Siamo solo di passaggio; sì! ma come vogliamo passare?
Siamo solo di passaggio; sì! ma come vogliamo passare?
E intanto passa ignaro
Il vero senso della vita
Si cambia amore, idea, umore
Per noi che siamo solo di passaggio
L’epigrafe riprende i versi del brano Di passaggio, opera di Franco Battiato, facente parte de L’imboscata, diciannovesimo album del maestro, pubblicato nel 1996.
A tema abbiamo la consapevolezza della problematicità riguardante l’insufficienza del mondo dell’esperienza pratico-pratica, considerato nella sua totalità, a render conto del senso dell’esistere umano.
Con ogni probabilità, sussistono due guise, essenzialmente assodate, di vivere, più o meno sensatamente, la propria esistenza. La prima, si lascia genericamente riassumere nel detto panem et circenses, un motto che connota, contemporaneamente, un ideale di vita dai risvolti pragmatici ed un instrumentum regni nelle mani delle strutture egemonizzanti di tutti i tempi. In questo caso il primato spetta evidentemente ai valori, ipotizzati reali o realmente fittizi, che sono diretti a soddisfare i bisogni primari dell’uomo, senza andar oltre. Valori colti e vissuti, per lo più, nella loro immediatezza, attraverso un accorto dosaggio che non esclude briciole di cultura preconfezionata secondo modelli standardizzati per evitare accuratamente l’attività cerebrale.
L’uomo, tuttavia, e qui la seconda modalità esigente cognizione e coscienza, rivela in sé un vigoroso anelito anelante tenacemente l’oltre. Sperimentando momenti di solitudine interiore, nei quali lambisce le radici del proprio essere, l’essere umano fa esperienza di un’inquietudine profonda di trascendimento: timore e tremore. Al di là degli stimoli che gli procura la fragranza del cibo quotidiano, al di là del diletto che consegue l’appagamento immediato dei sensi, ludicamente soddisfatti, fa esperienza di un bisogno che si compendia in un’eccedenza superante anche l’abbondanza del nutrimento materiale.
A questo livello l’esistenza umana assume, proprio nell’intimo, novelle, repentine ed inattese connotazioni. Non ci si accontenta più di ciò che è a portata di mano (il semplice Vorhandensein). Il puro dato di fatto, fosse pure suffragato dal plauso generale, non è per sé stesso normativo. Si sente il bisogno di andare all’essenza delle cose. Si sperimenta l’insufficienza di una vita vissuta in base ai si dice, si pensa, si ritiene. L’opinione degli uomini illustri e il consenso della maggioranza democratica non bastano più. È il rifiuto della banalità. É l’urgenza dell’interiorità, non dell’intimismo egocentrato autoreferenziale (prossimo solo alla monade assoluta ed assolutizzata di Leibniziana memoria).
Al di là dell’affetto coltivato per i pareri di una oligarchia illuminata, al di là del fascino per la forza seduttrice dell’opinione pubblica si percepisce l’esistenza di una sete ulteriore. Il magis amica veritas diventa, in questo caso, l’assioma che azzera le certezze pre-comprese, scalza dalle fondamenta dogmatismi antichi e recenti, muove alla ricerca di mete più impegnative.
Anche il mito dell’efficientismo perde la sua fascinazione. La prassi, senza la quale l’umana esistenza sarebbe ridotta a sterile immobilismo, cede il passo ad una potenza miocardica, comunque normativa nella sua simbolicità, che attraversandola l’oltrepassa. Una potenza valicante l’agire, spesso finalizzato solo a sé stesso, non per coartarlo ma per illuminarlo e dirigerlo, non per annullarlo bensì per sottrarlo al dispotismo dell’arbitrarietà e renderlo a misura della razionalità dell’uomo.
La vita, nel suo voler essere autentica, è chiamata ad esser condotta secondo parametri esistenzialmente veritativi capaci di rispondere in maniera esaustiva a suddetta potenza la quale, mentre trova appagamento, si trascende continuamente.
È il moto perpetuo dell’uomo che vagheggia l’esser uno ed unico.
Quindi, come vogliamo vivere il nostro passaggio? Sospesi all’irresponsabile assurdità obliante le ragioni dell’essere interiore oppure consapevoli che si è tra un’origine e un, non una, fine?