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L’ Avvocato può difendere chi sa colpevole, sostenendone l’innocenza?

Il diritto alla difesa o il dovere di difendere
avvocato e difesa del colpevole
avvocato e difesa del colpevole

L’ Avvocato può difendere chi sa colpevole, sostenendone l’innocenza?

Periodicamente assistiamo al linciaggio mediatico dell’avvocato che difende il “mostro di turno”.

È sempre stato così o è una deriva degli ultimi anni? All’interrogativo rispondiamo con il pensiero illuminante di Ettore Randazzo compianto penalista.

In questi giorni le minacce all’ avvocato di Catania, ieri ai colleghi di Roma, l’altro ieri al legale di Taranto e via di seguito. La cartina degli avvocati minacciati, vilipesi alla pubblica gogna dei social continua inesorabile e le “indignazioni” dell’avvocatura, in concreto, a poco servono per colmare il solco che divide chi esercita la nostra professione e il comune sentire della comunità di cui facciamo parte.

Basta invocare il diritto alla difesa sancito dall’articolo 24 della Costituzione per placare il clima d’incomprensione che alle volte sfocia in odio? Non si direbbe e allora bisogna interrogarsi sul ruolo dell’avvocato e sulla sua percezione nella società di cui è parte imprescindibile quale mastino a guardia delle regole.

Invocare la difesa tecnica sembra non bastare, il tema senza scappatoie, sofismi e nebulose premesse è un altro: può un avvocato sostenere l’innocenza dell’imputato che egli sa, con assoluta certezza essere colpevole?

Alla domanda rispondiamo con la riflessione dimenticata di Ettore Randazzo: L’ Avvocato può difendere chi sa colpevole, sostenendone l’innocenza?

Il pensiero di Randazzo è stato pubblicato nel 2014 nella rivista Gli oratori del giorno di Titta Madia, altro collega scomparso recentemente, che nell’introduzione all’articolo (qui non riportata), sostiene “…finchè permane nel nostro ordinamento il diritto dell’imputato a mentire, secondo quanto stabilisce l’art. 64 c.p.p., l’avvocato può difendere la menzogna, anzi la può anche suggerire. E’ un diritto del suo assistito e l’avvocato è difensore dei diritti prima che delle persone che li esercitano e può indicare i modi di esercizio del diritto”.

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L’ Avvocato può difendere chi sa colpevole, sostenendone l’innocenza?

L’art. 14, canone I, prima parte, del precedente codice deontologico prevedeva che “L’ avvocato è tenuto a non introdurre intenzionalmente atti o documenti falsi”.

Al parto di questo art. 14, redatto dalla apposita commissione del C.N.F., ho avuto il privilegio di partecipare.

Esso nasceva con un’espressione che vietava non solo l’introduzione ma persino l’utilizzazione di elementi di cui si conoscesse la falsità, dunque anche se introdotti da altre parti. In altri termini, inizialmente, quando è stato redatto il codice deontologico del 1997, si era statuito che il difensore non potesse utilizzare prove consapevolmente false. Sbagliavamo. Un errore evidente, che segnalai a Remo Danovi, grande esperto di deontologia forense e coordinatore della detta commissione.

Anche gli altri componenti la commissione, approfondito il problema, si convinsero. E si convinse il Consiglio Nazionale Forense, che quindi modificò e impeccabilmente cambiò il divieto di “utilizzare” con quello di “introdurre”.

Di conseguenza non si poteva introdurre una prova di cui si sapesse la falsità, ma la si poteva utilizzare se fosse stata introdotta da altre parti. Essa si poteva e spesso si doveva utilizzare perché siamo avvocati. Perché, come tali, dobbiamo tutelare gli interessi del nostro assistito al meglio, e dunque in ossequio oltre che alle norme processuali alle regole deontologiche, che tuttavia non potevano dimenticare la nostra funzione.
Spetta al pubblico ministero la ricerca della verità, con i limiti che ne derivano. Da difensori noi non difendiamo le azioni contestate all’imputato, bensì garantiamo, o almeno facciamo il possibile per reclamare e garantire, i diritti di chiunque ad un processo equo e rispettoso dei canoni procedurali.


Non può immaginarsi un sistema giuridico liberale che, da un canto ammetta, doverosamente, il diritto di difesa di chiunque, dall’altro condizioni questo sacrosanto diritto alla confessione, costringendo l’imputato all’ammissione di colpevolezza, magari condannandolo se dice il falso.

L’art. 14, dopo questa modifica, ha svolto egregiamente il suo compito di disciplinare il dovere di verità dell’ avvocato. Non risultano, per quanto consti della casistica giurisprudenziale, problemi connessi alla formulazione dell’articolo de quo, e tantomeno in particolare del suo primo canone comportamentale.

Quanto invece all’art. 50 del nuovo codice, che con la medesima rubrica si occupa delle stesse tematiche dell’art. 14, si impongono alcune riflessioni.
 

Utilizzare la prova contraria alla verità… si può?

Infatti, nel comma 3, (secondo cui l’avvocato a conoscenza della falsità introdotta dal suo assistito prima che lui assumesse il mandato non può utilizzarla “o” deve rinunciare al mandato), inizialmente anziché la congiunzione “o” vi era la “e”.

Inoltre, la prima stesura dell’art. 50, diffusa alle associazioni e agli ordini forensi, indicava tra le falsità anche le “dichiarazioni”.

Si trascrive ancora, per comodità, il comma in questione, come approvato il 31-1-2014, e dunque prima delle modifiche apportate all’edizione definitiva:

l’avvocato che apprenda, anche successivamente, dell’introduzione nel procedimento di prove o elementi di prova, dichiarazioni o documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, non può utilizzarli e deve rinunciare al mandato”.

Ebbene, a prescindere dalla superfluità di un divieto di utilizzazione per chi debba comunque rinunciare al mandato, c’erano da temere interpretazioni giurisprudenziali deformanti. E ciò sia in genere, valorizzando il rigore del precetto, che sostanzialmente limitava il dovere di difesa del difensore, oltre che il diritto di difesa dell’imputato; sia in specie, con riferimento alla parola “dichiarazioni”, che avrebbe potuto interpretarsi comprendendo persino quelle difensive (e legittimamente anche bugiarde) rese dall’imputato! Logicamente la commissione redigente non voleva includere anche questi casi; tuttavia, ciò non bastava a scongiurare una simile e potenzialmente dirompente interpretazione, dato che la lettura della regola avrebbe potuto supportarla.
 

La prova falsa, la prova erronea

Se si fossero sanciti non solo – e condivisibilmente – il divieto dell’uso, ma anche – e inspiegabilmente – l’obbligo di rinunciare al mandato, si sarebbero potuti registrare effetti certamente non voluti dal legislatore disciplinare. Infatti, ogni difensore nominato dall’imputato e informato (verosimilmente in segreto professionale) dell’atto falso precedentemente introdotto nel processo, non avrebbe potuto limitarsi a non utilizzarlo; il precetto deontologico originario gli avrebbe imposto di rinunciare al mandato. Pertanto, il processo avrebbe probabilmente subito conseguenze piuttosto strambe.
Alternativamente, a seconda di quel che avrebbe deciso l’imputato, che così avrebbe potuto fare strame del divieto deontologico, avremmo potuto trovarci di fronte a due soluzioni alternative, entrambe insostenibili: le obbligate dimissioni seriali dei difensori che l’imputato avesse via via nominato informandoli della falsità, così provocando lo stallo del processo, che non avrebbe potuto celebrarsi in mancanza di un avvocato, di fiducia o di ufficio; la decisione dell’imputato di non informare il suo difensore, ottenendo proprio quel che certamente si è sempre voluto evitare, ovvero l’utilizzo probatorio dell’atto falso!

I due corni del dilemma apparivano dunque inaccettabili e penalizzanti.

L’imputato, subito informato del precetto deontologico dal primo dei difensori costretto a dimettersi spiegandogliene doverosamente le ragioni, decide di approfittarne e continua a nominare e informare della falsità ogni difensore (ovviamente anche d’ufficio). Con la conseguenza di una stasi potenzialmente irreversibile del processo, nel quale nessun avvocato – magari appositamente informato – avrebbe potuto mantenere il suo incarico professionale.

L’imputato, compreso l’inghippo e confidando in un esito favorevole del processo (magari grazie proprio all’elemento falso precedentemente introdotto), lo risolve evitando di confidare al suo difensore la falsità. Unica soluzione, paradossalmente, sarebbe stata quindi la violazione del precetto deontologico. Infatti, il difensore disinformato avrebbe utilizzato legittimamente l’atto falso perché non ne avrebbe conosciuta la falsità.

Una simile alternativa, dunque, avrebbe comportato da un canto la privazione del diritto dell’imputato di rivelare al suo difensore tutta la verità, sì da beneficiare di una difesa consapevole; e dall’altro la contraddittoria proposizione secondo cui il difensore, pur doverosamente tenuto a mantenere il segreto professionale (la cui violazione è sanzionata sia disciplinarmente che penalmente), avrebbe finito col danneggiare il suo assistito, tradendo – per fatti concludenti- la sacralità di quanto appreso.

Una violazione di fatto del segreto professionale per il difensore di fiducia, mentre per il difensore d’ufficio avrebbe comportato una rivelazione esplicita, posto che l’art. 30, comma 3, delle norme di attuazione al c.p.p. esige una valida motivazione per la rinuncia in caso di incarico officiale. Invero, non sarebbe stato sufficiente un generico riferimento a ragioni deontologiche, o comunque il difensore avrebbe dovuto o potuto essere più esplicito anche se non richiesto.

Né poteva trascurarsi, del resto, il contrasto tra il segreto professionale e il dovere di verità. In mancanza di espresse previsioni, il difensore avrebbe potuto e in effetti dovuto far prevalere l’interesse dell’assistito, dunque la riservatezza di quanto da quest’ultimo riferito.

Non sempre e non solo vi sarebbero state crisi di coscienza.
Non può escludersi infatti che l’avvocato non avrebbe voluto perdere il suo cliente, per tanti motivi, non tutti nobili. Non sarebbe commendevole nascondersi scientemente dietro il segreto professionale, preferendone l’osservanza rispetto al dovere di verità per mere ragioni “pratiche”. Tuttavia, è inutile negarlo, avrebbe potuto verificarsi anche questo.

Forse nella prassi si sarebbe assistito a un’altra reazione. Il giudice verosimilmente si sarebbe accorto – specie di fronte a più dimissioni – di un’anomalia.

L’avrebbe compreso perché a conoscenza del nostro codice deontologico e quell’atto falso magari sarebbe già stato oggetto della sua attenzione; oppure lo avrebbe appreso dal difensore d’ufficio, se non dai chiacchiericci di corridoio. Così avrebbe conosciuto una circostanza molto negativa e in molti casi delittuosa per l’imputato (l’aver introdotto un atto falso), grazie alla condotta proprio della difesa.
Alias sarebbe stato il difensore a provocare un simile pregiudizio all’assistito, sostanzialmente violando il segreto professionale. Il giudice, comunque, individuato il teste, il consulente o l’atto falso, avrebbe disposto la trasmissione degli atti in Procura e manifestato in tal modo, seppure implicitamente, il suo proposito di non tenerne alcun conto quale elemento di prova a favore della difesa. Ciò avrebbe fatto pur di risolvere l’inghippo giudiziario. Nemmeno in questo caso, tuttavia, la difesa avrebbe potuto osservare la regola deontologica in questione, che comunque avrebbe imposto una rinuncia al mandato destinata a rimanere incomprensibile e dannosa. Dannosa per il processo, per il sistema, per le conseguenze deontologiche, per lo stesso imputato, che non ne sarebbe uscito bene dalla scoperta del suo tentativo di frodare la giustizia. Il giudice non avrebbe avuto alcuna benevolenza nei suoi confronti.

 

Le conseguenze di un divieto irragionevole

Sempre che fosse riuscito a processarlo …

Né si sarebbe potuto impedire al difensore informato dall’imputato della falsità di decidere di farsi giustizia da sé con il pretesto di onorare rigorosamente il segreto professionale.
E dunque, non tenendo conto della rivelazione coperta dal segreto, avrebbe utilizzato l’atto falso contando sulla fortissima probabilità che nessuno se ne sarebbe accorto. Una soluzione “all’italiana” della quale non avremmo potuto certo vantarci e che tra l’altro avrebbe esposto il difensore alla denuncia disciplinare del suo assistito (per mille motivi, ad esempio di ripicca di fronte a una causa persa o ad un onorario ritenuto esoso, che l’esperienza ci ha insegnato).


Sarebbe l’effetto perverso di un precetto tanto intransigente da divenire impraticabile, ovvero da richiedere ragionevolezza sia nelle auspicabili modifiche che, intanto, nelle interpretazioni degli organi disciplinari.

Tutto ciò si temeva. Ed è davvero apprezzabile che sia stato lo stesso legislatore codicistico a risolvere il problema prima che nascesse ufficialmente, condividendo le segnalazioni degli avvocati dell’Unione delle Camere Penali Italiane, formalizzate dal suo presidente Valerio Spigarelli, all’esito dei lavori dell’Osservatorio della qualità e deontologia del difensore, che all’interno dell’associazione ora citata aveva approfondito il tema, anche in incontri convegnistici e seminariali con il C.N.F.

Peraltro, a proposito di segreto professionale, dovrà tenersi conto del comma terzo dell’art. 55: Il difensore deve mantenere il segreto sugli atti delle investigazioni difensive e sul loro contenuto, finché non ne faccia uso nel procedimento, salva la rivelazione per giusta causa nell’interesse della parte assistita. Se il difensore apprendesse della falsità svolgendo indagini difensive, dovrebbe mantenere il segreto su quanto appreso.

Le condotte conseguenti alla conoscenza della falsità violerebbero il segreto? e la rinuncia al mandato in dipendenza proprio dall’attività investigativa da lui svolta sarebbe compatibile con l’obbligo di mantenere il segreto? L’art. 2, comma 2, del codice, secondo cui l’avvocato ha la funzione di garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti, come poteva conciliarsi con le dimissioni obbligatorie ex art. 50?
 

Ecco la soluzione all’ “italiana”

L’alternativa che si concede al difensore (non utilizzare l’atto falso o rinunciare al mandato) consente indubbiamente una più ragionevole valutazione.

Possono infatti verificarsi nella casistica prevedibile diverse situazioni in cui la rinuncia al mandato sia una decisione più opportuna che il mancato utilizzo dell’atto falso. Si pensi, ad esempio, a queste eventualità, verosimilmente non remote:

1) l’assistito insiste per l’utilizzo dell’atto falso, non comprendendo o non volendo comprendere i limiti deontologici che gli vengono rappresentati; in fondo, si tratta di un’ipotesi che non lascia dubbi: il difensore si dimetterà.

2) il difensore ritiene che ignorare quell’atto nello svolgimento della sua funzione lo metta in difficoltà per l’evidente rilevanza che esso assuma nel processo; tale da insospettire il giudice, certamente a conoscenza dell’art. 50, oppure da far sorgere serie perplessità sulla professionalità di un difensore che ometta un argomento così importante.

3) l’atto falso è così macroscopicamente presente tra gli elementi probatori favorevoli che non basta tacere per evitarne una valutazione decisoria alterata. In particolare, violerà l’art. 50 il difensore che senza citare mai l’atto in questione esponga, nella discussione finale, altri argomenti difensivi, con espressioni come “mi limito a sottolineare questi dati senza ripetere argomentazioni già svolte” oppure “mi associo alle conclusioni del pubblico ministero” (che in ipotesi abbia citato l’atto falso per dedurne la necessità di assolvere l’imputato), così lasciando intendere come sia superfluo evidenziare l’atto falso?

In definitiva, il difensore che decida di non dimettersi, limitandosi a non utilizzare l’atto falso, sarà sottoposto dagli organi disciplinari a una verifica del credito che anche silenziosamente abbia conferito allo stesso? E quale sarà il limite invalicabile?
 

La menzogna dell’ Avvocato

L’articolo 50 esige probabilmente altre riflessioni arricchite dalla concreta sperimentazione del codice. Andrà delineata la “postura” che deve assumere il difensore nei confronti del dovere di verità. Al quale – a certe condizioni – è certamente tenuto: si tratta di delinearne le caratteristiche, di individuarne i contenuti, tenendo conto che i principi deontologici di quest’articolo sono validi per l’avvocato in genere, non solo per il penalista.

Inoltre, andrà individuato il discrimine – nell’ambito del dovere di verità – tra le dichiarazioni non veritiere consentite all’avvocato e quelle a lui vietate nella difesa del colpevole. L’obbligo di verità, secondo i nostri precetti deontologici, viene violato in presenza di tre condizioni: che le dichiarazioni dell’avvocato riguardino fatti obiettivi non appresi dall’assistito nel segreto professionale; che di questi l’avvocato abbia diretta conoscenza; che essi siano presupposto specifico di un provvedimento giudiziale. Il tenore delle espressioni verbali utilizzate, insieme al buon senso, inducono a dare una sola interpretazione: i fatti obiettivi di cui l’avvocato è a diretta conoscenza non sono fatti di causa in senso stretto, bensì quelle situazioni personali dell’assistito constatate dal suo difensore, e tali da determinare una decisione.
Qui deve però ricordarsi che il comma 5 dell’articolo 50 vieta all’avvocato di impegnare di fronte la giudice la sua parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio. E ciò ovviamente a prescindere dalla verità dei fatti riferiti.


Ben più grave sarebbe una falsa rappresentazione dei fatti stessi, con la conseguente più severa valutazione sanzionatoria.
 

Il dovere del segreto e la difesa “piena”

Fondamentale sembra la distinzione tra conoscenza diretta e mediata. Quest’ultima è quella che l’avvocato apprende dall’assistito o durante l’attività svolta in difesa dello stesso, comprese ad esempio le indagini difensive: essa è “indisponibile”, tutelata dal segreto professionale; mai potrebbe farsene uso in danno dell’interessato, nemmeno per ossequio a una verità nei cui confronti, invece, non c’è alcun obbligo, e che anzi potrebbe snaturare la funzione difensiva.

La conoscenza diretta è invece molto contenuta, limitandosi a ciò che il professionista constati personalmente ai margini della vicenda: ad esempio le condizioni di vita e di salute dell’assistito. In ordine a queste, non è consentito all’avvocato di fornire una “testimonianza” falsa all’autorità giudiziaria.

Si pensi alle false affermazioni da parte del difensore che il suo assistito non sia presente in aula (magari per ottenere un rinvio non risultando la notifica della citazione), ovvero che sia stato recentissimamente raggiunto da una misura coercitiva personale, o anche che vive in tugurio, etc.

Se il divieto ora indicato avesse connotati più ampi, se svolgendo indagini il difensore apprendesse (o meglio, ritenesse di poter dedurre, magari errando in questa valutazione) la colpevolezza del suo difeso, davvero non potrebbe più sostenerne l’innocenza, perché violerebbe il dovere di verità? Sarebbe anche questa una conoscenza diretta, parimenti a quella acquisita indagando? È evidente come si tratterebbe di irragionevoli e illiberali limiti alla difesa, fino a minarne la funzione.
Del resto, che differenza c’è tra rendersi conto della colpevolezza a seguito dello svolgimento delle indagini ovvero della rivelazione dell’assistito, che si premuri di fornire al suo difensore una dettagliata narrazione dei fatti? Può mai dubitarsi del dovere dell’avvocato di rispettare il segreto e difenderlo sostenendo l’innocenza dell’assistito, anche se ne conosca la colpevolezza?

Il legislatore deontologico, di ieri e di oggi, non vuole e non può legittimare una simile lettura, perché essa equivarrebbe a snaturare clamorosamente la stessa essenza della difesa. Che contrasta con l’attività – comunque velleitaria – di giudicare l’assistito, rifiutandogli una difesa piena se non ne sembrasse “meritevole”.

Se questa aberrante tesi dovesse farsi strada nella nostra funzione, l’imputato non sarebbe difeso da chi possa far valere i suoi diritti, bensì da una figura ibrida e ambigua decisamente incompatibile con la difesa che la nostra civiltà giudiziaria ha conquistato.

Quanto all’obbligo di consultazione tra i difensori ai fini dell’effettiva condivisione delle strategie processuali, non è sostenibile che le garanzie difensive perdono il loro connotato … se sono interpretate in modo distorto rispetto alla loro essenza.

O meglio, bisogna intendersi sulla loro essenza.

Per quel che s’è detto essa non è quella di collaborazione alla giustizia nel senso, a dir poco deformante, che ci viene offerto dalle S.U.: la ragionevole durata sopra ogni altro valore.

La Corte costituzionale, in decisioni ben più recenti (chiarissima, ad esempio, l’ordinanza n. 205 del 10-6-2010) di quelle, risalenti a tre lustri addietro, quando ancora non era stato modificato l’art. 111 della Carta fondamentale, citate dalle S.U., ha giustamente esaltato la preminenza delle garanzie difensive, che certamente non possono sacrificarsi sull’altare di una durata del processo la cui ragionevolezza è un diritto dell’imputato (si veda anche l’art. 6 della C.E.D.U.), non un potere punitivo dello Stato.

La difesa autentica, effettiva e per tutti, è essenziale per una vera giustizia.

A condizione che sia libera di garantire all’imputato tutti i diritti previsti dal sistema, rafforzati – non certo annullati – dalle regole deontologiche. Che, per tornare alla fattispecie affrontata dalla Corte, prevedono sì la collaborazione tra i condifensori e la condivisione della strategia processuale.

Purché, però, si rispetti l’interesse del loro assistito. Che legittimamente può concretizzarsi anche nella prescrizione dei reati a lui ascritti. Negare questo fondamentale principio equivale a non (voler) intendere, o peggio accettare, la libertà della funzione difensiva.

La giurisprudenza disciplinare relativa alle tematiche di cui all’art. 14 non segnala alcuna difficoltà interpretativa. In particolare, non sembra che siano sorti problemi in merito all’ipotesi ora introdotta dall’art. 50, relativa all’utilizzazione di elementi di prova falsi prodotti dall’assistito prima di conferire il mandato all’attuale difensore. Probabilmente perché, in questo caso, il difensore correttamente non ha utilizzato l’atto falso senza che alcuna controversia sia stata segnalata all’organo disciplinare competente. Il Consiglio nazionale, viceversa, ha avuto occasione di ribadire il divieto di introduzione di prove false (da ultimo si veda CNF, 6-6-13, n. 87), a maggior ragione se falsificate dallo stesso avvocato che poi le dia a un collega per produrle in giudizio (CNF, 2-3-12, n. 35).
 

Un po' di giurisprudenza

Secondo un’interessante decisione (CNF, 22-10-10, n. 103), “laddove un avvocato si trovi nella condizione di non poter seguire allo stesso tempo verità e mandato, leggi e cliente, la sua scelta deve privilegiare il più alto e pregnante dovere radicato sulla dignità professionale, ossia l’ossequio alla verità e alle leggi spinto fino all’epilogo della rinuncia al mandato in virtù di un tale giusto motivo, astenendosi dal porre in essere attività che siano in contrasto con il prevalente dovere di rispetto della legge e della verità”.


La massima, non chiarendo la situazione effettiva in cui si trovava il difensore, non consente di valutarne compiutamente il principio; tuttavia, non è condivisibile l’affermata prevalenza, sul dovere di difesa, del rispetto della verità, in sé anzi contrastante con la funzione difensiva, che certamente non è condizionata dalla verità se non nei limiti di cui all’art. 14 ieri, 50 oggi.

È invece pienamente condivisibile, quale che sia la vicenda esaminata, la pronuncia del CNF n. 192 del 23-11-00: “L’avvocato che, a vantaggio del proprio cliente, ipotizzi reati a carico della controparte per fatti che sappia non veri, denunciandoli o concorrendo a denunciarli, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché lesivo del dovere di correttezza e probità a cui ciascun professionista è tenuto”.

A prima vista sembrerebbe che il caso giudicato dal Consiglio Nazionale non possa riguardare la difesa di un imputato o di un indagato. Quale che sia la fattispecie, e in particolare il ruolo processuale dell’assistito, è al contrario valido il principio affermato nella sentenza ora richiamata. Infatti, il diritto di difesa trova un limite nella calunnia. Alias, ci possiamo difendere, ma non incriminando altri di cui conosciamo l’innocenza.
 

La difesa della presunta vittima

Ben più stringenti sono le riflessioni dell’avvocato nel caso in cui sia la persona offesa a chiedergli di difenderla, tutelando i suoi diritti in sede penale. Devono qui tenersi in conto due tipologie: anche se non ce n’è ancora notizia formale, è in corso un procedimento che riguarda il reato subito; oppure l’Autorità Giudiziaria non ha alcuna notizia del fatto-reato, proprio perché la persona che si dichiara “offesa” non ha ancora proposto alcuna querela o denuncia.

Ebbene, capita frequentemente che chi si presenta all’avvocato indossando le vesti della vittima del reato ritenga ingiustamente di esserlo: per erronea valutazione dei fatti e della loro responsabilità anche sotto il profilo causale magari, oppure per normale ignoranza dei principi del codice penale. È ben peggiore la condizione di chi invece sappia di non essere vittima di alcun reato ma tenti maliziosamente di apparirlo, intanto ai nostri occhi, quindi – nostro tramite – all’Autorità Giudiziaria. Qualora escludessimo che la valutazione dell’altrui responsabilità penale sia corretta, ovvero subodorassimo un intento calunnioso, diverrebbe certamente doveroso non prestarsi alla impropria strumentalizzazione della nostra funzione. Si tratta, insomma, di un’autentica deontologia della denuncia.
 

Attenzione all’aspirante calunniatore

Quasi mai, tuttavia, l’avvocato può sapere quanto sia vero quel che gli viene riferito. Orbene, senza perciò divenire giudici dei nostri assistiti, ciò che snaturerebbe il nostro compito, non possiamo nemmeno assecondare un’iniziativa che odori di calunnia.
Pertanto, se l’interessato ci racconta la sua versione della vicenda esternando circostanze prima facie sospette, si impongono approfondimenti preliminari alla predisposizione della denuncia o della querela. Allo scopo di evitare un’iniziativa giudiziaria improvvida e pericolosa per lo stesso denunciante, le indagini difensive preventive quali difensori della persona offesa, in simili evenienze, sono certamente consigliabili e non presentano solitamente alcuna controindicazione.

Previo il particolare mandato professionale previsto dall’art. 391-nonies (secondo cui si può investigare anche “per l’ipotesi che si istauri un procedimento penale”), il difensore interrogherà persone in grado di riferire circostanze utili, incaricherà consulenti e se del caso anche investigatori. Dirà comunque alla presunta persona offesa che ritiene indispensabile procedere a qualche verifica per poter decidere adeguatamente se vi siano i presupposti per dar corso a un’iniziativa giudiziaria.

A volte l’interessato, dinanzi alla prospettiva di impegnare il suo difensore in accertamenti che saranno conteggiati in parcella, con la consapevolezza di un risultato negativo della sua narrazione dei fatti, trova un pretesto per sospendere l’incarico e si ritira prudentemente. Potrebbe, quindi, perdersi il cliente (permaloso o insofferente, in mala fede o stupido che sia): nessun rimpianto in questi casi. Altrimenti, se le indagini si faranno proficuamente, come avviene ben più frequentemente, si fornirà agli inquirenti un approfondimento di sicura utilità.

Infatti, qualora dalle investigazioni si ottenesse un riscontro o almeno non si potesse escludere la bontà di quanto appreso, l’avvocato potrà procedere alla redazione della denuncia o della querela. Deciderà l’opportunità di allegare alla stessa la documentazione delle indagini svolte, spesso utili al pubblico ministero inquirente, che ne terrà conto e potrà anche concludere più rapidamente la sua inchiesta.

Nel caso in cui, al contrario, le impressioni negative fossero rafforzate dalle sue indagini, l’avvocato rinuncerà al mandato, informando l’aspirante calunniatore dei rischi, oltre che dell’ingiustizia, di una calunnia.

Comunque, il difensore è tenuto ad informare l’interessato dei limiti, non solo temporali, della giustizia, anche se così si rischia di scoraggiarlo ad intraprendere un’azione giudiziaria.

Quando il cliente, che abbia superato il vaglio di attendibilità sopra riferito, insista nel richiedere la nostra assistenza dopo aver appreso da noi delle lungaggini e dell’alea del sistema giudiziario, prepareremo la querela o la denunzia con il massimo scrupolo, dedicando la dovuta attenzione nel riferire i fatti, tenendo conto che affermazioni imprudenti (cioè relative a circostanze in ordine alle quali non possiamo fornire riscontri) potrebbero generare un’incriminazione per calunnia.

Segnaleremo, invece, gli elementi di prova che il pubblico ministero potrà raccogliere, prospettando gli estremi del reato configurabile; ciò sempre che non avremo deciso di procedere noi stessi ad arricchire l’atto giudiziario allegando la documentazione delle indagini difensive eventualmente svolte.