su un’isola deserta:

 «Sapevo che in qualche modo dovevo restare vivo… in qualche modo dovevo continuare a respirare, anche se non c’era più motivo di speranza e la logica mi diceva che non avrei più rivisto questo posto.

Così è quello che ho fatto, sono restato vivo, ho continuato a respirare. Poi, un giorno, la logica si è dimostrata sbagliata, perché è arrivata la marea, mi ha dato una vela e ora eccomi qui, sono tornato a Memphis e parlo con te, c’è del ghiaccio nel mio bicchiere… e adesso so cosa devo fare… devo continuare a respirare… perché domani il sole sorgerà e chissà la marea cosa può portare…».

Chuck Noland aveva una motivazione, uno scopo: tornare a Memphis, alla sua città, alla sua donna, al suo lavoro, ritrovare la sua vita di prima del naufragio. Ma se non c’è un posto agognato cui fare ritorno? Se proprio la solita vita è uno sprofondare nella solitudine e nei disinganni o un sopravvivere in apnea mentre le speranze si affievoliscono e non c’è neanche un altrove da sognare? Questo è ciò che accade alla protagonista di Una notte a New York (2023, regia di Cristy Hall, titolo originale Daddio, “Paparino”), un film interamente basato sui dialoghi tra la giovane passeggera (interpretata da Dakota Johnson) persa dietro a uomini egoisti che la fanno sentire indegna d’amore, e il tassista Clark (interpretato da Sean Penn) che la riporta a casa dall’aeroporto mentre attorno a loro scorrono le immagini notturne di un’anonima città piena di luci. Quando arrivano a destinazione, lui prova a incoraggiarla:

«Hai la testa un po’ confusa ora, hai paura perché ti sei abituata a non respirare sott’acqua, non importa quanto vai a fondo, tu continui a trattenere il respiro…. Una persona come te… Tu non sei una naufraga, nuota, torna indietro a tutte quelle luci e colori!».

In certi casi, poi, la speranza è una tensione talmente spasmodica da trasformarsi in anèlito (letteralmente, “respiro affannoso”), un desiderio fervente di qualcosa (libertà, amore, giustizia, la terra promessa, Dio, scoprire la formula per un vaccino…), di cui la mente concepisce la possibilità e il corpo avverte dolorosamente la necessità, tanto da mobilitarsi ed essere pronto a giocarsi il tutto per tutto per conquistarla. Il perché lo spiega uno dei protagonisti di Casablanca (un film del 1942, diretto da Michael Curtiz):

Rick Blaine: «Ma vi siete mai chiesto se ne vale proprio la pena, se il gioco vale la candela?»

Victor Laszlo: «Sarebbe come chiedere perché respiriamo. Se non respiriamo, moriamo, se noi cessassimo di combattere il mondo perirebbe».

Rick Blaine: «E che importa? Così finirebbero le mie miserie».

Victor Laszlo: «Sapete chi sembrate? Uno che cerca di convincersi di qualcosa a cui nel profondo del cuore non crede».

Ricordate la storia? Casablanca è una città del Marocco che nel 1942 era un protettorato francese mentre la Francia era guidata da un regime filonazista; la scena si svolge al Rick’s Café, un locale frequentato da poliziotti francesi, ufficiali tedeschi, oppositori, reduci e transfughi di guerre di liberazione passate e presenti, e poi faccendieri e trafficanti che lucrano su tutto questo. Victor Laszlo (interpretato da Paul Henreid) è un comandante della resistenza cecoslovacca, Rick Blaine (interpretato da Humprey Bogart) è il titolare del locale, uno statunitense che di fare l’eroe ne avrebbe avuto abbastanza, avendo combattuto in Spagna dalla parte dei repubblicani, contrabbandato armi in Etiopia contro gli invasori italiani e infine rischiato di finire alcolizzato per dimenticare l’abbandono da parte della donna amata, Ilse (interpretata da Ingrid Bergman), moglie di Victor. Il loro idillio era nato tempo prima a Parigi, poi lei era tornata a stare con suo marito nella città occupata e ora sono arrivati insieme a Casablanca perché Victor è ricercato; Victor sa che Rick possiede due lasciapassare in bianco per l’espatrio ed è pronto a sacrificarsi: gli chiede di partire con lei per Lisbona e da qui verso la salvezza negli Stati Uniti, mentre lui resterà ad affrontare il suo destino. In questa scena Rick non s’impegna, posa a fare il cinico, è ancora risentito con la donna che lo aveva abbandonato ma, dopo varie vicissitudini, nel finale sarà Victor e non lui a salire su quell’aereo con Ilse, perché sarà proprio Rick il cinico, che in realtà è un sentimentale, a rischiare la pelle per farli scappare via insieme.

Non fosse stato per quell’anelito, per quel desiderio di un mondo migliore (“desiderio”, da de-sidera, “senza stelle”, stelle che mancano e andiamo cercando) che ha accomunato e indotto al sacrificio tante vite, il mondo non si sarebbe mai liberato dal nazifascismo né si sarebbe mai dotato, nel 1948, di una carta dei diritti umani fondamentali che avrebbe dovuto favorire la pace tra i popoli: vale la pena tenerlo a mente oggi, pochi anni dopo una pandemia da cui l’umanità sarebbe potuta uscire più saggia e mentre invece imperversano in tutti i continenti guerre calde e fredde e nuove frontiere vengono edificate contro nemici reali o temuti.

Per farsi forza in quegli anni durissimi restava poco più dei sogni a cui aggrapparsi, sogni come quello di Youkali, l’isola meravigliosa immaginata da Roger Fernay nel testo scritto nel 1935 sulle note di un tango-habanera di Kurt Weill:

«[…] È la speranza /  Che è nel cuore di tutti gli esseri umani /  La liberazione /  Che tutti aspettiamo domani / Youkali è il paese dei nostri desideri / Youkali, è felicità, è piacere / Ma è un sogno, una follia / Non esiste Youkali»[6].

E poi la liberazione arrivò e, dopo i festeggiamenti, cominciarono la ricostruzione e nuove contese. Ecco un brano da un libro di Christa Wolf, Il cielo diviso, scritto nel 1963, poco dopo la costruzione del muro che divise Berlino e l’Europa, e anche i destini individuali di persone come i due protagonisti del libro che in questo dialogo si danno addio:

«Un tempo, le coppie d'amanti prima di separarsi cercavano una stella, su cui i loro sguardi la sera potessero incontrarsi. Che cosa dobbiamo cercare noi? “Il cielo almeno non possono dividerlo” disse Manfred beffardo. Il cielo? Tutta questa cupola di speranza e di anelito, di amore e di tristezza? “Sì invece” disse lei piano. “Il cielo è sempre il primo a essere diviso”.

Ora vi starete chiedendo ciò che si chiede il direttore della CIA, uno dei protagonisti di quella sanguinosa commedia delle vanità e degli equivoci che è il film Burn after reading - A prova di spia (2000, regia di Joel ed Ethan Coen):

Diretore CIA: «Che abbiamo imparato, Palmer?»

Agente Palmer: «Non lo so, signore.»

Direttore CIA: «Non lo so nemmeno io... Forse abbiamo imparato a non farlo più!»

Agente Palmer: «Sì, signore!»

Direttore CIA: «Anche se non so che cosa abbiamo fatto!»
Agente Palmer: «Sì, è difficile... a dirsi».

Noi però potremmo imparare qualcosa di più del direttore della CIA, a maggior ragione se poi, come accade ad alcuni di noi, quelle in cui abbiamo la fortuna di trovarci sono istituzioni della conoscenza (università, scuole, archivi, biblioteche), che condividono una missione senza confini, al servizio delle nuove generazioni, del futuro, e che perciò non possono che produrre «anche le rose».

 

Dove stare, dove ritornare o da dove fuggire? 

Per esempio, potremmo chiederci: noi, nella nostra organizzazione, quali speranze e desideri coltiviamo o suscitiamo?

Assomigliamo a qualcuno dei personaggi citati o vi troviamo somiglianze in coloro che lavorano con noi? Riconosciamo un Chuck che ha fatto di necessità virtù imparando ad attrezzarsi per andare avanti e guarda al domani e agli imprevisti con ottimismo? Oppure c’è qualcuno come la ragazza in apnea per la quale un posto vale l’altro, tanto sono tutti inospitali? Non saremo mica uno dei suoi “paparini” che la maltrattano o le concedono poche briciole di attenzione? O magari siamo bravi proprio come Clark il tassista a trovare le parole che curano?  E c’è tra noi un Rick apparentemente cinico e ruvido, che però al momento del bisogno è pronto a congegnare una strategia rischiosissima per sé e vincente per tutti gli altri? O un Victor, difensore degli oppressi? E tutte queste persone si parlano, si danno retta o vanno ognuna per fatti suoi?  

E com’è l’esperienza di lavorare qui? A cosa somiglia il nostro ente? È come l’isola del naufragio di Cast away, un posto da dove scappare, o come Memphis, dove il protagonista desidera tornare? È come la New York spersonalizzante di Daddio dove tutto è in movimento e nessuno conosce nessuno, o come Casablanca, luogo di passaggio dove arriva e resta chi ha già perso tutto? O ancora è come la Berlino delle divisioni e delle cospirazioni, o la Washington degli intrighi e delle vacuità?

Dubito che qualcuna sia proprio come Youkali, troppo bella per essere vera, ma scommetto che molte sono un po’ come l’Italia descritta da Mme de Staël nel libro Corinna ou de l’Italie, 1807, un buon terreno dove, motivando le persone, coltivando i talenti e facendo entrare aria fresca, si riesce a venire a capo di tante difficoltà:

«[…] ma date uno scopo a questi uomini e li vedrete in sei mesi divenir capaci di tutto. […] Non si può non interessarsi vivamente a questo popolo, che respira con avidità quel po’ d’aria che l’immaginazione fa penetrare attraverso i limiti che lo rinserrano».

 

[1] Entrambi gli scritti sono raccolti in Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, traduzione di Elisa Tetamo, a cura di Andrea Tagliapietro, prefazione di Andrea Tagliapietro. Torino, Bollati Boringhieri, 2017. 

[2] Ravinder Jerat, Connor Beveridge, Respiratory Rhythm, Autonomic Modulation, and the Spectrum of Emotions: The Future of Emotion Recognition and Modulation, «Frontiers in Psychology», volume 11, 14 August 2020, https://doi.org/10.3389/fpsyg.2020.01980.

[3] Daisy Fancourt, Saoirse Finn, What is the evidence on the role of the arts in improving health and well-being?

World Health Organization, Regional office for Europe, 2019, (Health evidence synthesis report; 67), https://www.who.int/europe/publications/i/item/9789289054553.

[4] Dall’album Bringin it all back home, 1965. 

[5] La speranza è quella cosa con le piume è una poesia di Emily Dickinson, scritta nel 1861 e pubblicata nella raccolta Poems, Boston, Roberts Brothers, 1891. Ne esistono varie edizioni italiane.

[6] Ho tradotto il testo originale in francese delle strofe finali: «[…] C’est l’espérance qui est au coeur de tous les humains,/  La délivrance que nous attendons tous pour demain, / Youkali,/  C’est le pays de nos désirs, / Youkali, / C’est le bonheur, c’est le plaisir,/ Mais c’est un rêve, une folie, /Il n’y a pas de Youkali!».