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Art. 41-bis

Situazioni di emergenza

1. In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell’istituto interessato o in parte di esso l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l’ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.

2. Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti o internati per taluno dei delitti di cui al primo periodo del comma 1 dell’articolo 4-bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso, in relazione ai quali vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva, l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza. La sospensione comporta le restrizioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti con l’associazione di cui al periodo precedente. In caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione può essere disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena o di misura cautelare relativa ai delitti indicati nell’ articolo 4-bis.

2-bis. Il provvedimento emesso ai sensi del comma 2 è adottato con decreto motivato del Ministro della giustizia, anche su richiesta del Ministro dell’interno, sentito l’ufficio del pubblico ministero che procede alle indagini preliminari ovvero quello presso il giudice procedente e acquisita ogni altra necessaria informazione presso la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, gli organi di polizia centrali e quelli specializzati nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, terroristica o eversiva, nell’ambito delle rispettive competenze. Il provvedimento medesimo ha durata pari a quattro anni ed è prorogabile nelle stesse forme per successivi periodi, ciascuno pari a due anni. La proroga è disposta quando risulta che la capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale, terroristica o eversiva non è venuta meno, tenuto conto anche del profilo criminale e della posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, della perdurante operatività del sodalizio criminale, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, degli esiti del trattamento penitenziario e del tenore di vita dei familiari del sottoposto. Il mero decorso del tempo non costituisce, di per sè, elemento sufficiente per escludere la capacità di mantenere i collegamenti con l’associazione o dimostrare il venir meno dell’operatività della stessa. (4)

[2-ter. Se anche prima della scadenza risultano venute meno le condizioni che hanno determinato l’adozione o la proroga del provvedimento di cui al comma 2, il Ministro della giustizia procede, anche d’ufficio, alla revoca con decreto motivato. Il provvedimento che non accoglie l’istanza presentata dal detenuto, dall’internato o dal difensore è reclamabile ai sensi dei commi 2-quinquies e 2-sexies. In caso di mancata adozione del provvedimento a seguito di istanza del detenuto, dell’internato o del difensore, la stessa si intende non accolta decorsi trenta giorni dalla sua presentazione. (1)]

2-quater. I detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione devono essere ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto e custoditi da reparti specializzati della polizia penitenziaria. La sospensione delle regole di trattamento e degli istituti di cui al comma 2 prevede:

a) l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna, con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate;

b) la determinazione dei colloqui nel numero di uno al mese da svolgersi ad intervalli di tempo regolari ed in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti. Sono vietati i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi, salvo casi eccezionali determinati volta per volta dal direttore dell’istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria competente ai sensi di quanto stabilito nel secondo comma dell’articolo 11. I colloqui vengono sottoposti a controllo auditivo ed a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente ai sensi del medesimo secondo comma dell’articolo 11; solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell’istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria competente ai sensi di quanto stabilito nel secondo comma dell’articolo 11, e solo dopo i primi sei mesi di applicazione, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto, comunque, a registrazione. I colloqui sono comunque videoregistrati. Le disposizioni della presente lettera non si applicano ai colloqui con i difensori con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari; (3)

c) la limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno;

d) l’esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati;

e) la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia; (7)

f) la limitazione della permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone, ad una durata non superiore a due ore al giorno fermo restando il limite minimo di cui al primo comma dell’articolo 10. Saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi (2) (6)

2-quinquies. Il detenuto o l’internato nei confronti del quale è stata disposta o prorogata l’applicazione del regime di cui al comma 2, ovvero il difensore, possono proporre reclamo avverso il procedimento applicativo. Il reclamo è presentato nel termine di venti giorni dalla comunicazione del provvedimento e su di esso è competente a decidere il tribunale di sorveglianza di Roma. Il reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento.

2-sexies. Il tribunale, entro dieci giorni dal ricevimento del reclamo di cui al comma 2-quinquies, decide in camera di consiglio, nelle forme previste dagli articoli 666 e 678 del codice di procedura penale, sulla sussistenza dei presupposti per l’adozione del provvedimento. All’udienza le funzioni di pubblico ministero possono essere altresì svolte da un rappresentante dell’ufficio del procuratore della Repubblica di cui al comma 2-bis o del procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. Il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, il procuratore di cui al comma 2-bis, il procuratore generale presso la corte d’appello, il detenuto, l’internato o il difensore possono proporre, entro dieci giorni dalla sua comunicazione, ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del tribunale per violazione di legge. Il ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento ed è trasmesso senza ritardo alla Corte di cassazione. Se il reclamo viene accolto, il Ministro della giustizia, ove intenda disporre un nuovo provvedimento ai sensi del comma 2, deve, tenendo conto della decisione del tribunale di sorveglianza, evidenziare elementi nuovi o non valutati in sede di reclamo. (5)

2-septies. Per la partecipazione del detenuto o dell’internato all’udienza si applicano le disposizioni di cui all’articolo 146-bis delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.

(1) Comma abrogato dall’art. 2, comma 25, lett. e), L. 94/2009.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 186/2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della presente lettera, come modificata dalla citata legge n. 94/2009, limitatamente alle parole «e cuocere cibi».

(3) La Corte costituzionale, con sentenza 143/2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della presente lettera limitatamente alle parole «con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari».

(4) In questo comma le parole: «Direzione nazionale antimafia» sono state sostituite dalle seguenti: «Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo», ai sensi di quanto disposto dall’ art. 20, comma 4, DL 7/2015, convertito, con modificazioni, dalla L. 43/2015.

(5) In questo comma le parole «procuratore nazionale antimafia» sono state sostituite dalle seguenti: «procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo», ai sensi di quanto disposto dall’ art. 20, comma 4, DL 7/2015, convertito, con modificazioni, dalla L. 43/2015.

(6) La Corte costituzionale, con sentenza 97/2020, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità».

(7) La Corte costituzionale, con sentenza 20/2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera e), nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori.

Rassegna di giurisprudenza

Questioni di legittimità costituzionale

E' rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli articoli 3, 25, 27, 111 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 7 e 4, prot. n. 7, CEDU, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, commi 2 e 2-quater, della legge del 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario), nella parte in cui prevedono la facoltà di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla stessa legge, con adozione obbligatoria delle misure enunciate nel comma 2-quater, nei confronti degli internati, assoggettati a misura di sicurezza detentiva (Sez. 1, 30408/2020).

Differenza tra regime ex art. 41-bis e isolamento diurno ex art. 72 c.p.

Non sussiste una sovrapponibilità tra il periodo di carcerazione sofferta in regime detentivo differenziato ai sensi dell’art. 41-bis e la durata dell’isolamento diurno inflitto con la sentenza definitiva di condanna alla pena dell’ergastolo, attesa la radicale differenza tra l’istituto dell’isolamento diurno (che ha il carattere di una vera e propria sanzione penale) e quello della sospensione di alcune regole ordinarie del trattamento, prevista dall’art. 41-bis che incide invece solo sulle modalità di attuazione del regime di detenzione. Come è stato evidenziato dalla sentenza della Corte costituzionale 351/1996, l’isolamento del detenuto dal resto della popolazione carceraria deve intendersi potenzialmente non ricompresa nell’ordinario trattamento penitenziario, dovendo intendersi che la regola generale sia quella dell’ammissione del condannato alla vita in comune onde consentire e favorire il suo processo di risocializzazione e il suo recupero al contesto sociale ai sensi dell’art. 27 Cost., comma 3. Ogni provvedimento che tende pertanto a una separazione in tal senso del detenuto deve intendersi di natura eccezionale. Ciò posto, deve ritenersi tuttavia sussistere un regime derogatorio a quello ordinario di vita in comune, qual è quello dell’isolamento continuo (diurno e notturno) per le finalità previste dalla legge tra cui (oltre all’isolamento sanitario, giudiziario e disciplinare) l’isolamento come sanzione penale, disciplinato non dall’ordinamento penitenziario, bensì dall’art. 72 c.p. Nonostante l’art. 72 c.p., comma 3, precisi che la condanna all’isolamento diurno non precluda all’ergastolano di partecipare all’attività lavorativa, come specificato anche dal regolamento d’esecuzione che consente agli ergastolani di svolgere attività lavorativa, di istruzione e di formazione (diverse dai normali corsi scolastici) nonché di partecipare alle funzioni religiose, deve rilevarsi che l’isolamento continuo come sanzione penale, proprio per la sua natura di sanzione penale si verifica un rovesciamento della regola ordinaria di non separazione perché giustificato dal fatto di costituire, esso isolamento, una sanzione di inasprimento dell’ergastolo, anch’essa sanzione penale. Colui che è posto in isolamento non è ammesso alla vita in comune, in via di principio, con tutto ciò che tale divieto comporta, perché questa è la forma esterna della sanzione. Questo non significa, tuttavia, che tale misura porti a negare al condannato in isolamento ogni contatto con operatori penitenziari, educatori, esperti dell’osservazione e del trattamento” o che gli vieti “ogni possibilità di lettura, di corrispondenza e di colloquio” o di lavoro, ma solo che, in via ordinaria, il soggetto non è posto in contatto con altri detenuti trattandosi di un’intensificazione della pena detentiva perpetua dell’ergastolo. L’isolamento diurno previsto dall’art. 72 c.p. non è dunque una modalità di vita o di disciplina carceraria, ma costituisce una risposta sanzionatoria per i delitti concorrenti con quello punito con l’ergastolo, afferendo alla genesi del rapporto esecutivo e non può ritenersi misura contraria al senso di umanità in contrasto con l’art. 27 Cost., considerato che il condannato sottoposto a tale misura può comunque fare vita in comune e che la funzione della pena non è solamente di emenda del condannato, ma anche di discussione e difesa sociale (funzione deterrente) (Corte costituzionale, decisione 115/1964) (Sez. 1, 4381/2020).

Applicazione e proroga del regime ex art. 41-bis

La conformità dell’art. 41-bis comma 2-bis alla Costituzione è garantita soltanto a condizione che ogni decreto applicativo o di proroga sia dotato di congrua e propria motivazione in ordine alla sussistenza o persistenza dei presupposti per la sottoposizione al regime detentivo differenziato, non consentendo l'ordinamento giuridico una perpetuazione automatica della compressione dei diritti del condannato in espiazione di pena, disposta al di fuori del vaglio giudiziale ancorato alla situazione personale concreta ed alla reale ed attuale pericolosità sociale nella sua forma specifica della capacità di mantenere collegamenti con le associazioni criminali di appartenenza (la Corte ha precisato ulteriormente in sentenza, secondo i richiami giurisprudenziali citati, che la proroga del decreto ministeriale postula l'accertamento della persistenza della capacità del condannato di tenere contatti con l'associazione di riferimento, non già l'effettivo mantenimento di tali relazioni, verifica da condurre anche utilizzando gli specifici parametri, ritenuti dal legislatore significativi e non necessariamente compresenti, del profilo criminale, della posizione rivestita dal soggetto in seno all'organizzazione, della perdurante operatività del sodalizio, della sopravvenienza di nuove incriminazioni non considerate in precedenza, degli esiti del trattamento intramurario e del tenore di vita dei familiari, in ordine ai quali è necessario che il provvedimento del Tribunale di sorveglianza espliciti la valutazione condotta sulla scorta di circostanze ed elementi concreti, significanti che il pericolo di contatti del condannato con l'esterno ed i gruppi criminali di appartenenza, quindi della ripresa dell'attività criminosa, non è cessato (Sez. 1, 11615/2021).

Anche a seguito delle modifiche introdotte all’art. 41-bis dalla L. 94/2009, il controllo di legalità del TDS sul decreto di proroga del regime di detenzione differenziato consiste nella verifica, sulla base delle circostanze di fatto indicate nel provvedimento, della capacità del soggetto di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata, della sua pericolosità sociale e del collegamento funzionale tra le prescrizioni imposte e la tutela delle esigenze di ordine e di sicurezza (Sez. 7, 19290/2016).

Ai fini della proroga del regime detentivo differenziato di cui all’art. 41-bis è necessario accertare che la capacità del condannato di tenere contatti con l’associazione criminale non sia venuta meno, accertamento che deve essere condotto anche alla stregua di una serie predeterminata di parametri quali il profilo criminale, la posizione rivestita dal soggetto in seno all’associazione, la perdurante operatività del sodalizio e la sopravvenienza di nuove incriminazioni non precedentemente valutate, elementi tutti che devono essere considerati mediante l’indicazione di indici fattuali sintomatici di attualità del pericolo di collegamenti con l’esterno, non neutralizzata dalla presenza di indici dimostrativi di un sopravvenuto venir meno di tale pericolo (Sez. 1, 2660/2019).

In materia dei provvedimenti di applicazione o proroga del regime detentivo di cui all’art. 41-bis, il controllo di legittimità affidato alla Corte di cassazione rimane circoscritto alla violazione di legge, cosicché, quanto alla motivazione, gli unici rilievi che possono trovare ingresso sono quelli che ne rappresentano la mancanza sotto il profilo dell’assenza dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità in relazione agli elementi sui quali deve cadere la verifica dei presupposti di legge, tanto da poter ritenere che la motivazione sia solo apparente, in quanto assolutamente inidonea - per evidenti carenze di coordinazione e per oscurità del riscorso - a rendere comprensibile l’iter logico seguito dal giudice di merito nel pervenire alla decisione (Sez. 1, 48494/2004). Solamente in tali ipotesi è, invero, configurabile una violazione di legge, poiché il provvedimento risulta privo del requisito della motivazione richiesto dall’art. 125 c.p.p. e dal comma 2-sexies dell’art. 41-bis. Restano, di contro, estranei all’ambito della verifica di legittimità consentita in materia non solo tutti quei rilievi che invocano il diverso apprezzamento degli elementi acquisiti riservato alle valutazioni di merito, ma anche il controllo della motivazione sotto il profilo della semplice contraddittorietà o illogicità (Sez. 7, 5848/2020).

Ai fini della proroga del regime di detenzione differenziata ai sensi dell’art. 41-bis non è necessario l’accertamento della permanenza dell’attività della cosca di appartenenza e la mancanza di sintomi rilevanti, effettivi e concreti, di una dissociazione del condannato dalla stessa, essendo sufficiente la potenzialità, attuale e concreta, di collegamenti con l’ambiente malavitoso che non potrebbe essere adeguatamente fronteggiata con il regime carcerario ordinario (Sez. 1, 6935/2020).

Aspetti di dettaglio del regime ex art. 41-bis

...Scambio di oggetti con altri detenuti

E' costituzionalmente illegittimo l'art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), nella parte in cui prevede l’adozione delle necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata «la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti» anziché «la assoluta impossibilità di comunicare e scambiare oggetti tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità» (Corte costituzionale, sentenza 97/2020).

…Accesso a quotidiani, libri e riviste

Nel complesso equilibrio legislativo e sistematico tra il necessario mantenimento del nucleo essenziale di diritti soggettivi di sicura rilevanza costituzionale - come quello a ricevere informazioni tramite la stampa - e la sottoposizione a misure di tipo inibitorio correlate alla ritenuta pericolosità del soggetto ristretto in carcere e sottoposto al particolare regime di cui all'art.41-bis risultano legittime le restrizioni all'acquisto di pubblicazioni riportanti la cronaca locale della zona di provenienza del detenuto: rientra nelle legittime finalità della misura inibitoria quella di impedire al soggetto posto in restrizione la conoscenza costante delle dinamiche criminali di quello specifico territorio, eventualmente verificando - anche in tal modo - l'esecuzione di ordini trasmessi all'esterno, anche in rapporto al possibile scambio di informazioni tra soggetti sottoposti al regime differenziato ed appartenenti al medesimo gruppo di socialità (La Corte, tuttavia, nella vicenda sottoposta a scrutinio, ha criticato la decisione assunta dal TDS sul presupposto che l’articolo in questione aveva ad oggetto l'analisi di una vicenda processuale che vedeva coinvolto - quale imputato - lo stesso ricorrente, il che indubbiamente rafforza la posizione soggettiva di costui a ricevere informazioni correlate alla dimensione processuale in corso mentre la compresenza di riferimenti ad altre vicende giudiziarie correlate, o a soggetti in dette vicende coinvolti, non è stato valutato di ostacolo alla consegna al detenuto dell'articolo di stampa in questione, dovendosi ritenere che l'avvenuta divulgazione abbia ad oggetto fatti oggetto di verifica giudiziaria e dunque non relativi, ad esempio, ad attività investigative coperte da segreto) (Sez. 1, 40594/2021).

La circolare del DAP n. 8845 del 16/11/2011 (e, in seguito, l’analoga circolare del 02/10/2017), emessa con riferimento ai detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis, dispone che qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) deve essere acquistato esclusivamente nell’ambito dell’istituto penitenziario tramite l’impresa di mantenimento ovvero direttamente in libreria tramite personale delegato dai direttori degli istituti penitenziari; parimenti, eventuali abbonamenti a giornali e riviste autorizzate dovranno essere sottoscritti direttamente dalla direzione o dall’impresa di mantenimento per la successiva distribuzione ai detenuti che ne abbiano fatto richiesta. Viene vietato anche l’ingresso di libri o riviste ricevuti dall’esterno dai familiari anche tramite pacco colloquio o postale. Viene fatto divieto di consegnare tale materiale all’esterno. La circolare ribadisce la necessità di evitare scambi di riviste o libri tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità. In linea generale, anche la potestà di normazione secondaria dell’autorità amministrativa si deve inserire nella prospettiva di un equilibrio tra i valori in campo. Peraltro la categoria dei detenuti soggetti al regime previsto dall’art. 41-bis, si segnala, per i presupposti stessi di tale sottoposizione (sempre ricorribile al magistrato), per aspetti di particolare pericolosità, trattandosi di persone inquisite o condannate per gravissimi reati legati alla criminalità organizzata. A tale considerazione di carattere generale, quasi preliminare, si deve aggiungere quella, derivante dalla pluriennale esperienza delle concrete vicende di tale specifico settore, che rileva come libri, giornali e stampa in genere siano molto spesso usati dai ristretti quali veicoli per comunicare illecitamente con l’esterno, così ricevendo o inviando messaggi in codice (ma anche in chiaro: come conoscere i fatti criminali riportati dai giornali specie del territorio di provenienza) che da un lato non interrompono (ma possono anche alimentare) le comunicazioni di tipo criminale, dall’altro costituiscono concreti pericoli per l’ordine interno degli istituti. Il ricorrente assume di essere stato abbonato alla rivista “Ristretti Orizzonti” ed ha allegato il provvedimento del magistrato di sorveglianza di sorveglianza nel quale si legge che in data 08/04/2017 era stato effettuato il pagamento, con bonifico bancario, della somma per la sottoscrizione dell’abbonamento. Spiega, inoltre, che l’abbonamento annuale non aveva potuto avere immediata esecuzione per essere egli stato trasferito in diverso istituto, dove appunto erano arrivate, con cadenza bimestrale, le riviste, trattenute sul rilievo che si trattava di corrispondenza. Sul punto va rammentato che la Corte costituzionale, con sentenza 122/2017 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e c), - in riferimento agli artt. 21, 33 e 34 Cost. - nella parte in cui, secondo il “diritto vivente”, consente all’amministrazione penitenziaria (anziché nei singoli casi all’AG, nelle forme e in base ai presupposti di cui all’art. 18-ter) di adottare, nei confronti dei detenuti in regime speciale, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri e riviste a stampa. Ciò perché l’adozione di tale misura non viola la libertà di manifestazione del pensiero (intesa nei suo significato passivo di diritto di essere informati) né il diritto allo studio, poiché non limita il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di propria scelta, ma incide soltanto sulle modalità attraverso le quali dette pubblicazioni possono essere acquisite, imponendo di servirsi esclusivamente dell’istituto penitenziario, onde evitare che il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno, di problematica rilevazione da parte del personale addetto al controllo. Né gli eventuali inconvenienti che potrebbero derivare dalla “burocratizzazione” del canale di acquisizione delle pubblicazioni compromettono in misura costituzionalmente apprezzabile i diritti in questione, trovando in ogni caso ragionevole giustificazione alla luce delle esigenze poste a base del regime speciale. Ovviamente, in ordine al diritto dei detenuti di conoscere liberamente le manifestazioni di pensiero che circolano nella società esterna, la sua tutela - tanto costituzionale (art. 21 Cost.) quanto legislativa (artt. 18, comma 6, e 18-ter, comma 1, lett. a) - è riferita alla facoltà del detenuto di scegliere con piena libertà i testi con i quali informarsi, senza che l’autorità amministrativa possa esercitare su essi una censura. (Sez. 1, 7449/2020).

L’art. 41 -bis, comma 2-quater, lett. a) e c), consente all’Amministrazione penitenziaria di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri, riviste e stampa in genere. Ciò in ragione della possibilità che libri e riviste costituiscano veicolo di comunicazioni illecite tra il detenuto e esponenti dell’organizzazione criminale di appartenenza che si trovino in libertà. Al medesimo fine, il DAP aveva adottato, il 6/11/2011, una prima circolare (identificata dal n. 8845/2011), recante un complesso di disposizioni in ordine all’ingresso, alla circolazione e alla detenzione della stampa nell’ambito delle sezioni degli istituti penitenziari destinate ad accogliere i detenuti in regime speciale, con cui era stato stabilito che qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) potesse essere acquistata dai detenuti in regime speciale solo nell’ambito dell’istituto, tramite l’impresa di mantenimento o personale delegato dalla direzione, con conseguente divieto di ricevere libri e riviste provenienti dall’esterno, e in particolare dai familiari, sia a mezzo posta sia tramite consegna in occasione dei colloqui, così come di trasmettere, all’esterno, tale materiale da parte del detenuto. 4Tali disposizioni erano state, successivamente, disapplicate con provvedimenti di alcuni magistrati di sorveglianza, secondo cui esse avrebbero leso i diritti di informazione e di studio dei detenuti, introducendo penalizzanti ostacoli all’acquisizione dei testi necessari per l’esercizio di tali diritti, incidendo, altresì, sulla libertà di corrispondenza, sancita dall’art. 15 Cost. I provvedimenti di disapplicazione della circolare ministeriale erano stati, tuttavia, annullati dalla Corte di cassazione, secondo cui l’Amministrazione penitenziaria aveva regolarmente esercitato il «potere regolamentare» per la concreta applicazione delle restrizioni stabilite dall’ordinamento penitenziario, senza rendere inutilmente più gravoso lo speciale trattamento e senza un’inutile compressione dei diritti costituzionalmente garantiti anche al detenuto. Inoltre, secondo la giurisprudenza di legittimità, la ricezione e lo scambio della stampa non avrebbero potuto essere ricondotti al concetto di «corrispondenza» in senso stretto (Sez. 1, 19204/2015), essendo quest’ultima limitata alle forme di comunicazione del proprio pensiero a persone determinate tramite scritti, sostitutiva della comunicazione verbale e strumentale al mantenimento delle relazioni interpersonali e affettive e non comprensiva, pertanto, della ricezione dall’esterno, tramite servizio postale, di pubblicazioni - quali libri e riviste - che riportano il pensiero di terzi. E proprio per le limitazioni nella ricezione della stampa, dalla sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis derivava la sottoposizione a una disciplina speciale, derogatoria di quella dettata dall’art. 18-ter, giustificata dal più elevato livello di pericolosità del detenuto (Sez. 1, 1774/2014). Va, peraltro, osservato che la stessa giurisprudenza di legittimità aveva anche osservato, condivisibilmente, come la mancata consegna, al detenuto in regime speciale, di pacchi postali contenenti libri o riviste provenienti dall’esterno non potesse assimilarsi al «trattenimento» della stampa di cui all’art. 18-ter, comma 5, demandato, da tale disposizione, all’AG. Ciò in quanto, diversamente dal trattenimento, la mancata consegna non sottraeva gli stampati alla disponibilità tanto del mittente quanto del destinatario, ma aveva il solo effetto di non consentire l’ingresso dei libri e delle riviste nell’istituto, ferma restando la facoltà del mittente di pretenderne in qualunque momento la restituzione; sicché, in definitiva, la mancata consegna configurava un semplice “respingimento” (Sez. 1, 50158/2014), analogo a quello che l’Amministrazione penitenziaria poteva disporre nei casi in cui un pacco postale o gli oggetti in esso contenuti non fossero conformi alla normativa di ordinamento penitenziario o alle prescrizioni del regolamento interno di istituto. A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale prima ricordato, che aveva riconosciuto la correttezza dell’azione amministrativa, il DAP aveva emanato, in data 11/2/2014, una nuova circolare, con la quale aveva ripristinato le disposizioni della circolare oggetto dei provvedimenti di disapplicazione. La relativa disciplina è stata, infine, ritenuta compatibile con i principi della Carta fondamentale da parte della Corte costituzionale, la quale, con sentenza 122/2017, ha ritenuto che le disposizioni in questione non violassero la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), intesa nel suo significato passivo di diritto di essere informati e del diritto allo studio (artt. 33 e 34 Cost.), sottolineando come il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta non fosse limitato da tale disciplina, essendo agli stessi semplicemente imposto di servirsi, per la relativa acquisizione, dell’istituto penitenziario, al fine di evitare che il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno. E parimenti infondata è stata ritenuta la censura di violazione della libertà di corrispondenza (art. 15 Cost.), non potendo la trasmissione di libri e riviste rientrare nella nozione di «corrispondenza» in quanto inidonei a fungere da veicolo di comunicazione di un pensiero proprio del mittente, indirizzato in modo specifico ed esclusivo al destinatario, posto che, in tal modo opinando, si sarebbe dovuto riconoscere alla persona detenuta, in nome della libertà di corrispondenza, il diritto di scambiare con l’esterno, senza alcuna restrizione quali-quantitativa - fin tanto che non intervenisse uno specifico provvedimento limitativo dell’AG - non soltanto libri e riviste, ma qualsiasi tipo di oggetto (Sez. 1, 5211/2020).

...Uso di lettori di CD

Prima di riconoscere il diritto del detenuto ad utilizzare CD ad uso ricreativo ed il lettore necessario per ascoltarli, è necessario verificare se tale impiego, pur in assoluto non precluso dalla normativa vigente, possa nondimeno comportare inesigibili adempimenti da parte dell'amministrazione penitenziaria in relazione agli indispensabili interventi su dispostivi e supporti, tali da rendere ragionevole la scelta, operata dalla direzione di istituto, di non autorizzarne l'ingresso nei reparti ove vige il regime penitenziario differenziato. Scelta che, implicando un apprezzamento della possibilità di soddisfare le esigenze ricreative dei detenuti alla luce delle risorse disponibili, rientrerebbe in un ambito di legittimo esercizio del potere di organizzazione della vita degli istituti penitenziari (Nel caso di specie, il tribunale di sorveglianza aveva confermato la decisione del magistrato di sorveglianza, che aveva accolto il reclamo giurisdizionale proposto dal detenuto in regime penitenziario differenziato di cui all'art. 41-bis il quale aveva lamentato di non essere stato autorizzato dall’amministrazione ad acquistare e detenere, all'interno della camera di pernottamento, un lettore digitale di compact disk musicali in quanto il divieto di utilizzare i CD, incidendo sulla possibilità del detenuto di ascoltare musica, poteva pregiudicare il suo diritto a un trattamento rieducativo adeguato. D'altra parte, sosteneva il tribunale, il divieto in esame non è né giustificato da ineludibili esigenze di sicurezza, imposte dal regime speciale di detenzione se esercitato con le cautele finalizzate a scongiurare la presenza di contenuti impropri, né vietato dalle disposizioni vigenti che disciplinano il regime di detenzione previsto dall'art. 41-bis (Sez. 1, 8411/2022).

…Attività trattamentali concernenti i detenuti sottoposti al regime previsto dall’art. 41-bis

Già con la sentenza 376/1997, la Corte costituzionale ha in particolare chiarito che l’applicazione del regime ex art. 41-bis non comporta, né può comportare la soppressione o anche la sola sospensione delle attività di osservazione e trattamento individualizzato come previste dall’art. 13, né in sé impedisce la partecipazione alle attività di diverso genere rivolte alla realizzazione della personalità secondo quanto contemplato dall’art. 27, attività che semmai dovranno essere organizzate, per i soggetti sottoposti al particolare regime in questione, con concrete modalità tali da impedire tutti quei contatti e collegamenti cui il provvedimento ministeriale attribuisce rilievo. Finalità contemplate dagli artt. 13 e 27 allo stesso modo sia per i detenuti in esecuzione della pena o in custodia cautelare, sia per gli internati in quanto sottoposti alla misura di sicurezza detentiva quale la casa di lavoro. Del resto, alla base dell’applicazione di tale misura e dello speciale regime previsto dall’art. 41-bis, vi è la medesima valutazione della concreta pericolosità attuale, con la necessità dell’aggiunta di più stringenti limitazioni in rapporto al maggior allarme sociale nel caso dell’adozione del regime speciale, parimenti derivante da un provvedimento a tempo in ogni momento revocabile. Le vigenti previsioni, quanto ai presupposti, all’iter del procedimento e alle restrizioni di cui al decreto ministeriale, hanno superato il vaglio di costituzionalità alle quali sono state sottoposte in relazione a molteplici aspetti. Tanto rilevato, appare evidente che non ha alcun rilievo evocare distinzioni funzionali rispetto all’esecuzione della pena o della custodia cautelare, una volta che comunque lo speciale regime detentivo nei confronti dell’internato non rimane irragionevolmente imposto e in contrasto con i citati principi di cui all’art. 27 Cost., da osservare in presenza di ogni forma di trattamento detentivo. Quanto poi alla compatibilità del medesimo regime rispetto alle finalità perseguite dalle disposizioni in materia di misura di sicurezza sotto l’aspetto risocializzante, va ribadito che non rimane escluso, come affermato dalla sopra citata sentenza della Corte costituzionale, che tale misura sia eseguita, in apposito stabilimento, con adozione di un regime educativo e di lavoro però più adeguato alla persona di cui trattasi per la speciale pericolosità che manifesta. Tanto in primis con riguardo ai maggiori limiti relativi alla sfera comunicativa e dei movimenti nell’ambito degli spazi di detenzione, limiti che in sé, però, non precludono né interventi educativi, né l’avviamento al lavoro; ma comporteranno un’individualizzazione delle modalità del trattamento secondo possibili spazi di contemperamento. E ciò con quell’approccio costituzionalmente orientato che la giurisprudenza di legittimità continua ad affermare in materia di tutela di diritti anche in relazione alla posizione di chi è sottoposto al citato regime speciale. Per quanto riguarda poi in particolare le licenze previste dall’art. 53, va rilevato che si tratta in ogni caso di provvedimenti discrezionali che non costituiscono presupposto imprescindibile per valutare gli effetti risocializzanti. Effetti il cui concreto e apprezzabile verificarsi, con particolare riguardo ai presupposti di pericolosità che viene in evidenza, non possono che passare dalla riscontrabile interruzione di quei collegamenti criminali prima ritenuti attuali. Una circostanza sopravvenuta che quindi sarà preliminarmente idonea a giustificare già il venir meno, tramite la revoca, del provvedimento ministeriale. Sicché, in ragione di tutto quanto esposto, va escluso ogni possibile profilo di fondatezza e rilevanza delle questioni di costituzionalità poste in questa sede in cui deve verificarsi la legittimità del provvedimento che applica all’internato il regime di cui all’art. 41-bis, secondo modalità attuative che a loro volta, in considerazione dell’evolversi dei presupposti che giustificano, saranno in seguito fatte oggetto di concrete determinazioni sottoponibili ad autonomo vaglio giurisdizionale quanto alla stessa compatibilità con i precetti costituzionali (Sez. 1, 48297/2018).

...Colloqui

Il ricorso alle forme di comunicazione audiovisiva controllabili a distanza è funzionale a rendere possibile l'esercizio del diritto ai colloqui con i familiari nei casi in cui esso non potrebbe essere altrimenti garantito, dovendo, dunque, la videoconferenza essere circoscritta alle situazioni di impossibilità o, comunque, di gravissima difficoltà ad effettuare il colloquio in presenza (la Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla Avvocatura dello Stato perché l’ordinanza del TDS si pone in tale solco, limitando la possibilità di utilizzo di tale strumento al caso "di impossibilità dimostrata e di gravi difficoltà" a svolgere il colloquio in presenza) (Sez. 1, 29132/2022)

L’ordinanza del magistrato di sorveglianza, confermata da quella impugnata, faceva riferimento ad una pronuncia di legittimità; in essa si affermava che la sottoposizione al regime carcerario differenziato di un detenuto non esclude, in via di principio, che lo stesso possa essere autorizzato ad avere colloqui visivi con altro detenuto sottoposto al regime dell’art. 41-bis, legato a questo da rapporti genitoriali o familiari, mediante forme di comunicazione controllabili a distanza (come la videoconferenza), tali da consentire la coltivazione della relazione parentale e, allo stesso tempo, da impedire il compimento di comportamenti fra presenti, idonei a generare pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica (Sez. 1, 7654/2015). In quella pronuncia si richiamava il diritto soggettivo del detenuto alla vita familiare ed al mantenimento mediante colloqui di relazioni dirette e di presenza con uno dei suoi più stretti congiunti, che gli era precluso anche in ragione dell’applicazione nei riguardi di tale congiunto del regime differenziato di cui all’art. 41-bis; questo consente l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna che si rivelino necessarie per prevenire contatti con l’organizzazione di appartenenza, nonché eventuali contrasti con elementi di gruppi contrapposti e l’interazione con detenuti o internati della stessa compagine o di altre a questa alleate. Si osservava che l’applicazione di detto regime “pregiudica anche la situazione detentiva del genitore in un settore della vita penitenziaria, cui l’ordinamento stesso assegna rilevanza quale strumento del percorso trattamentale, finalizzato al reinserimento sociale della persona, secondo quanto è deducibile da più fonti normative”. Le stesse venivano individuate nell’art. 28, che stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare, o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”, norma di cui costituiscono attuazione le singole disposizioni dell’ordinamento penitenziario: ad esempio l’art. 18, comma 3, che espressamente assegna “particolare favore ... ai colloqui con i familiari”, intesi quali occasioni relazionali personali e dirette, perché strumento per il mantenimento dei contatti con quanti sono liberi ed impedire effetti negativi sulla personalità del detenuto, determinati dall’isolamento. Per tali ragioni, ai sensi dell’art. 1, comma 6, e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’ art. 61, comma 1, lett. a), Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, Reg., prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. La pronuncia osservava che “la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis, sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore”. Un’altra norma di riferimento era indicata nell’art. 8 CEDU, che prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare ...”, sicché eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. Veniva evocata la giurisprudenza della Corte EDU, che ha stabilito, da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno, dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile. La pronuncia condivideva “il riconoscimento nella materia specifica all’amministrazione penitenziaria di poteri discrezionali, il cui uso è stato esercitato in funzione della tutela dell’ordine e della sicurezza, sia interna agli istituti, che nei riguardi della generalità dei cittadini sotto il profilo della prevenzione di ulteriori reati”; osservava, tuttavia, che “la forzata separazione di un padre dal figlio per un periodo di tempo così prolungato incide negativamente sul mantenimento della loro relazione affettiva, sulla vita familiare e sul rispettivo percorso trattamentale, integrando condizioni restrittive particolarmente penose ed avvilenti e precludendo in assoluto l’esercizio di un diritto soggettivo ai colloqui”; poneva, quindi, “il problema di come conciliare queste opposte esigenze in modo da non dare attuazione soltanto ad una di esse a scapito dell’altra”. Secondo la Corte, in quel procedimento “il Magistrato di Sorveglianza ha offerto una lettura parziale della normativa di riferimento, ha attribuito rilievo essenziale alle esigenze di contenimento della pericolosità qualificata del figlio del ricorrente, senza addentrarsi in una considerazione più ampia e di ordine sistematico delle disposizioni di legge diverse dall’art. 41 bis, ed egualmente applicabili al caso, ad esempio dell’art. 28 e delle finalità perseguite mediante l’istituto dei colloqui visivi quale strumento per la coltivazione della relazione genitoriale e, suo tramite, per l’espressione della personalità del detenuto. Non si è dunque prospettata la possibilità di una soluzione che contemperi nel caso specifico, al di fuori di qualunque generalizzazione e per ragioni umanitarie che tengano conto delle privazioni subite dal detenuto in via ininterrotta per quasi due decenni, le esigenze di ordine interno all’istituto e di ordine pubblico con il diritto soggettivo del detenuto ai colloqui mediante un sistema tecnico che garantisca la visione dell’immagine senza comportare spostamenti e contatti fisici diretti”. La Corte aveva cura di precisare che la praticabilità di tale soluzione avrebbe dovuto essere verificata in sede di merito, ma la affermava a livello di principio, riscontrando il vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente; evocava il ricorso alla videoconferenza, “ossia a forme di comunicazione controllabili a distanza e tali da impedire il compimento di comportamenti tra presenti, possibile fonte di pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica, in quanto correlati all’attività di organizzazioni criminose di stampo mafioso ancora attive ed operanti nelle aree geografiche di provenienza dei detenuti coinvolti.” Il magistrato di sorveglianza avrebbe dovuto condurre la verifica demandata, rapportandola ai principi esposti (Sez. 1, 16557/2019).

Ai sensi dell’art. 1, comma 6 e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’art. 61, comma 1, lett. a) Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, stesso DPR, prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. A ciò si aggiunge che anche la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore. Del pari anche l’art. 8 CEDU prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare...”, sicchè eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. In particolare, la Corte EDU ha avuto modo di occuparsi più volte della compatibilità delle disposizioni degli ordinamenti nazionali, che, nel disciplinare le modalità di esecuzione della pena detentiva, di per sé comportante per sua natura limitazioni alla vita individuale e familiare per il distacco forzato che realizza, prescrivono in vario modo l’isolamento dei detenuti ed inibiscono colloqui con i familiari, con il principio che vieta trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU; ha quindi stabilito da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno (Corte EDU, Sez. 2, Messina c/ Italia, 8/6/1999), dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile (Corte EDU, Sez. 2, Van der Ven c. Paesi Bassi, 4/2/2003) (Sez. 1, 7654/2015).

La funzione del regime differenziato, di cui all’art. 41-bis è quella di contenere la pericolosità dell’imputato, o del condannato, in grado di proiettarsi, nonostante la carcerazione in atto, all’esterno dell’istituto, mediante l’adozione di prescrizioni volte a rescindere i collegamenti tra detenuti appartenenti ad organizzazioni criminali, e tra di essi e i componenti delle associazioni che si trovano in libertà. Tale risultato è perseguito mediante cospicue deroghe alla disciplina di ordinamento penitenziario, in sé aliena da una visione puramente segregante e normalmente diretta al reinserimento sociale, nella parte suscettibile di favorire questo tipo di contatti (Corte costituzionale, decisioni 417/2004, 376/1997, 192/1998). Stante l’obiettivo, le restrizioni costitutive del regime detentivo speciale investono necessariamente - come espressamente precisato, a livello normativo, a far tempo dalla L. 279/2002, ma come la giurisprudenza di legittimità anche in precedenza consentiva - la materia dei colloqui, che «rappresentano il veicolo più diretto e immediato di comunicazione del detenuto con l’esterno» (Corte costituzionale, sentenza 143/2013), e la cui limitazione appare dunque ragionevolmente correlabile alle esigenze di ordine e sicurezza cui fa riferimento il citato art. 41-bis. In questo contesto, specifiche previsioni, contenute nel suo comma 2- quater, lettera b), danno sostanza al regime limitativo. La regolamentazione da ultimo approntata (per effetto delle modificazioni introdotte con L. 94/2009) riduce il numero dei colloqui a uno al mese; ne prevede lo svolgimento «ad intervalli di tempo regolari» e in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti; vieta i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi, salvo casi eccezionali determinati volta per volta dal direttore dell’istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, dall’autorità giudiziaria competente. La disposizione prevede, altresì, che i colloqui vengano sottoposti a controllo auditivo e a videoregistrazione, previa motivata autorizzazione della medesima autorità giudiziaria; solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, dopo i primi sei mesi di applicazione, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi, della durata massima di dieci minuti e sottoposto a registrazione. Nessuna limitazione, tuttavia, si applica, dopo la sentenza 143/2013, ai colloqui con i difensori. 5. La disciplina derogatoria non si limita, dunque, a proposito dei colloqui con i familiari, a restringerne il numero, rispetto a quello ordinariamente consentito (essendo ammesso un solo colloquio mensile, in luogo dei quattro che l’art. 37 Reg. concede ai detenuti per reati ex art. 4-bis, comma 1), ma detta speciali modalità di fruizione, stabilendo, subito dopo, che la loro consecuzione rifletta intervalli temporali regolari, ossia tra loro omogenei e uniformi. La regolarità di frequenza dei colloqui, imposta dalla disposizione di legge, è in quest’ultima strettamente correlata alla cadenza loro impressa, che è mensile. Essendo il detenuto, assoggettato a trattamento differenziato, autorizzato ad effettuare un colloquio ogni mese, la separazione tra un colloquio e l’altro, secondo una piana interpretazione testuale, non può non riflettere una durata corrispondente. Soltanto in questa maniera è assicurata la serialità espressa dalla convergenza dei due precetti nel medesimo sintagma normativo. L’abbinamento dei colloqui tra il fine mese e l’inizio del successivo, quand’anche ripetuto nel tempo secondo omologhe scansioni, oltre a contraddire il comando legale, che impone uno stacco temporale effettivo tra i colloqui stessi, si ispirerebbe a un canone eccentrico rispetto a un modello incentrato sulla regolarità mensile di fruizione dell’unico colloquio concesso. L’implausibilità dell’interpretazione sostenuta dal ricorrente si coglie, con decisiva evidenza, a livello teleologico e sistematico. La disciplina di cui all’art. 41-bis è informata al criterio di proporzionalità, in virtù del quale sono ammesse le sole restrizioni al regime ordinario di detenzione, che siano indispensabili agli scopi di prevenzione cui la disciplina stessa è finalizzata. La ratio, cui specificamente si ispira la previsione di colloqui regolarmente intervallati, capace al contempo di giustificarla sul piano dei principi, è quella di garantire, come giustamente rileva l’ordinanza impugnata, che essi siano opportunamente distanziati, in modo da diluire equamente nel tempo il volume dei flussi informativi reciprocamente intercorrenti tra il detenuto e i suoi congiunti, intrinsecamente pericolosi nonostante le ulteriori cautele dalla normativa adottate, così contenendoli senza del tutto compromettere le relazioni familiari del soggetto ristretto. Stante il rischio immanente che queste ultime siano strumentalizzate al fine di trasmettere all’esterno messaggi o istruzioni criminose, la prescrizione, come intesa in questa sede, risponde all’esigenza di impedirne il pronto riscontro, depotenziandone l’efficacia. Più in generale, la predeterminazione normativa di una data frequenza dei colloqui, non alterabile da parte del detenuto assoggettato al regime penitenziario differenziato, priva quest’ultimo della possibilità di governare, a sua discrezione, le modalità temporali di quella relazione, indebolendone - anche sotto questo aspetto - la capacità e il prestigio criminale, su cui normalmente si fonda la qualificata pericolosità sociale di questa categoria di detenuti. Trattasi, dunque, di restrizione congrua e utile alla luce dello scopo cui tende la misura restrittiva, che non si pone così neppure in contrasto con la giurisprudenza costituzionale (v., da ultimo, sentenza 186/2018) volta a sanzionare, in seno al sistema delineato dall’art. 41-bis, le sole limitazioni dotate di valenza meramente e ulteriormente afflittiva (Sez. 1, 5620/2020).

In tema di regime penitenziario differenziato ai sensi dell'art. 41-bis, è legittima la disposizione dell'Amministrazione penitenziaria che, in attuazione dell'art. 16 della circolare del DAP del 2 ottobre 2017, preveda che il colloquio visivo avvenga senza vetro divisorio solo nel caso in cui esso abbia luogo con il figlio o i nipoti in linea retta minori di 12 anni oppure, con le cautele ordinarie, nel caso di parenti e affini entro il terzo grado, in quanto detta regolamentazione costituisce un ragionevole esercizio del potere amministrativo in funzione del contemperamento tra le esigenze di mantenimento delle relazioni familiari e quelle di particolare controllo richieste dal regime penitenziario (Sez. 1,  28260/2021)

...Corrispondenza

L’art. 41 -bis, comma 2-quater, lett. a) e c), nel testo novellato dalla L. 94/2009 (recante “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica"), consente all’Amministrazione penitenziaria di adottare, tra le misure di elevata sicurezza interna ed esterna volte a prevenire contatti del detenuto in regime differenziato con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento, il divieto di ricevere dall’esterno e di spedire all’esterno libri, riviste e stampa in genere. Ciò in ragione della possibilità che libri e riviste costituiscano veicolo di comunicazioni illecite tra il detenuto e esponenti dell’organizzazione criminale di appartenenza che si trovino in libertà. Al medesimo fine, il DAP aveva adottato, il 6/11/2011, una prima circolare (identificata dal n. 8845/2011), recante un complesso di disposizioni in ordine all’ingresso, alla circolazione e alla detenzione della stampa nell’ambito delle sezioni degli istituti penitenziari destinate ad accogliere i detenuti in regime speciale, con cui era stato stabilito che qualsiasi tipo di stampa autorizzata (quotidiani, riviste, libri) potesse essere acquistata dai detenuti in regime speciale solo nell’ambito dell’istituto, tramite l’impresa di mantenimento o personale delegato dalla direzione, con conseguente divieto di ricevere libri e riviste provenienti dall’esterno, e in particolare dai familiari, sia a mezzo posta sia tramite consegna in occasione dei colloqui, così come di trasmettere, all’esterno, tale materiale da parte del detenuto. Tali disposizioni erano state, successivamente, disapplicate con provvedimenti di alcuni magistrati di sorveglianza, secondo cui esse avrebbero leso i diritti di informazione e di studio dei detenuti, introducendo penalizzanti ostacoli all’acquisizione dei testi necessari per l’esercizio di tali diritti, incidendo, altresì, sulla libertà di corrispondenza, sancita dall’art. 15 Cost. I provvedimenti di disapplicazione della circolare ministeriale erano stati, tuttavia, annullati dalla Corte di cassazione, secondo cui l’Amministrazione penitenziaria aveva regolarmente esercitato il «potere regolamentare» per la concreta applicazione delle restrizioni stabilite dall’ordinamento penitenziario, senza rendere inutilmente più gravoso lo speciale trattamento e senza un’inutile compressione dei diritti costituzionalmente garantiti anche al detenuto (cfr. tra le altre, Sez. 1, 1774/2015). Inoltre, secondo la giurisprudenza di legittimità, la ricezione e lo scambio della stampa non avrebbero potuto essere ricondotti al concetto di «corrispondenza» in senso stretto (Sez. 1, 19204/2015), essendo quest’ultima limitata alle forme di comunicazione del proprio pensiero a persone determinate tramite scritti, sostitutiva della comunicazione verbale e strumentale al mantenimento delle relazioni interpersonali e affettive e non comprensiva, pertanto, della ricezione dall’esterno, tramite servizio postale, di pubblicazioni - quali libri e riviste - che riportano il pensiero di terzi. E proprio per le limitazioni nella ricezione della stampa, dalla sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis derivava la sottoposizione a una disciplina speciale, derogatoria di quella dettata dall’art. 18-ter, giustificata dal più elevato livello di pericolosità del detenuto (Sez. 1, 1774/2015). Va, peraltro, osservato che la stessa giurisprudenza di legittimità aveva anche osservato, condivisibilmente, come la mancata consegna, al detenuto in regime speciale, di pacchi postali contenenti libri o riviste provenienti dall’esterno non potesse assimilarsi al «trattenimento» della stampa di cui all’art. 18-ter, comma 5, demandato, da tale disposizione, all’AG. Ciò in quanto, diversamente dal trattenimento, la mancata consegna non sottraeva gli stampati alla disponibilità tanto del mittente quanto del destinatario, ma aveva il solo effetto di non consentire l’ingresso dei libri e delle riviste nell’istituto, ferma restando la facoltà del mittente di pretenderne in qualunque momento la restituzione; sicché, in definitiva, la mancata consegna configurava un semplice “respingimento” (Sez. 1, 50158/2014), analogo a quello che l’Amministrazione penitenziaria poteva disporre nei casi in cui un pacco postale o gli oggetti in esso contenuti non fossero conformi alla normativa di ordinamento penitenziario o alle prescrizioni del regolamento interno di istituto. 4.2. A fronte dell’indirizzo giurisprudenziale prima ricordato, che aveva riconosciuto la correttezza dell’azione amministrativa, il DAP aveva emanato, in data 11/2/2014, una nuova circolare, con la quale aveva ripristinato le disposizioni della circolare oggetto dei provvedimenti di disapplicazione. La relativa disciplina è stata, infine, ritenuta compatibile con i principi della Carta fondamentale da parte della Corte costituzionale, la quale, con sentenza 122/2017, ha ritenuto che le disposizioni in questione non violassero la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.), intesa nel suo significato passivo di diritto di essere informati e del diritto allo studio (artt. 33 e 34 Cost.), sottolineando come il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di loro scelta non fosse limitato da tale disciplina, essendo agli stessi semplicemente imposto di servirsi, per la relativa acquisizione, dell’istituto penitenziario, al fine di evitare che il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l’esterno. E parimenti infondata è stata ritenuta la censura di violazione della libertà di corrispondenza (art. 15 Cost.), non potendo la trasmissione di libri e riviste rientrare nella nozione di «corrispondenza» in quanto inidonei a fungere da veicolo di comunicazione di un pensiero proprio del mittente, indirizzato in modo specifico ed esclusivo al destinatario, posto che, in tal modo opinando, si sarebbe dovuto riconoscere alla persona detenuta, in nome della libertà di corrispondenza, il diritto di scambiare con l’esterno, senza alcuna restrizione quali-quantitativa - fin tanto che non intervenisse uno specifico provvedimento limitativo dell’AG - non soltanto libri e riviste, ma qualsiasi tipo di oggetto (Sez. 1, 5211/2020).

È consolidato l’orientamento secondo il quale il divieto all’utilizzo di determinati strumenti di comunicazione (nella specie contatti di tipo informatico) non costituisce limitazione alla libertà di corrispondenza (Sez. 7, 18394/2019).

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 18-ter, sollevata per contrasto con gli articoli 3, 15, 24, 112 e 117 della Costituzione (quest’ultimo richiamato in relazione agli articoli 8 e 13 CEDU), nella parte in cui dispone che il detenuto - e quindi anche il suo difensore - non può conoscere le ragioni per le quali la corrispondenza in arrivo gli è stata trattenuta, né prenderne visione, atteso che l’accesso ad essa vanificherebbe la decisione del giudice sul gravame (Sez. 1, 47748/2011).

La legislazione vigente, ed in particolare gli artt. 18-ter e 41-bis, non possono essere interpretati nel senso di consentire che diritti primari di rango costituzionale, attinenti alla sfera privata e personalissima dell’individuo, finiscano per essere - sia pure per limitatissime categorie di soggetti detenuti appartenenti ad associazioni mafiose o terroristico/sovversive - sostanzialmente elisi o eliminati in via preventiva, generale ed astratta, in ragione della mera appartenenza ad una determinata tipologia di indagati o condannati ed attraverso provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria sui quali l’autorità giudiziaria eserciti un controllo di legittimità che, privo di motivazione concreta e specifica, si riduce a vuoto simulacro di richiami normativi. Si violerebbe senza dubbio il criterio ermeneutico di rango primario che impone al giudice, anzitutto, la ricerca di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme che applica nelle fattispecie a lui sottoposte, poiché una lettura della disposizione di cui all’art. 41-bis quale quella adottata nel provvedimento impugnato ne determinerebbe la potenziale esposizione a dubbi di legittimità costituzionale, in relazione alla violazione dell’art. 15 della Costituzione, ma anche dell’art. 111 Cost. In particolare, l’art. 41-bis, comma 2, stabilisce che “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”, il Ministro della giustizia possa disporre, nei confronti di detenuti o internati per gravi reati in materia di terrorismo o di criminalità organizzata, la sospensione, in tutto o in parte, delle regole del trattamento che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, al fine di impedire i collegamenti con “un’associazione criminale, terroristica o eversiva”. Quanto alle comunicazioni con l’esterno ed alla possibilità di tenere corrispondenza epistolare, la lett. e) del comma 2-quater prevede “la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia”. Tale disposizione, peraltro, nulla stabilisce in relazione alla disciplina del trattenimento, ovvero dell’operazione successiva all’esercizio del controllo sui contenuti della corrispondenza, consistente nel mancato inoltro della stessa al destinatario; trattenimento al quale, conseguentemente, si applica la disciplina generale dettata dagli artt. 18-ter e 38 Reg. (Sez. 1, 48365/2012, secondo cui la libertà di corrispondenza dei detenuti in regime speciale può essere limitata, in virtù di quanto stabilito dall’art. 15 della Costituzione, solo con un provvedimento dell’autorità giudiziaria, specificamente motivato in ordine alla sussistenza dei presupposti indicati dai commi da 1 a 4 dell’art. 18-ter, come modificato dalla L. 95/2004). L’art. 18-ter, dedicato alle “limitazioni e controlli della corrispondenza”, stabilisce, al comma 5, che il magistrato di sorveglianza (competente nei confronti dei condannati, degli internati e degli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado) qualora ritenga che la corrispondenza o la stampa non debba essere consegnata o inoltrata al destinatario, dispone che la stessa sia trattenuta; e che, in tale evenienza, il detenuto e l’internato debbano essere immediatamente informati. Apparentemente la norma non individua espressamente i casi in cui può essere disposto il trattenimento, ma, stante il suo stretto collegamento funzionale con il visto di censura, sembra evidente che detto trattenimento possa essere disposto qualora, dall’esame dei contenuti della corrispondenza, l’autorità giudiziaria ritenga che sussista una situazione di pericolo concreto per quelle esigenze di ordine e di sicurezza pubblica che costituiscono i presupposti per l’adozione del visto di censura. Tale verifica, demandata in sede di necessario controllo giurisdizionale, al magistrato di sorveglianza, non può prescindere da un obbligo di motivazione, sia pur sintetico e calibrato sulle eventuali esigenze investigative e di segretezza per possibili indagini ulteriori in corso sui contenuti della corrispondenza. Invero, come non ha mancato di sottolineare un condivisibile orientamento della giurisprudenza di legittimità in casi analoghi di detenuti sottoposti a regime penitenziario ai sensi del citato art. 41-bis, là dove il giudice di merito ometta di riferire e dar conto dei presupposti di fatto del caso concreto, non è dato controllare la correttezza del percorso logico-giuridico della valutazione contenuta nel provvedimento. L’obbligo di motivazione, peraltro, come già accennato, può essere soddisfatto anche garantendo la doverosa esigenza di riservatezza della materia (spesso legata ad indagini in corso), attraverso un’indicazione per quanto possibile sintetica delle doglianze difensive e delle verifiche sui punti in questione compiuti dal giudice di sorveglianza. Non si ignora che una differente opzione interpretativa ha dettato sul tema un percorso interpretativo che sembra diverso ed ammette quasi la possibilità di una motivazione dell’autorità giudiziaria sul trattenimento della corrispondenza priva della indicazione di ragioni specifiche legate al caso concreto (cfr. Sez. 1, 38632/2010). Tuttavia, la fattispecie che, dalla lettura della motivazione, si comprende essere stata decisa dalla Corte di legittimità - una ipotesi in cui esigenze investigative presenti e rilevate impedivano di rivelare specificamente nel provvedimento giurisdizionale le frasi di contenuto criptico od ambiguo - non consente di ritenerla paradigmatica rispetto all’ipotesi sottoposta al Collegio nel presente procedimento. Anzi, anche questa pronuncia non smentisce la necessità di una motivazione effettiva, quale che sia e magari contemperi i diversi beni costituzionali in gioco, attraverso la giusta proporzione tra ragioni ostensibili e rilievi non consentiti poiché confliggenti con esigenze investigative Anche più recentemente, quando la Corte di cassazione ha ritenuto legittimo il diniego di inoltro della corrispondenza lo ha fatto, in relazione a detenuti sottoposti al regime speciale di cui all’art. 41-bis, valutando elementi concreti posti in risalto nella stessa motivazione del provvedimento della magistratura di sorveglianza. Così, Sez. 1, 51187/2018 ha chiarito che, in tema di controllo sulla corrispondenza del detenuto sottoposto a regime di detenzione speciale, la decisione di non inoltro può essere legittimamente motivata sulla base di elementi concreti che facciano ragionevolmente dubitare che il contenuto effettivo della missiva sia quello che appare dalla semplice lettura del testo (Sez. 5, 32452/2019).

L’art. 41-bis, comma 2 stabilisce che “quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica”, il Ministro della giustizia possa disporre, nei confronti di detenuti o internati per gravi reati in materia di terrorismo o di criminalità organizzata, la sospensione, in tutto o in parte, delle regole del trattamento che possano porsi in contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, al fine di impedire i collegamenti con “un’associazione criminale, terroristica o eversiva”. Sul versante delle comunicazioni con l’esterno e segnatamente della corrispondenza epistolare, la lett. e) del comma 2-quater prevede “la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza, salvo quella con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia”. Tale disposizione, peraltro, nulla stabilisce in relazione alla disciplina del trattenimento, ovvero dell’operazione successiva all’esercizio del controllo sui contenuti della corrispondenza, consistente nel mancato inoltro della stessa al destinatario; trattenimento al quale, conseguentemente, si applica la disciplina generale dettata dagli artt. 18-ter e 38 Reg. (Sez. 1, 48365/2012, secondo cui la libertà di corrispondenza dei detenuti in regime speciale può essere limitata, in virtù di quanto stabilito dall’art. 15 della Costituzione, solo con un provvedimento dell’autorità giudiziaria, specificamente motivato in relazione alla sussistenza dei presupposti indicati dai commi da 1 a 4 dell’art. 18-ter, come modificato dalla L. 95/2004). L’art. 18-ter, rubricato “limitazioni e controlli della corrispondenza”, stabilisce, al comma 5, che il magistrato di sorveglianza (competente nei confronti dei condannati, degli internati e degli imputati dopo la pronuncia della sentenza di primo grado), qualora ritenga che la corrispondenza o la stampa non debba essere consegnata o inoltrata al destinatario, dispone che la stessa sia trattenuta; e che, in tale evenienza, il detenuto e l’internato debbano essere immediatamente informati. Benché la disposizione, in apparenza, non individui espressamente i casi in cui può essere disposto il trattenimento, è evidente, stante il suo stretto collegamento funzionale con il visto di censura, che esso possa essere disposto qualora, dall’esame dei contenuti della corrispondenza, l’autorità giudiziaria ritenga sussistente una situazione di pericolo concreto per quelle esigenze di ordine e di sicurezza pubblica che costituiscono i presupposti per l’adozione della prima forma di controllo. 3. Secondo la giurisprudenza di legittimità, quando la corrispondenza sia in “entrata”, il contenuto di questa, pur non dovendo essere analiticamente esplicitato, deve comunque essere richiamato con modalità idonee ad assicurare il prudente bilanciamento tra il diritto del detenuto a conoscere le ragioni della limitazione e le finalità di pubblico interesse volte a salvaguardare le esigenze investigative (Sez. 1, 43522/2014). Nel caso in esame, sia il provvedimento applicativo, sia quello impugnato hanno dato conto dei contenuti della corrispondenza trattenuta, sottolineando la cripticità dell’inoltro di materiale giudiziario relativo a soggetti di cui erano sconosciuti i legami personali con il detenuto, conseguentemente pervenendosi, con valutazione di merito scevra da profili di illogicità, a una valutazione di pericolo per l’ordine e la sicurezza esterna all’istituto, connessa alla possibile comunicazione di informazioni che non dovevano essere portate a conoscenza del detenuto. In questo modo, l’ordinanza impugnata si è conformata all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità secondo cui in tema di controllo sulla corrispondenza del detenuto sottoposto a regime di detenzione speciale, la decisione di non inoltro può essere legittimamente motivata sulla base di elementi concreti i quali facciano ragionevolmente dubitare che il contenuto effettivo della missiva sia quello che appare dalla semplice lettura del testo (Sez. 7, 5140/2020).

Il diritto a ricevere pubblicazioni della stampa periodica costituisce declinazione del più generale diritto a essere informati, a sua volta riconducibile alla libertà di manifestazione del pensiero, di cui costituisce una sorta di pre-condizione; sicché esso trova una diretta copertura costituzionale negli artt. 2 e 21 Cost. (così Corte costituzionale, 112/1993; 826/1988; 148/1981) e, a livello convenzionale, nell’art. 10 CEDU. La particolare rilevanza di tali diritti, certamente riferibili al novero di quelli fondamentali, trova riscontro nella doppia riserva, di legge e di giurisdizione, approntata in relazione alla loro eventuale limitazione, la quale non può che connotarsi, dunque, in termini di extrema ratio. Per tale ragione, l’art. 18-ter, stabilendo che “per esigenze attinenti le indagini o investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto, possono essere disposti, nei confronti dei singoli detenuti o internati, per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile per periodi non superiori a tre mesi: a) limitazioni nella corrispondenza epistolare e telegrafica e nella ricezione della stampa ...”, impone rigorosi presupposti applicativi e precisi vincoli temporali. E dal lato del giudice, la particolare rilevanza dei diritti incisi rende, ovviamente, necessario che il provvedimento restrittivo si informi a un obbligo di rigorosa motivazione. In presenza dei cennati presupposti di legge, costituisce affermazione consolidata, nella giurisprudenza di legittimità, che il divieto di ricevere, se del caso, anche tutta la stampa locale, può ritenersi conforme alla disciplina costituzionale, tenuto conto che, in ipotesi siffatta, il detenuto ben potrebbe fruire della stampa nazionale, sicché la compressione del suo diritto non sarebbe, comunque, assoluta (Sez. 1, 32904/2014). Nondimeno, perché un siffatto provvedimento possa ritenersi legittimamente dato è necessario che vi sia una specifica correlazione tra la circolazione della stampa locale all’interno del carcere e il probabile verificarsi di taluna delle circostanze indicate dall’art. 18-ter. Così, si è affermato, e la relativa decisione non pare potersi revocare in dubbio, che è pienamente “legittimo il provvedimento di limitazione nella ricezione della stampa locale emesso nei confronti di detenuto sottoposto a regime speciale ex art. 41-bis. qualora detta ricezione possa consentirgli di continuare a gestire dal carcere le attività illecite dell’associazione di appartenenza” (Sez. 1, 6322/2013). E ciò senza che sia necessario che il mantenimento, per il tramite della stampa, di collegamenti con il sodalizio di provenienza, sia accertato in termini di certezza, essendo sufficiente una situazione di mera probabilità, siccome funzionale al soddisfacimento di esigenze di tipo preventivo. Nondimeno, trattandosi di provvedimenti che incidono su diritti fondamentali, deve escludersi, come condivisibilmente dedotto dalla difesa del detenuto, che le limitazioni in questione possano essere basate sulla ricorrenza di una situazione di “mero sospetto”, essendo necessario che ricorrano concreti elementi di valutazione idonei a conferire un adeguato coefficiente di oggettività alle ragioni poste alla base del richiesto controllo (Sez. 1, 35766/2019).

In materia di trattenimento della corrispondenza dei detenuti, il controllo affidato al giudice di legittimità è esteso, oltre che all’inosservanza di disposizioni della legge penitenziaria, ai vizi della motivazione, dovendo essere ricondotti in tali patologie tutti i casi in cui la motivazione risulti del tutto priva dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di logicità, al punto da risultare inidonea a rendere comprensibile il percorso motivazionale seguito dalla magistratura di sorveglianza ovvero quando le linee argomentative del provvedimento non consentano di verificare la sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 18-ter per l’adozione della misura restrittiva (Sez. 1, 48898/2019).

La decisione di mancata consegna della corrispondenza può essere legittimamente motivata solo sulla base di elementi concreti - da indicare, anche in sede di reclamo, senza che ciò comporti la vanificazione del trattenimento - che facciano ragionevolmente dubitare che il contenuto effettivo della missiva sia quello che appare dalla semplice lettura del testo (Sez. 1, 36040/2019).

La materia delle limitazioni e dei controlli nella libertà di comunicazione, epistolare e telegrafica, dei detenuti con l’esterno, e nella libertà di informazione dei medesimi, è regolata dall’art. 18 - ter allo scopo precipuo di assicurare il pieno rispetto, in materia, delle garanzie prescritte dall’art. 15 Cost. (nonché, anche su sollecitazione della Corte di Strasburgo, dagli artt. 8 e 10 CEDU). Il comma 1 del citato art. 18-ter stabilisce dunque che, per esigenze investigative o di prevenzione dei reati, ovvero per ragioni di sicurezza o di ordine dell’istituto, possano essere tra l’altro disposte, nei confronti dei singoli detenuti o internati, limitazioni nella ricezione della stampa periodica. Il successivo comma 3 prevede, a tal fine, il decreto motivato del giudice, adottato su richiesta del PM o su proposta del direttore del carcere, e detta opportune regole di competenza al riguardo. Il successivo comma 6 disciplina la successiva fase di reclamo dinanzi al tribunale, ordinario o di sorveglianza, che decide con ordinanza ricorribile per cassazione. Viene in tal modo rispettata la duplice riserva, di legge e di giurisdizione, imposta in materia dal testo costituzionale, ed è altresì adeguatamente delimitata l’ingerenza dello Stato nell’esercizio della corrispondente libertà convenzionale. Il sistema, così congegnato, consente l’emanazione di provvedimenti limitativi di carattere generale, dalla durata massima predeterminata, pari a sei mesi in prima applicazione, comunque reiterabili, per periodi non eccedenti ciascuno i tre mesi, al permanere delle esigenze giustificative. Con ciò, l’ordinamento non ha di certo inteso vietare, tuttavia, l’intervento di misure “puntuali”, per il caso in cui l’esigenza investigativa, preventiva o di ordine e sicurezza, abbia tale limitata caratteristica (Sez. 1, 48522/2019).

L’art. 18-ter, comma 6, nell’ammettere il reclamo nei confronti dei provvedimenti adottati nelle materie regolate dal medesimo articolo, rinvia, per la disciplina del procedimento, al precedente art. 14-ter - che assicura la partecipazione ad esso del difensore e del PM, con facoltà per l’interessato e l’Amministrazione penitenziaria di presentare memorie - nonché, in via residuale, al modello, parimenti partecipato, di cui all’art. 666 c.p.p. Il reclamo non può, pertanto, essere definito mediante decisione assunta senza formalità, al di fuori del previsto contraddittorio camerale (Sez. 1, 36055/2019).

La L. 95/2004 - nel rafforzare le garanzie giurisdizionali in materia, mediante l’introduzione di una nuova disciplina (art. 18-ter), volta ad adeguare l’ordinamento interno alla giurisprudenza della Corte EDU - ha strutturato la tutela, in funzione della sua effettività, mediante la previsione di un doppio grado di merito, il cui dispiegarsi non può essere ostacolato da ingiustificate ragioni formali (Sez. 1, 36040/2019).

In tema di controllo sulla corrispondenza del detenuto sottoposto a regime di detenzione speciale, la decisione di non inoltro può essere legittimamente motivata sulla base di elementi concreti che facciano ragionevolmente dubitare che il contenuto effettivo della missiva sia quello che appare dalla semplice lettura del testo (Sez. 7, 7126/2020).

In tema di controllo sulla corrispondenza del detenuto sottoposto a regime di detenzione speciale, la decisione di trattenere una missiva può essere legittimamente motivata sulla base di elementi concreti che facciano ragionevolmente dubitare che il contenuto effettivo della missiva stessa sia quello che appare dalla semplice lettura del testo (Sez. 7, 3627/2020).

…Diritto allo studio

Il diritto allo studio per i detenuti sottoposti a regime differenziato non risulta compromesso dalla mancata ammissione all’uso del lettore CD-DVD, potendo costoro accedere agli altri strumenti in dotazione presso l’amministrazione penitenziaria (Sez. 7, 51599/2014). L’utilizzazione di tale strumento, per allietare le numerose ore trascorse dentro la camera di pernottamento, non rappresenta una necessaria estrinsecazione del diritto allo studio o all’informazione, adeguatamente tutelati attraverso le previsioni di accesso alla biblioteca del carcere, alle trasmissioni radio e televisive, alla palestra e alla socialità, non dà quindi luogo ad un diritto soggettivo e non è quindi reclamabile dinanzi l’AG (Sez. 1, 6040/2019).

Sono legittime le prescrizioni dettate dalle circolari ministeriali che, senza escluderla, limitano la possibilità di ricezione dall’esterno - tramite spedizione - di pubblicazioni che riportano elaborati grafici redatti da terzi, anche se da utilizzarsi per finalità di informazione o di istruzione, in quanto la disciplina speciale dettata dall’art. 41-bis comma 2-sexies, per i condannati per reati di maggiore pericolosità sociale rende legittima l’adozione delle misure previste dal comma 1-quater, tra le quali rientrano le misure dettate per prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza (lettera a) e quelle in tema di limitazione degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno (lettera c). Nella nozione di oggetti sono fatti rientrare, per la genericità del termine, anche libri, giornali e pubblicazioni provenienti dall’esterno ed il regime limitativo è stato già riconosciuto come legittimo e coerente con le finalità della norma di cui all’art. 41-bis e non comportante ingiustificate restrizioni alle facoltà riconosciute in tema di informazione e istruzione, non soppresse, ma da esercitarsi mediante sottoposizione ad un più rigoroso controllo circa la provenienza dei libri o delle stampe per impedire scambi sospetti con familiari di testi che potrebbero contenere messaggi criptici, non facilmente individuabili dal personale addetto al controllo. È dunque ragionevole e non discriminatorio che l’acquisizione di pubblicazioni avvenga per il tramite della direzione dell’istituto o dell’impresa incaricata della distribuzione in carcere (Sez. 7, 12489/2018).

…Elevato indice di vigilanza

L’inserimento nel circuito EIV, volto ad assicurare, nell’ambito dei poteri di organizzazione e sicurezza degli istituti, l’ordine interno e la personale incolumità dei detenuti, non è assimilabile ai provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 14-bis (sottoposizione a regime di sorveglianza particolare) e 41-bis, comma 2, perchè, senza limitare la partecipazione al trattamento rieducativo ed alle attività consentite dal regolamento interno, stabilisce soltanto, per ragioni di opportunità, la collocazione del soggetto in determinati istituti o sezioni a sorveglianza rafforzata, con la prescrizione di cautele dettate non solo in relazione alla sua particolare pericolosità, ma anche al fine di evitare atti di autolesionismo o aggressioni da parte di altri detenuti. Ne consegue che il relativo provvedimento, di esclusiva e discrezionale competenza dell’Amministrazione penitenziaria, ove non ecceda la funzione tipica che gli è propria non è in sè suscettibile di ledere diritti soggettivi e si sottrae quindi al controllo del magistrato di sorveglianza, mentre possono costituire ammissibile oggetto di reclamo le singole disposizioni o atti esecutivi che siano in concreto lesivi dei diritti incomprimibili del detenuto (Sez. 1, 46269/2007).

…Permanenza all’aria aperta

Il comma 2-quater, lett. f) dell’art. 41-bis, così come introdotto dalla L. 94/2009, prescrive che i detenuti soggetti al regime differenziato siano sottoposti a delle limitazioni della “permanenza all’aperto” non previste per gli altri ristretti; permanenza che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone e che deve avere “una durata non superiore a due ore al giorno fermo restando il limite minimo di cui al primo comma dell’art. 10”, a norma del quale “ai soggetti che non prestano lavoro all’aperto è consentito di permanere almeno per due ore al giorno all’aria aperta. Tale periodo di tempo può essere ridotto a non meno di un’ora al giorno soltanto per motivi eccezionali”. Ferma restando, in ogni caso, la possibilità che il limite delle due ore sia modificato in senso più favorevole dal regolamento interno di ogni istituto penitenziario, secondo quanto stabilito dall’art. 36, comma 2, lett. e), Reg. Una prima questione ermeneutica posta dalla citata disposizione concerne il significato da attribuire alla locuzione “permanenza all’aperto”. Sul punto, si ritiene di aderire all’interpretazione secondo cui la “permanenza all’aperto” non possa essere confusa con la fruizione della cd. socialità, attesa la differente funzione dei due istituti, diretti, il primo, alla tutela della salute e ad assicurare il benessere psicofisico e, il secondo, a garantire il soddisfacimento delle esigenze e degli interessi culturali, relazionali e di trattamento. Dunque, i due istituti non possono essere sovrapposti e l’ora di socialità non potrebbe essere considerata come una modalità di fruizione delle ore di permanenza all’aperto. Ciò anche sulla base del dato letterale, che rimanda all’aria aperta e non certo alla presenza fuori dalla camera di detenzione, oltre che dall’argomento sistematico costituito dal fatto che l’art. 10, che costituisce chiaramente la norma generale di riferimento, definisce la permanenza all’aperto come permanenza all’aria aperta, come chiarito anche dall’art. 16 Reg., che a tale disposizione dà attuazione, prevedendo, al comma 2, che in quei frangenti vengano utilizzati “spazi all’aperto”, se possibile non interclusi tra fabbricati, ma in luoghi maggiormente esposti all’aria e alla luce, venendo la permanenza assicurata per periodi adeguati, anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico. Tale ricostruzione comporta, già sotto questo primo aspetto, un profilo di illegittimità delle disposizioni contenute nella circolare del DAP del 2/10/2017 e del regolamento interno, che prevedono una sostanziale equiparazione tra la permanenza all’aperto e la cd. socialità, stabilendo un limite massimo unico di due ore giornaliere. Una disciplina, questa, che finisce per incorrere in una erronea applicazione del dettato normativo come sopra interpretato. Una seconda questione attiene, quindi, alla possibilità che, al di là della già censurata assimilazione tra i due istituti, le ore all’aria aperta giornaliere, che l’art. 10 prevede in numero non inferiore a due (come si evince dall’uso della espressione “almeno"), possano essere ridotte, nel caso dei detenuti sottoposti a regime differenziato, in misura pari a una, sulla base di una previsione generale contenuta in una circolare, cui faccia riscontro un provvedimento attuativo di analogo tenore; e ciò, appunto, senza che siano individuate, nei confronti del singolo detenuto, specifiche ragioni che giustifichino il regime più restrittivo. L’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. t), come già osservato, stabilisce che la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti preveda “la limitazione della permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone, ad una durata non superiore a due ore al giorno fermo restando il limite minimo di cui al primo comma dell’articolo 10”. Tale formulazione, sul piano strettamente letterale, presenta tratti di marcata ambiguità. Da un lato, infatti, l’enunciato normativo contiene un rinvio al “limite” stabilito dal primo comma dell’art. 10; limite che, secondo la disposizione richiamata, concerne non soltanto il profilo meramente quantitativo, ovvero il numero di ore all’aria aperta fruibili, ma anche la previsione, perché tale limite venga in concreto disposto, di “motivi eccezionali”, che l’amministrazione è tenuta a indicare, nonché di brevi periodi nei quali tale riduzione può essere attuata. Dall’altro lato, però, è vero, altresì, che la disposizione fa in realtà riferimento al “limite minimo” da essa previsto, onde l’aggettivo utilizzato parrebbe circoscrivere il rinvio al solo profilo della durata minima della permanenza all’aperto, la cui concreta modulazione, tra un massimo di due ore e un minimo di un’ora, sarebbe così rimessa alla valutazione discrezionale dell’Amministrazione penitenziaria. Tale interpretazione parrebbe confermata dal confronto tra la formulazione dell’art. 41 -bis, comma 2-quater, lett. t), e quella dell’art. 14-quater, comma quarto, che certamente rappresenta uno dei più significativi riferimenti normativi ai quali avere riguardo nel definire le regole del trattamento oggetto di sospensione anche nel regime differenziato ai sensi dell’art. 41-bis. Infatti, l’art. 14 -quater, comma quarto, nell’indicare gli ambiti della vita carceraria che non possono essere incisi dal regime di sorveglianza particolare, fa espresso riferimento, mutuando l’espressione utilizzata dall’art. 10, alla “permanenza all’aperto per almeno due ore al giorno”, con ciò chiarendo assolutamente, sul piano lessicale, che il limite minimo, in questo caso, è costituito da due ore all’aria aperta. Tuttavia, nella scelta della concreta soluzione esegetica, in specie a fronte di formulazione testuale che non spicca per adamantina chiarezza, l’interprete deve avere riguardo anche al criterio sistematico e al dato della maggiore o minore aderenza dell’ipotesi accolta ai principi generali dell’ordinamento, in particolare alla luce della ricostruzione che ne è stata offerta dal giudice delle leggi. In questa prospettiva, proprio in considerazione dello stretto collegamento tra l’art. 41 -bis e l’art. 14-bis, deve condividersi il rilievo secondo cui il regime proprio della sorveglianza speciale costituisce un parametro fondamentale per valutare nel concreto il livello di umanità della pena, sicché la previsione del comma quarto del citato art. 14-quater fornisce indicazioni “particolarmente pregnanti” per la concretizzazione di divieti contrari al senso di umanità (così Corte costituzionale, sentenza 351/1996). Tale puntualizzazione fa pendant con l’affermazione secondo la quale il potere ministeriale, nell’adozione della misure restrittive, deve trovare un limite “interno” di natura strettamente funzionale, nel senso che tutte le restrizioni dei diritti fondamentali del detenuto “per il loro contenuto (...) siano riconducibili alla concreta esigenza di tutelare l’ordine e la sicurezza, o siano palesemente inidonee o incongrue rispetto alle esigenze di ordine e di sicurezza che motivano il provvedimento” (in questo senso Corte costituzionale, sentenze 351/1996 e 376/1997). Nel caso qui esaminato, tuttavia, la disposizione della circolare, così come quella attuativa posta dal decreto ministeriale, non appare certamente idonea a rafforzare l’ordine e la sicurezza, così come la prevenzione di flussi comunicativi illeciti tra appartenenti alla stessa organizzazione criminale o a organizzazioni criminali contrapposte, per questa via contrastando con l’esigenza, testualmente affermata dalla Corte costituzionale, di bilanciare in maniera equilibrata tra interessi contrapposti, atteso che al minus di tutela accordato al diritto fondamentale alla salute, cui l’ora d’aria è preordinato, non corrisponde il rafforzamento della tutela accordato a un interesse, contrapposto, ma di pari rango (in termini cfr. Corte costituzionale, sentenza 143/2013). Ciò in quanto, i detenuti sottoposti al regime speciale dell’art. 41-bis possono permanere all’aperto soltanto all’interno di un gruppo di socialità di quattro persone, scelte dal dipartimento e dalle direzioni di istituto, nell’ambito del quale è sempre consentito comunicare, senza dover attendere le ore di permanenza fuori dalla camera detentiva, sicché quello che potrebbe accadere in due ore, potrebbe accadere anche in un’ora di permanenza all’aria. Dunque, sul piano sistematico, l’interpretazione seguita si conforma pienamente - nell’ottica dell’onere processuale, incombente sul giudice comune, di sperimentare preventivamente la possibilità di dare al testo legislativo un significato compatibile con il parametro costituzionale - al principio, espresso dalla Corte costituzionale, secondo cui “l’estensione e la portata dei diritti dei detenuti può (...) subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere”, sicché “in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.” (Corte costituzionale, sentenza 135/2013). Un principio che, in definitiva, consente la compressione di un diritto, nella specie quello alla salute, soltanto in quanto a essa corrisponda una maggiore tutela accordata a un interesse assiologicamente omogeneo o addirittura sovraordinato; ciò che, nel caso in esame, è stato motivatamente escluso dal magistrato e dal tribunale di sorveglianza, avuto riguardo al fatto che alle limitazioni poste alla fruizione del periodo all’aria aperta non corrispondeva un incremento della tutela assicurata alle esigenze di ordine e sicurezza, posto che, come già rilevato, l’ammissione all’aria aperta sarebbe comunque avvenuta con le medesime persone con cui il detenuto avrebbe fruito dell’ora di socialità, con le quali, dunque, avrebbe potuto comunicare liberamente. Ciò non significa, ovviamente, che in caso di comprovate esigenze non possa farsi luogo, per tale categoria di detenuti, alla riduzione della durata della permanenza all’aria aperta; e tuttavia, in questi casi, la relativa limitazione deve conseguire all’adozione di un provvedimento della direzione dell’istituto, che dia conto dei “motivi eccezionali”, i quali, dunque, non potranno essere assunti, nei confronti del singolo detenuto, sulla base del mero decreto ministeriale, salvo che questo sia in grado di indicare i suddetti motivi (Sez. 1, 27572/2019).

Il provvedimento genetico, emesso dal magistrato di sorveglianza, sul reclamo proposto dal detenuto, riguardava la disapplicazione del regolamento interno di istituto, nella parte in cui prevedeva il limite massimo di due ore giornaliere di permanenza fuori dalla cella e la rinuncia forzata all’uso delle sale di socializzazione nel caso di fruizione di due ore di permanenza all’aperto. Da tale disapplicazione discendeva che il reclamante aveva il diritto di beneficiare di un massimo di due ore all’aria aperta, nel quale non potevano essere compresi i periodi di socialità trascorsi nei locali interni della stessa struttura penitenziaria. Tale provvedimento trae il suo fondamento da una lettura ineccepibile del combinato disposto degli artt. 10, comma 1, e 41-bis, comma 2-quater, lett. f), per effetto del quale la permanenza all’aperto del detenuto sottoposto al regime detentivo speciale non può essere superiore a due ore al giorno e in gruppi di non più di quattro persone, nelle quali non possono essere comprese le frazioni orarie trascorse nelle sale di socialità dell’istituto penitenziario. Si osserva, in proposito, che, nel dettare tale disciplina, il legislatore italiano intende riferirsi alla permanenza del detenuto all’aperto e non già al suo stazionamento fuori dalla cella dove è ristretto ma all’interno dell’istituto penitenziario. Sul punto, non si può che richiamare la giurisprudenza di legittimità, secondo cui: «In tema di condizioni di detenzione la “permanenza all’aperto”, prevista dall’art. 10, non può consistere in una mera permanenza al di fuori della cella (nella specie nelle sale di biblioteca, palestra ecc.), dovendo essa svolgersi, secondo la previsione dell’art. 16 Reg., all’aria aperta» (Sez. 1, 44609/2018). D’altra parte, il silenzio dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), in ordine alle limitazioni all’attività di socialità svolta fuori dalla cella ma all’interno della struttura penitenziaria non può che interpretarsi nel senso dell’espansione, sul punto, della disciplina ordinaria, le cui regole sono finalizzate a garantire l’umanità della pena, ad assicurare la funzione rieducativa del trattamento sanzionatorio e a impedire la compressione del diritto alla salute del detenuto, non giustificata da effettive e comprovate ragioni di sicurezza. Né può essere interpretato nella direzione invocata dalla disposizione in esame il secondo periodo dello stesso art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), che non fa alcun riferimento alle attività di socialità in questione, limitandosi ad affermare: «Saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi». Occorre, al contempo, evidenziare che la ricomprensione dell’ora di socialità all’interno delle due ore di permanenza all’aperto non appare armonica con le finalità, tra loro eterogenee, alle quali rispondono gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti, atteso che nel primo caso si perseguono obiettivi culturali e relazionali non riscontrabili nel caso della permanenza all’aperto, che risponde alla diversa esigenza di garantire il diritto alla salute psico-fisica del detenuto. La giurisprudenza di legittimità, del resto, ha già affermato che gli istituti della socialità e della permanenza negli spazi aperti non possono essere assimilati sul piano delle esigenze di politica criminale che vi sono sottese, anche alla luce «del dato letterale, che rimanda all’aria aperta e non certo alla presenza fuori dalla camera di detenzione, oltre che dall’argomento sistematico costituito dal fatto che l’art. 10 che costituisce chiaramente la norma generale di riferimento, definisce la permanenza all’aperto come permanenza all’aria aperta, come chiarito anche dall’art. 16 Reg., che a tale disposizione dà attuazione, prevedendo, al comma 2, che in quei frangenti vengano utilizzati “spazi all’aperto”, se possibile non interclusi tra fabbricati, ma in luoghi maggiormente esposti all’aria e alla luce, venendo la permanenza assicurata per periodi adeguati, anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico» (Sez. 1, 44609/2018). In altri termini, la previsione dell’art. art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f), non giustifica un’equiparazione tra la permanenza del detenuto all’interno della struttura carceraria per finalità di socialità e la sua permanenza all’aperto, in ragione del fatto che, come evidenziato dal provvedimento impugnato, tale equiparazione «comprime il diritto alla salute e al benessere psicofisico senza ragione [...]», non comportando alcun incremento alla sicurezza o alla prevenzione dei rapporti intramurari tra soggetti sottoposti al regime detentivo speciale. A tali considerazioni occorre aggiungere che la soluzione ermeneutica seguita nel caso in esame dal Tribunale di sorveglianza appare conforme al principio, espresso dalla Corte costituzionale, secondo cui l’estensione e «la portata dei diritti dei detenuti può [...] subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere [...]», con la conseguenza che «in assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente un valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.» (Corte costituzionale, sentenza 135/2013). Ne discende che la compressione di un diritto, quale quello alla salute del detenuto, può essere giustificato soltanto in quanto corrisponda a una maggiore tutela accordata a un interesse sovraordinato, quale quello dell’ordine e della sicurezza pubblica. La ricorrenza di tali sovraordinate esigenze di tutela veniva correttamente esclusa dal Tribunale di sorveglianza, avuto riguardo al fatto che alle limitazioni poste alla fruizione del periodo all’aria aperta non corrispondeva un incremento della tutela assicurata alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica, posto che l’ammissione all’aria aperta del detenuto sarebbe comunque avvenuta con le medesime persone con cui il detenuto avrebbe fruito dell’ora di socialità, con le quali avrebbe potuto comunicare liberamente. Queste conclusioni, naturalmente, non comportano che, che in caso di comprovate esigenze di ordine e sicurezza pubblica, non possa farsi luogo, per tale categoria di detenuti, alla riduzione della durata della permanenza all’aria aperta. Tuttavia, in questi casi, la relativa limitazione deve conseguire all’adozione di un provvedimento motivato della direzione dell’istituto penitenziario, che dia adeguatamente conto dei “motivi eccezionali” richiesti dall’art. 10, comma 1, i quali non potranno essere desunti presuntivamente nei confronti del singolo detenuto, sulla base del solo decreto ministeriale di applicazione regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis (Sez. 1, 15572/2019).

…Perquisizioni personali

L’ordinaria perquisizione personale del detenuto, in regime di sorveglianza speciale ex art. 41-bis e quindi già sottoposto a particolari limitazioni e permanenti forme di controllo, è congrua alle finalità di sicurezza richieste in occasione del suo accesso alla sala per le videoconferenze (Sez. 1, 10076/2015).

…Procreazione assistita

La previsione normativa del diritto di detenuti ed internati di richiedere di essere visitati a proprie spese da un sanitario di fiducia non legittima la richiesta di ammissione alla procedura di accesso alla procreazione medicalmente assistita, dal momento che il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita non rientra nella nozione di profilassi e cura della salute. Il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo quando sia accertata l’impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione ed è comunque circoscritta ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico; l’impedimento al rapporto non è equiparabile a sterilità o infertilità, esattamente come lo stato di lontananza del coniuge non integra il presupposto richiesto dalla legge per accedere alla procedura di inseminazione artificiale (Sez. 1, 20673/2007).

In relazione alla richiesta del condannato di ammissione al programma di procreazione medicalmente assistita, il magistrato di sorveglianza è tenuto a pronunciarsi, valutando la tutelabilità concreta della pretesa avanzata, secondo un criterio di proporzione tra esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria e interesse della singola persona (Sez. 1, 7791/2008).

…Rapporti con i familiari

Le limitazioni alla possibilità di incontrare i familiari, in presenza della facoltà comunque riconosciuta di comunicare a distanza con comunicazioni telefoniche e con la corrispondenza scritta, in grado di mantenere le relazioni affettive, non possono intendersi quali forme di compressione della libertà del detenuto, non funzionali all’esecuzione della pena detentiva e contrarie al senso di umanità, quindi ai precetti costituzionali che presiedono all’espiazione carceraria (Sez. 1, 57813/2017).

Ai sensi dell’art. 1, comma 6 e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’art. 61, comma 1, lett. a) Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, stesso DPR, prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. A ciò si aggiunge che anche la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore. Del pari anche l’art. 8 CEDU prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare...”, sicchè eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. In particolare, la Corte EDU ha avuto modo di occuparsi più volte della compatibilità delle disposizioni degli ordinamenti nazionali, che, nel disciplinare le modalità di esecuzione della pena detentiva, di per sé comportante per sua natura limitazioni alla vita individuale e familiare per il distacco forzato che realizza, prescrivono in vario modo l’isolamento dei detenuti ed inibiscono colloqui con i familiari, con il principio che vieta trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU; ha quindi stabilito da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno (Corte EDU, Sez. 2, Messina c/ Italia, 8/6/1999), dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile (Corte EDU, Sez. 2, Van der Ven c. Paesi Bassi, 4/2/2003) (Sez. 1, 7654/2015).

La decisione impugnata ha negato al ricorrente la possibilità di incontro visivo col figlio, parimenti detenuto e sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis, per l’ostacolo frapposto da ragioni di sicurezza e di opportunità, valutate in modo discrezionale dall’amministrazione penitenziaria, secondo le prerogative organizzative e regolamentari, assegnatele dall’ordinamento. Va premesso che anche prima dell’intervento delle modifiche all’ordinamento penitenziario, apportate dalla L. 10/2014, si era già affermata da parte della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, la sindacabilità in sede giurisdizionale, mediante reclamo al magistrato di sorveglianza, dei provvedimenti dell’amministrazione penitenziaria incidenti sulle posizioni soggettive del detenuto, in funzione di tutela sia di veri e propri diritti soggettivi, che di meri interessi legittimi, quando coinvolti dal regime di trattamento. Nel caso di specie viene in rilievo il diritto soggettivo del ricorrente alla vita familiare ed al mantenimento mediante colloqui di relazioni dirette e di presenza con uno dei suoi più stretti congiunti, preclusogli anche in ragione dell’applicazione nei riguardi di tale congiunto del regime differenziato di cui all’41-bis, che, com’è noto, al comma 2-quater lett. a) consente l’adozione nei confronti di detenuti condannati o sottoposti a procedimento per reati specifici di particolare gravità e significativi di spiccata pericolosità sociale, di “misure di elevata sicurezza interna ed esterna che si rivelino necessarie per prevenire contatti con l’organizzazione di appartenenza”, nonché eventuali contrasti con elementi di gruppi contrapposti e l’interazione con detenuti o internati della stessa compagine o di altre a questa alleate. Per contro, la sua applicazione pregiudica anche la situazione detentiva del genitore in un settore della vita penitenziaria, cui l’ordinamento stesso assegna rilevanza quale strumento del percorso trattamentale, finalizzato al reinserimento sociale della persona, secondo quanto è deducibile da più fonti normative. Invero, il testo principale di riferimento nella materia è costituito dall’art. 28, il quale stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare, o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”; lo scopo perseguito da tale previsione è quello di impedire che l’abbandono delle abitudini di vita individuale e familiare acquisite in stato di libertà, imposto dall’espiazione della pena in ambito carcerario, comprometta il mantenimento delle relazioni affettive ed i sentimenti verso i congiunti. Ne costituiscono attuazione le singole disposizioni dell’ordinamento penitenziario, ad esempio l’art. 18, comma 3, che espressamente assegna “particolare favore ... ai colloqui con i familiari”, intesi quali occasioni relazionali personali e dirette, perché strumento per il mantenimento dei contatti con quanti sono liberi ed impedire effetti negativi sulla personalità del detenuto, determinati dall’isolamento. Per tali ragioni, ai sensi dell’art. 1, comma 6 e dell’art. 15, i colloqui sono inseriti nel trattamento di chi è ristretto e assumono rilevanza anche ai fini dell’attività di recupero e rieducazione del condannato, tant’è che l’art. 61, comma 1, lett. a) Reg., consente al direttore dell’istituto di concedere ulteriori colloqui a fronte di pareri positivi espressi dagli operatori del gruppo di osservazione e che la successiva norma dell’art. 73, comma 3, Reg. prescrive la conservazione del diritto ai colloqui con familiari e conviventi anche in caso di sottoposizione del detenuto alla sanzione disciplinare dell’isolamento con esclusione dalle attività in comune. A ciò si aggiunge che anche la disciplina fortemente limitativa dettata dall’art. 41-bis sopra citata nei confronti di soggetti, dotati di particolare pericolosità, non li esclude dai colloqui, che piuttosto regolamenta con l’introduzione di limiti numerici e con la possibilità di adottare, mediante previsioni della normativa attuativa di rango secondario, modalità esecutive di particolare rigore. Del pari anche l’art. 8 CEDU prescrive che “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare...”, sicchè eventuali ingerenze dell’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto sono coperte da riserva di legge e devono essere giustificate da esigenze di sicurezza nazionale, pubblica sicurezza, difesa dell’ordine e prevenzione dei reati, protezione della salute o della morale, dei diritti e delle libertà altrui. In particolare, la Corte EDU ha avuto modo di occuparsi più volte della compatibilità delle disposizioni degli ordinamenti nazionali, che, nel disciplinare le modalità di esecuzione della pena detentiva, di per sé comportante per sua natura limitazioni alla vita individuale e familiare per il distacco forzato che realizza, prescrivono in vario modo l’isolamento dei detenuti ed inibiscono colloqui con i familiari, con il principio che vieta trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 CEDU; ha quindi stabilito da un lato la necessità che la struttura penitenziaria realizzi qualche forma di controllo sui contatti tra il detenuto ed il mondo esterno (Corte EDU, Sez. 2, Messina c. Italia, 8/6/1999), dall’altro che la detenzione, per quanto giustificata dalla condanna per gravi reati e da esigenze di tutela della collettività, non può sopprimere in modo assoluto la relazionalità e la vita affettiva mediante l’isolamento completo del prigioniero, che può produrre effetti negativi sulla personalità e la sua desocializzazione con pregiudizi irreversibili sul processo di reinserimento nel contesto civile (Corte EDU, Sez. 2, Van der Ven c. Paesi Bassi, 4/2/2003). Ebbene, la valutazione del caso specifico dell’interessato, che dal 1996, quindi da quasi vent’anni non può incontrare il figlio perché entrambi ristretti in carceri diversi ed il secondo sottoposto alla sospensione delle regole ordinarie detentive, deve essere considerato alla luce delle norme e dei principi generali sopra richiamati, che l’ordinanza non ha considerato. Pur essendo condivisibile il riconoscimento nella materia specifica all’amministrazione penitenziaria di poteri discrezionali, il cui uso è stato esercitato in funzione della tutela dell’ordine e della sicurezza, sia interna agli istituti, che nei riguardi della generalità dei cittadini sotto il profilo della prevenzione di ulteriori reati, è altrettanto innegabile che la forzata separazione di un padre dal figlio per un periodo di tempo così prolungato incide negativamente sul mantenimento della loro relazione affettiva, sulla vita familiare e sul rispettivo percorso trattamentale, integrando condizioni restrittive particolarmente penose ed avvilenti e precludendo in assoluto l’esercizio di un diritto soggettivo ai colloqui. Si pone dunque il problema di come conciliare queste opposte esigenze in modo da non dare attuazione soltanto ad una di esse a scapito dell’altra. A tal fine si evidenzia che il magistrato di sorveglianza ha offerto una lettura parziale della normativa di riferimento, ha attribuito rilievo essenziale alle esigenze di contenimento della pericolosità qualificata del figlio del ricorrente, senza addentrarsi in una considerazione più ampia e di ordine sistematico delle disposizioni di legge diverse dall’art. 41-bis ed egualmente applicabili al caso, ad esempio dell’art. 28. e delle finalità perseguite mediante l’istituto dei colloqui visivi quale strumento per la coltivazione della relazione genitoriale e, suo tramite, per l’espressione della personalità del detenuto. Non si è dunque prospettato la possibilità di una soluzione che contemperi nel caso specifico, al dì fuori di qualunque generalizzazione e per ragioni umanitarie che tengano conto delle privazioni subite dal detenuto in via ininterrotta per quasi due decenni, le esigenze di ordine interno all’istituto e di ordine pubblico con il diritto soggettivo del detenuto ai colloqui mediante un sistema tecnico che garantisca la visione dell’immagine senza comportare spostamenti e contatti fisici diretti. Tale soluzione, la cui praticabilità va verificata in sede di merito, ma la cui ammissibilità va affermata a livello di principio nel riscontrare il vizio di violazione di legge denunciato dal ricorrente, si traduce in concreto nel ricorso alla videoconferenza, ossia a forme di comunicazione controllabili a distanza e tali da impedire il compimento di comportamenti tra presenti, possibile fonte di pericolo per la sicurezza interna dell’istituto o per quella pubblica, in quanto correlati all’attività di organizzazione criminose di stampo mafioso ancora attive ed operanti nelle aree geografiche di provenienza dei detenuti coinvolti (Sez. 1, 7654/2015).

...Rapporti con altri detenuti

Alla luce della finalità del regime stabilito dall’art. 41-bis, comma 2, la comunicazione da parte di un detenuto sottoposto a tale regime - quindi autore di gravi reati e per il quale è ritenuto sussistente il pericolo di mantenere collegamenti con associazioni criminali - ad altro detenuto sottoposto allo stesso regime ed avente ad oggetto l’informazione riservata circa il proprio trasferimento in un carcere diverso da quello attuale, comporta il pericolo per l’ordine e la sicurezza degli istituti, trattandosi del tentativo di fornire informazioni riservate che possono, in assenza di adeguato controllo, trapelare all’esterno (Sez. 1, 2599/2021).

…Religione e pratiche di culto

È illegittimo il provvedimento del magistrato di sorveglianza che rigetta la richiesta di un detenuto sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’art. 41-bis, intesa ad ottenere l’autorizzazione ad incontrare in via permanente un ministro del culto dei testimoni di Geova per lo studio e l’approfondimento dei testi biblici a norma dell’art. 26, comma 4, ferma restando l’esigenza che il colloquio venga autorizzato con modalità tali da assicurare l’ordine e la sicurezza dell’istituto penitenziario. Ne consegue che, in linea di massima, non pare possibile negare ad un credente - ed a maggior ragione ad un testimone di Geova, per il quale è importante lo studio della bibbia - almeno una qualche forma di approccio con il ministro del proprio culto, al fine di poter approfondire lo studio dei testi biblici, ferma restando l’esigenza che il colloquio si svolga con modalità tali da assicurare l’ordine e la sicurezza dell’istituto carcerario (Sez. 1, 20797/2011).

A fronte di un reclamo del detenuto, che in “riferimento al trattamento penitenziario individuale” individuava determinati comportamenti dell’Amministrazione penitenziaria come una “violazione al proprio diritto di libertà di culto religioso, rispetto al quale la dieta vegetariana deve ritenersi un corollario di pratica rituale”, l’essersi il magistrato di sorveglianza limitato a comunicare al ricorrente, all’esito di procedura informale, una relazione dell’amministrazione penitenziaria in merito alla non inclusione di maestri buddisti Zen nel novero dei ministri di culto abilitati all’ingresso nelle strutture penitenziarie ed un provvedimento in materia di vitto, assunto su reclamo di altro detenuto, si configuri effettivamente come “un mancato rispondere con motivazione specifica” al reclamo del detenuto, nel senso che “la comunicazione in questione” non può costituire, in effetti, “valida risposta sia sul piano procedimentale sia sul piano del contenuto” (Sez. 1, 41474/2013).

Sono violati gli artt. 9 e 14 CEDU allorché uno Stato non accolga la richiesta di un detenuto di fede buddista, la cui convinzione religiosa implichi la necessità di una dieta vegetariana, di potersi alimentare con pasti privi di carne (Corte EDU, 18429/06, Jakobski c. Polonia).

Il culto seguito da un detenuto, cui consegua la scelta di una dieta vegetariana, comporta che lo Stato debba assicurargli la possibilità di professare il culto medesimo anche nelle scelte alimentari, risultando altrimenti violato l’art. 9 CEDU (Corte EDU, Vartic c. Romania, 17 dicembre 2013).

…Ruolo dei garanti dei detenuti e colloqui dei detenuti con costoro

L’istituzione - ad opera del DL 146/2013, convertito in L. 10/2014 - del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (di seguito Garante nazionale) costituisce il momento finale di un processo nel corso del quale il nostro Paese si è fatto carico di recepire le ripetute sollecitazioni che, in ambito sovranazionale, hanno affermato la necessità di approntare efficaci strumenti di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale. Una sollecitazione che, storicamente, ha tratto alimento dalle esperienze virtuose, affermatesi nei paesi anglosassoni di common law e dell’area scandinava sul modello del cd. ombudsman, istituito in Svezia nel 1809 con il fine di controllare l’attività discrezionale della pubblica amministrazione. Lungo questa direttrice, sono state emanate - a livello europeo - la Raccomandazione R (1975) 757 dell’Assemblea Parlamentare, adottata il 29/1/1975, la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa R (1985) 13, adottata il 23/9/1985, con cui gli Stati membri sono stati invitati a considerare l’opportunità di istituire un Ombudsman (o una figura similare), rimarcando la “necessità di una garanzia ulteriore, al contempo più semplice, più rapida e più agevole dei ricorsi giurisdizionali vigenti”. Successivamente, la “Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti”, adottata il 26/6/1987 e aperta alla firma il 26/11/1987, ha istituito il cd. Comitato per la prevenzione della tortura (CPT), composto da soggetti esperti, indipendenti e imparziali, nominati da ciascuno Stato contraente, che “esamina, per mezzo di sopralluoghi, il trattamento delle persone private della libertà allo scopo di rafforzare, se necessario, la loro protezione dalla tortura e dalle pene o trattamenti inumani o degradanti” (art. 1), al fine di proteggere, in via preventiva, le persone private della libertà dalla tortura o dall’esecuzione di pene o trattamenti inumani o degradanti. E anche le Regole penitenziarie europee del 1987 (adottate con Raccomandazione R 1987- 3 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 12/2/1987) hanno previsto, nella regola 4, che “Ispettori qualificati e dotati di esperienza, nominati da una autorità competente, devono procedere alla ispezione regolare degli istituti e servizi penitenziari. Il loro compito deve consistere in particolare nel sorvegliare se ed in quale misura questi istituti sono amministrati conformemente alle leggi ed ai regolamenti in vigore, agli obiettivi dei servizi penitenziari e alle norme contenute in queste regole”. Mentre le Regole del 2006, adottate in data 11/1/2006 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa con Raccomandazione R (2006) 2, stabiliscono, alla regola 9, che le strutture penitenziarie devono essere oggetto di una “regolare ispezione governativa così come di un controllo da parte di un’autorità indipendente”. Ai fini che qui interessano, assume rilievo soprattutto il Protocollo opzionale della Convenzione ONU contro la tortura, adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con Risoluzione 9/1/2003 n. 57/199 ed entrato in vigore il 22/6/2006, la cui parte IV è dedicata ai meccanismi nazionali indipendenti di prevenzione (artt. 17-23). Tale Protocollo, che l’Italia ha firmato il 20/8/2003 e ha ratificato con la L. 195/2012 (con deposito dello strumento di ratifica il 3/4/2013), prevede, all’art. 1, “l’istituzione di un sistema di visite regolari svolte da organismi indipendenti nazionali e internazionali nei luoghi in cui le persone sono private della libertà, al fine di prevenire la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”, nonché la costituzione di “meccanismi nazionali indipendenti di prevenzione della tortura a livello interno” (art. 17), cui saranno garantiti il potere di “sottoporre a regolare esame il trattamento di cui sono oggetto le persone private della libertà nei luoghi di detenzione” (art. 19, lett. a), nonché di “formulare raccomandazioni alle autorità competenti al fine di migliorare il trattamento e le condizioni in cui versano le persone private della libertà e di prevenire la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti” (art. 19, lett. b). Mentre la maggior parte degli Stati aderenti hanno deciso di attribuire i compiti indicati dal Protocollo ai Difensori civici già esistenti (è il caso, tra gli altri, di Repubblica Ceca, Danimarca, Polonia, Portogallo, Spagna, Svezia), altri stati, tra cui l’Italia, hanno optato per la creazione di nuovi organismi. In questa prospettiva, sono stati istituiti Garanti regionali (Campania, Emilia Romagna, Friuli, Lazio, Lombardia, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Valle d’Aosta, Veneto), provinciali (Avellino, Enna, Ferrara, Gorizia, Lodi, Massa Carrara, Milano, Monza Brianza, Padova, Pavia, Trapani, Trento) e comunali (tra gli altri, Alessandria, Asti, Bergamo, Bologna, Bolzano, Brescia, Busto Arsizio, Enna, Ferrara, Firenze, Fossano, Ivrea, Lecco, Livorno, Lucca, Milano, Nuoro, Parma, Pescara, Piacenza, Pisa, Pistoia, Porto Azzurro, Prato, Reggio Calabria, Rimini, Roma, Rovigo, San Gimignano, San Severo, Sassari, Sondrio, Sulmona, Tempio Pausania, Torino, Trieste, Udine, Venezia, Verbania, Vercelli, Verona, Vicenza), che l’ordinamento penitenziario ha riconosciuto formalmente con il DL 207/2008, convertito con L. 14/2009, che ha modificato, tra l’altro, la formulazione degli artt. 18 e 67. La prima disposizione, infatti, come modificata dall’art. 12-bis, comma 1, lett. a) del citato decreto legge, ha previsto “il Garante dei diritti dei detenuti” tra coloro i quali “i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui”. Mentre l’art. 67, che disciplina le visite in istituto, nell’individuare i soggetti istituzionali legittimati a visitare gli istituti penitenziari senza previa autorizzazione, vi colloca anche, alla lettera I -bis del comma 1, “i Garanti dei diritti dei detenuti comunque denominati”, alludendo, con questa formula, proprio alle diverse figure istituite a livello regionale, provinciale, comunale. Il percorso di attuazione del processo di omologazione dell’ordinamento interno alle sollecitazioni degli istituzioni sovranazionali, ha segnato una tappa fondamentale con l’emanazione del DL 146/2013, convertito in L. 10/2014, al quale si deve l’introduzione della figura del Garante nazionale, competente non soltanto nei casi di persone detenute negli istituti penitenziari, ma anche di quanti si trovino in altre strutture quali gli «ospedali psichiatrici giudiziari, le strutture sanitarie destinate ad accogliere le persone sottoposte a misure di sicurezza detentive, le comunità terapeutiche e di accoglienza o comunque le strutture pubbliche e private dove si trovano persone sottoposte a misure alternative o alla misura cautelare degli arresti domiciliari, gli istituti penali per minori e le comunità di accoglienza per minori sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria», nonché, ancora, i centri di identificazione e espulsione e le camere di sicurezza, in forza della nuova previsione dell’art. 67- bis. L’art. 7 del citato decreto indica analiticamente, al comma 5, le funzioni del Garante Nazionale: funzioni di vigilanza “affinché l’esecuzione della custodia dei detenuti, degli internati, dei soggetti sottoposti a custodia cautelare in carcere o ad altre forme di limitazione della libertà personale sia attuata in conformità alle norme e ai principi stabiliti dalla Costituzione, dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti”; funzioni di verifica circa “il rispetto degli adempimenti connessi ai diritti previsti agli artt. 20, 21, 22, e 23 del regolamento di cui al DPR 394/1999, e successive modificazioni, presso i centri di identificazione e di espulsione previsti dall’art. 14 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286”; e, infine, funzioni di formulazione di specifiche raccomandazioni all’amministrazione interessata nel caso in cui siano state accertate violazioni di norme giuridiche ovvero la fondatezza delle istanze e dei reclami proposti ai sensi dell’art. 35. Ora, a fronte della minuziosa indicazione delle competenze funzionali dell’organismo di nuovo conio, la legge istitutiva non ha proceduto a una specificazione, altrettanto puntuale, degli strumenti di indagine e di intervento, i quali, dunque, devono essere ricostruiti attraverso il richiamo alle singole norme dell’ordinamento penitenziario, ovviamente interpretate sistematicamente. Uno dei principali strumenti di controllo è costituito, come già osservato, dalle visite in istituto. L’art. 67 stabilisce che “gli istituti penitenziari possono essere visitati senza autorizzazione” da una seri di soggetti istituzionali - dai magistrati di sorveglianza al direttore del DAP, dai ministri ai giudici costituzionali, dai parlamentari ai componenti del Consiglio superiore della magistratura gli ispettori generali et cetera - accanto ai quali sono indicati anche “i Garanti dei diritti dei detenuti comunque denominati” (comma 1, lett. I -bis). Nessun dubbio, sul piano interpretativo, che in tale nozione rientrino, oltre al Garante nazionale, anche i Garanti locali, tale soluzione imponendosi alla luce della locuzione “comunque denominati”, la quale allude certamente alle diverse figure di Garante istituite a livello regionale, provinciale, comunale, con esclusione di quelli nominati da associazioni private, secondo quanto riconosciuto dalla circ. min. 7/11/2013, n. 3651/6101 [la quale ha precisato che “per Garante si intende un organo pubblico istituito con atto normativo” emanato “dallo Stato o da enti pubblici territoriali (comuni, province e regioni)”, con esclusione di “figure che, pur fregiandosi di analoga qualifica, promanino da associazioni o gruppi di natura privata]. Sotto questo profilo, la norma aveva, all’origine, un carattere di significativa novità, mirando a sottrarre i Garanti alla necessità di munirsi, al fine di accedere in istituto, della preventiva autorizzazione discrezionale dell’Amministrazione penitenziaria ai sensi dell’art. 17 oppure come assistenti volontari ex art. 78, secondo quanto avveniva in precedenza. Lo scopo delle visite in istituto è indicato all’art. 117 Reg., rubricato “Visite agli istituti”, secondo cui “le visite (...) sono rivolte particolarmente alla verifica delle condizioni di vita degli stessi, compresi quelli in isolamento giudiziario”. Al fine di consentire ai Garanti di svolgere la loro funzione di verifica delle condizioni di vita, il trattamento penitenziario e rieducativo, essi possono ovviamente compiere delle ricognizioni dello stato dei luoghi, accedendo alle strutture detentive e parlando con le persone recluse, ferme restando le limitazioni stabilite dal citato art. 117 Reg., secondo cui “non è consentito fare osservazioni sulla vita dell’istituto in presenza di detenuti o internati, o trattare con imputati argomenti relativi al processo penale in corso”. In proposito, con la circolare DAP 7/11/2013, n. 3651/6101 (intitolata “nuovo testo unico delle disposizioni dipartimentali in materia di visite agli istituti penitenziari ex art. 67"), è stato stabilito che i Garanti possono “interloquire” con i detenuti purché in lingua italiana (e, comunque, in lingua comprensibile al direttore o a un suo delegato presente); specificandosi che in occasione di tali interlocuzioni, le quali “non sostanziano i colloqui in senso tecnico previsti dall’art. 18” Ord. pen., i Garanti, così come le altre autorità individuate nell’art. 67, “possono rivolgere la parola ai detenuti e agli internati” allo scopo di verificare “le condizioni di vita del detenuto, la conformità del trattamento ad umanità, il rispetto della dignità della persona, senza alcun riferimento al processo o ai processi in corso”. Tuttavia - prosegue la circolare - “tali dialoghi non possono travalicare in veri e propri colloqui e/o interviste, specialmente se vedenti sui contenuti espressamente vietati dall’art. 117, comma 1, secondo periodo” Reg., cioè se concernono processi in corso e “osservazioni sulla vita in istituto”, dovendo il tal caso il direttore o il suo delegato richiamare i soggetti colloquianti ovvero interrompere il colloquio allontanando il detenuto. L’art. 18, come modificato dall’art. 12 -bis, comma 1, lett. a), DL 207/2008, convertito con L. 14/2009, aveva previsto “il Garante dei diritti dei detenuti” tra i soggetti con i quali “i detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui”. Locuzione, quella di “Garante”, nella quale rientravano tutte le tipologie di Garante “comunque denominate”, secondo la locuzione utilizzata dall’art. 67. Ciò per l’ovvia considerazione che, quando la norma fu emanata il Garante nazionale non era stato ancora istituito, sicché le figure alle quali essa si riferiva erano proprio quelle dei Garanti locali, istituiti da regioni, province o comuni. Successivamente, l’art. 11, comma 1, lett. g), n. 1, D. Lgs. 123/2018 ha soppresso il riferimento al “garante dei diritti dei detenuti” contenuto nel comma primo dell’art. 18 e ha stabilito, modificando con il n. 2 il comma secondo dell’art. 18, che “i detenuti e gli internati hanno diritto di conferire con il difensore, fermo quanto previsto dall’articolo 104 del codice di procedura penale, sin dall’inizio dell’esecuzione della misura o della pena. Hanno altresì diritto di avere colloqui e corrispondenza con i garanti dei diritti dei detenuti”. In questo modo, dunque, i Garanti, sia quello nazionale che quelli locali, hanno ricevuto una differente collocazione nell’ambito delle categorie di soggetti con i quali i detenuti possono effettuare colloqui: non più a fianco dei “congiunti” e delle “altre persone” e previa autorizzazione dell’organo a ciò deputato, bensì, ora, a fianco del difensore, con il riconoscimento di un vero e proprio “diritto al colloquio”. Colloqui che ricadono nella disciplina dettata dallo stesso art. 18, con le modalità contemplate dal comma terzo, secondo cui essi avvengono in “appositi locali” e “sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”. Modalità che, quindi, garantiscono quella riservatezza che invece non caratterizza gli scambi verbali conseguenti alla visita ex art. 67. Nondimeno, non può non rilevarsi che il Garante, comunque denominato, è chiamato a assolvere a un ruolo istituzionale di controllo e, pertanto, di tutela, tanto è vero che il colloquio con il Garante può essere finalizzato a consentire al detenuto di presentare reclami orali ex art. 35, n. 3, oltre che di rappresentare, in tale sede, questioni attinenti alla vita carceraria in specie, quanto ai Garanti regionali, con riferimento alla tutela della salute, ormai di competenza del servizio sanitario regionale, quanto ai Garanti locali, su temi che possono concernere i contatti con il territorio (con organizzazioni di volontariato, con gli enti locali per prospettive lavorative ecc.). E ciò finisce necessariamente per riverberarsi sul relativo regime giuridico, quantomeno sotto due profili, tra i più problematici tra quelli che una disciplina frutto di disarmoniche stratificazioni ha finito per determinare. Sotto un primo aspetto, va osservato che l’art. 37 Reg. non disciplina specificamente il colloquio dei Garanti locali, di tal che era lecito dubitare, prima della recente modifica dell’art. 18, se esso dovesse essere sempre autorizzato (come stabilito per i familiari del detenuto) ovvero se esso potesse essere, come previsto per le “altre persone” diverse dai “congiunti”, soltanto ove ricorressero “ragionevoli motivi”. Attualmente, dopo la recente dell’art. 18 adopera del D. Lgs. 123/2018, il riconoscimento di un vero e proprio “diritto” al colloquio con il Garante, non consente di configurare alcuna possibilità di limitare l’accesso a tale figura, salva la eventuale ricorrenza di situazioni, del tutto eccezionali, che implichino esigenze di cautela processuale o di ordine e sicurezza interna. Sotto altro profilo, quanto alla computabilità dei colloqui nel numero massimo stabilito dall’art. 37 Reg., alla tesi affermativa che argomentasse, ancora una volta, dalla mancanza di qualunque deroga espressa per i Garanti, dovrebbe comunque opporsi che la sottoposizione dei colloqui svolti con questi ultimi al limite quantitativo stabilito dall’art. 37, comma 8, Reg., finirebbe per avere ripercussioni negative sui contatti con la famiglia, sostanzialmente riducendo gli spazi dell’offerta trattamentale, sia pure a beneficio di interventi volti a verificare le condizioni di vita del detenuto. Una soluzione, dunque, che sarebbe del tutto irragionevole, ponendo il detenuto di fronte alla alternativa di esercitare il suo diritto al mantenimento delle relazioni familiari ovvero di esercitare il diritto di accedere a una forma di tutela extragiudiziaria, la cui rilevanza è stata, come detto, affermata in più occasioni in sede sia interna che sovranazionale. Diverso dallo strumento del colloquio ai sensi dell’art. 18 è, invece, quello del colloquio “riservato”, il quale, diversamente dal primo, si svolge senza alcuna forma di controllo, né auditivo, né visivo, da parte del personale di polizia penitenziaria. Questa forma, particolarmente importante, di esercizio delle prerogative dell’organo è specificamente prevista soltanto con riferimento alla figura del Garante nazionale. Quest’ultima, infatti, è stata istituita con DL 146/2013, convertita L. 10/2014, che sul punto ha inteso dare attuazione al Protocollo opzionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (cd. OPCAT), trattato internazionale contro la tortura adottato dalle Nazioni Unite il 18/12/2002, che l’Italia ha firmato in data 20/8/2003 e ratificato con la L. 195/2012 (con deposito strumento ratifica il 3/4/2013). L’OPCAT, entrato in vigore nel giugno 2006, ha da un lato istituito, a livello internazionale, un nuovo organismo, denominato “Sottocomitato delle Nazioni Unite sulla prevenzione della tortura” (SPT), e, dall’altro lato, ha previsto che gli Stati parte abbiano l’obbligo di creare o designare, entro un anno dalla ratifica del Protocollo, appositi organismi indipendenti, i c.d. Meccanismi nazionali di prevenzione (NPMs), aventi il compito di svolgere visite regolari nei luoghi di detenzione e di formulare raccomandazioni e osservazioni ai Governi e alle autorità competenti per migliorare la condizione delle persone detenute. In tale contesto, il Protocollo opzionale e la legge di ratifica ed esecuzione 195/2012, stabiliscono, all’art. 20, che allo scopo di mettere i meccanismi nazionali di prevenzione in condizione di espletare il loro mandato, l’obbligo per gli Stati Parti di garantire ad essi “la possibilità di avere colloqui riservati con le persone private della libertà, senza testimoni, direttamente o tramite un interprete se ritenuto necessario, nonché con qualunque altra persona che i meccanismi nazionali di prevenzione ritengano possa fornire informazioni rilevanti” (lett. d); possibilità che, dunque, deve essere riconosciuta al solo Garante nazionale, siccome individuato quale Meccanismo nazionale di prevenzione dal D.M. 11 marzo 2015, n. 36, recante il “Regolamento sulla struttura e composizione del Garante” (cfr. sul punto anche la Circolare DAP 18/5/2016, “Istituzione del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale: compiti e poteri"). Viceversa, i Garanti locali, comunque denominati, non hanno questa possibilità, che è agli stessi espressamente riconosciuta unicamente in relazione alla corrispondenza epistolare, secondo quanto previsto dall’art. 35 che consente l’invio, anche al “Garante nazionale e ai Garanti regionali o locali dei diritti dei detenuti”, di istanze e reclami in busta chiusa, la quale dovrà riportare all’esterno la dicitura “riservata”. Occorre, in conclusione, verificare se e a quali condizioni la disciplina fin qui delineata trovi applicazione con riferimento ai detenuti sottoposti al regime dell’art. 41-bis. In argomento, va osservato, in premessa, che secondo la giurisprudenza di legittimità, cui va data continuità, l’art. 41-bis attribuisce al Ministro della Giustizia il potere di sospendere “in tutto o in parte” l’applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti ed internati, in correlazione con una “pericolosità qualificata” degli stessi, senza che, tuttavia, tale norma demandi in toto alla competenza ministeriale i contenuti del trattamento applicabile ai detenuti portatori di una “pericolosità qualificata” e, soprattutto, senza che essa abbia dettato una regolamentazione “speciale” dell’istituto, che si sovrapponga totalmente a quella ordinaria. In questa prospettiva, questa Corte ha già sottolineato come il contenuto del “regime detentivo speciale” risulti regolato dalla legge con previsioni operanti su un doppio livello (Sez. 1, 49726/2013). Un primo livello, per così dire “generale”, caratterizzato dalla regola della proporzionalità, in virtù della quale sono ammesse solo restrizioni al regime ordinario che siano necessarie agli scopi di prevenzione cui la misura è finalizzata. Il secondo livello di regole, invece, indica i concreti contenuti del regime, costituiti oltre che dalle previsioni del decreto ministeriale, dalle specifiche disposizioni del regime differenziato, nonché dalle norme ordinamentali con queste ultime non assolutamente incompatibili. Ciò significa che in assenza di specifiche previsioni contenute nel decreto ministeriale, anche per il detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis, possono trovare applicazione le norme dell’ordinamento penitenziario non oggetto di sospensione; norme che, per quanto qui di interesse, concernono, in primo luogo, il diritto di accesso, visita dei Garanti, anche locali, e di “interlocuzione” con i detenuti e, a seguire, la materia dei colloqui. Con riferimento ai colloqui cd. “riservati”, l’unica figura legittimata al loro espletamento, in virtù della già richiamata disciplina dettata dall’art. 20 L. 195/2012, è il Garante nazionale (cfr. la Circolare sulla “Organizzazione del circuito detentivo speciale previsto dall’art. 41-bis”, che all’art. 16.6 stabilisce che tale organo, in quanto “Organismo di monitoraggio indipendente” (NPM) secondo la convenzione di New York del 18/12/2002, “accede senza limitazione alcuna all’interno delle sezioni 41-bis incontrando detenuti ed internati e potendo svolgere con essi incontri riservati senza limiti di tempo"). Viceversa i colloqui ordinari, disciplinati dall’art. 18, possono essere effettuati, secondo la regola generale stabilita da tale disposizione, da tutte le diverse tipologie di Garante, da quello nazionale a quelli locali. Fermo restando che il Garante nazionale, avendo la facoltà di effettuare i colloqui riservati, non avrà bisogno, tendenzialmente, di eseguire i colloqui ordinari, i quali, come appresso si dirà, sottostanno, in particolare per i detenuti sottoposti al regime più restrittivo, a significative limitazioni. La circostanza che tutte le tipologie di Garanti, anche locali, possano effettuare i colloqui ex art. 18 deriva dal principio di diritto, già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “ulteriori limitazioni, al di là di quelle previste, non siano possibili, salvo che derivino da un’assoluta incompatibilità della norma ordinamentale - di volta in volta considerata - con i contenuti normativi tipici del regime differenziato”. Assoluta incompatibilità che non può nel caso di specie ravvisarsi, atteso che l’art. 41-bis non disciplina, espressamente, il colloquio con il Garante. Invero, la lettera b) del comma 2-quater dell’art. 41-bis stabilisce un regime di particolare rigore in materia di colloqui, sia sul piano della quantità degli stessi, che dei soggetti ammessi alla relativa fruizione, che delle modalità di svolgimento, dovendo essi avvenire “in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti”, essere “videoregistrati” e sottoposti “a controllo auditivo ed a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’autorità giudiziaria competente ai sensi del medesimo secondo comma dell’articolo 11”. Disposizioni, queste, che sono destinate ad applicarsi a ogni ipotesi di colloquio ai sensi dell’art. 18, ivi compreso quello del Garante locale, stante il carattere generale della relativa previsione e le connesse esigenze di documentazione dei contatti con il mondo esterno, che in quanto contenuta in una norma primaria non è certamente suscettibile di disapplicazione. Quanto, poi, alle ulteriori limitazioni, attinenti al numero e al regime autorizzatorio, una interpretazione sistematica della funzione del colloquio con il Garante non può non obliterarne gli elementi peculiari, che attengono al ruolo istituzionale del Garante, nazionale e locale, e alle esigenze di preservare alcuni tipi di legame con l’esterno, ancorché essenzialmente riconducibili all’ambito delle relazioni familiari. Sul punto, non sembra discutibile che il colloquio con il Garante debba essere necessariamente distinto, per la diversa funzione assolta, da quello con il familiare. E, tuttavia, esso non può nemmeno essere assoggettato, senza alcuna distinzione, al regime previsto per gli eccezionali colloqui con i terzi. In proposito, va osservato, innanzitutto, come il “divieto” di colloqui con persone diverse dai congiunti e conviventi non possa considerarsi un divieto in senso proprio, dal momento che la stessa lettera b) del comma 2-quater dell’art. 41-bis, dopo avere affermato, formalmente„ l’esistenza del divieto ("sono vietati i colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi"), in realtà stabilisce, subito dopo, la possibilità che, per gli imputati dopo la sentenza di condanna in primo grado, nonché per i condannati e gli internati, il direttore dell’istituto ovvero, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, l’AG che procede, consentano, in “casi eccezionali determinati volta per volta”, lo svolgimento di tale tipo di colloquio. Dunque, mentre il colloquio con i familiari (rectius con i “congiunti e conviventi") non può essere tendenzialmente impedito, in quanto riconducibile all’ambito dei diritti fondamentali del detenuto (salva l’ovvia possibilità di limitazioni per specifiche persone in presenza di comprovate esigenze di sicurezza), il colloquio con i “terzi” è sostanzialmente rimesso all’apprezzamento discrezionale dell’organo competente, chiamato a vagliare la ragionevolezza dei motivi della richiesta di colloquio, peraltro in una cornice che ne sottolinea il carattere sostanzialmente episodico. Nondimeno, nel caso del Garante locale, l’eccezionalità dell’ingresso di soggetti diversi dai familiari deve essere reso compatibile con la possibilità, per quell’organo di controllo, di esercitare la sua attività istituzionale; e ciò senza detrimento per le esigenze connesse al mantenimento delle relazioni familiari. Ciò che, per un verso, significa che il colloquio con il Garante non potrà essere considerato alternativo a quello con i familiari e che in ogni caso, l’autorità competente all’autorizzazione, pur potendo negare il colloquio (atteso che la nuova disciplina dettata dall’art. 18, che pure riconosce il diritto del detenuto al colloquio con il Garante, non si applica ai detenuti sottoposti al regime ex art. 41-bis, non potendo le modifiche introdotte dal D.Lgs. 123/2018 innovare la disciplina dettata in materia di regime speciale secondo la chiara previsione dell’art. 1, comma 85 della legge delega 103/2017), potrà farlo soltanto in presenza di specifiche e comprovate ragioni, di cui dovrà dare compiutamente conto del provvedimento di eventuale rigetto della richiesta (Sez. 1, 11597/2019).

In tema di regime detentivo differenziato ai sensi dell’art. 41-bis, il colloquio del detenuto con il Garante, sia nazionale che locale, può essere negato dall’Amministrazione penitenziaria in presenza di specifiche e comprovate ragioni di cui dovrà essere dato compiutamente conto nel provvedimento di eventuale rigetto della richiesta, atteso che la nuova disciplina dettata dall’art. 18, comma 2, inserita dal D. Lgs. 123/2018, - che riconosce al detenuto il diritto a tale colloquio, precludendo all’Amministrazione penitenziaria di valutarne le ragioni di merito - non si applica a tale categoria di detenuti, ma si è fedelmente attenuta, nella decisione del caso sottoposto al proprio scrutinio, al principio di diritto enunciato con la sentenza di Sez. 1, 46169/2018, secondo cui i detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis possono svolgere colloqui con il garante locale, a condizione che non sia diversamente previsto dal decreto di applicazione, e previa autorizzazione dell’amministrazione penitenziaria, che potrà negarla soltanto in presenza di specifiche e comprovate ragioni, di cui dovrà dare compiutamente conto nel provvedimento di eventuale rigetto della richiesta; colloqui che, in ogni caso, considerata la valenza generale dell’art. 18 e le peculiari esigenze tutelate dall’art. 41-bis, comma 2, lett. b), devono avvenire “in locali attrezzati in modo da impedire il passaggio di oggetti”, essere “videoregistrati” e sottoposti “a controllo auditivo ed a registrazione, previa motivata autorizzazione dell’AG competente ai sensi del medesimo secondo comma dell’articolo 11” (Sez. 5, 50212/2019).

La sola disposizione di legge cui far riferimento per quanto riguardo i colloqui con i garanti territoriali rimane quella dettata dal comma 1 dell’art. 18 (così formulato al momento della decisione: «I detenuti e gli internati sono ammessi ad avere colloqui e corrispondenza con i congiunti e con altre persone, nonché con il garante dei diritti dei detenuti ...»), come sostituito dall’art. 12-bis, comma 1, lett. a), L. 14/2009. Tramite tale ultimo articolo è stata prevista inoltre l’aggiunzione della lett. 1-bis) nel comma 1 dell’art. 67, così includendosi i garanti dei diritti dei detenuti «comunque denominati» - e perciò anche quelli regionali - fra i soggetti ai quali compete la «visita agli istituti» disciplinata dallo stesso art. 67 citato. Per effetto della sostituzione dell’art. 35, intervenuta con l’art. 3, comma 1 lett. a) della L. 10/2014, tutti i garanti sopra menzionati rientrano fra i soggetti ai quali i detenuti e gli internati possono rivolgere istanze o reclami orali o scritti, anche in busta chiusa e quindi senza forme di controllo. Le possibilità di contatto e di interlocuzione con i garanti territoriali nelle diverse forme sopra indicate (visite, colloqui, reclami) pacificamente non sono in sé precluse dalla sottoposizione alla detenzione prevista dall’art. 41-bis. Le questioni poste con il ricorso riguardano l’ampiezza e le modalità della fruizione dei colloqui con i garanti territoriali (nella specie quello regionale) da parte dei detenuti sottoposti allo speciale regime appena sopra menzionato. I ragionamenti alla base delle conclusioni rassegnate a tal riguardo dai giudici di merito prendono le mosse da una lettura dell’art. 18 che dovrebbe portare a distinguere - quanto al regime applicabile - i colloqui con i garanti locali da tutti gli altri ammessi con i restanti soggetti, congiunti o meno. Da ciò discenderebbe che i garanti locali non potrebbero rientrare fra le persone diverse dai conviventi e dai congiunti i cui colloqui, ai sensi dell’art. 37 Reg., vanno autorizzati in presenza di ragionevoli motivi. L’assunto poggia su due argomenti destituiti di fondamento. Il primo, di carattere letterale, valorizza la comparsa nel 1 comma dell’art. 18 della congiunzione «nonché» prima del sostantivo «garante» e dopo essersi indicati i «congiunti» e le «altre persone». L’approccio però non considera che la citata formulazione di tale comma deriva da un’aggiunta, ossia quella di cui all’art. 12-bis, comma 1 lett. a), DL 14/2009, riguardante appunto l’espressa menzione dei garanti fra gli interlocutori nei colloqui di cui può beneficiare il detenuto. Di talché, le espressioni letterali rivelano solo il fine perseguito di includere i garanti fra le «altre persone» già considerate dalla specifica disciplina preesistente. Un’estensione la cui esplicita indicazione si è resa opportuna, trattandosi di soggetti che diversamente avrebbero potuto ritenersi sprovvisti di relazioni idonee a rappresentare ragioni di interlocuzione nella forma dei colloqui. Una questione non postasi per il Garante nazionale che neppure era stato istituito. L’approccio letterale sostenuto dal provvedimento impugnato appare ancor più privo di fondamento tenuto conto che lo stesso art. 18 citato, quando in seguito si occupa delle autorizzazioni, non opera distinzioni in relazione alle persone con le quali potere espletare i colloqui. Inoltre, nello stesso senso vanno considerate le previsioni dell’art. 37 Reg., dato che neppure in tal caso si è avvertita la necessità di procedere a precisazioni di carattere distintivo, essendo rimasta ancora dettata al comma 1, senza differenziazioni di sorta, la regola delle autorizzazioni e del riscontro dei ragionevoli motivi per i colloqui con le persone diverse dai congiunti o conviventi. Persone indistintamente considerate in modo da inferirsi l’inclusione fra le stesse pure dei garanti territoriali come sopra menzionati dal comma 1 dell’art. 18. Il secondo argomento finisce per conferire in sé alle esigenze di garanzia, poste alla base dei colloqui con il garante locale, un’attitudine a modificare il significato della norma che esse non possono avere. In proposito va, ad ogni modo, rilevato che a fronte dell’attribuzione al direttore del carcere di compiti autorizzativi, con conseguenti possibili interferenze su temi che potrebbero investire l’operato dell’amministrazione, rimane la garanzia che la decisione assunta nel caso di diniego deve essere assistita da spiegazioni suscettibili di piena verifica tramite rimedi giurisdizionali. Si richiede una ragionevolezza nelle valutazioni, secondo quanto previsto dall’art. 37 Reg., che in assenza di comprovati e gravi motivi dovrà portare all’ammissione, considerando il ruolo di garanzia dell’interlocutore. Tutto ciò tenendo sempre conto che lo strumento dei colloqui non esaurisce le possibilità di interlocuzione diretta del detenuto con i garanti «comunque denominati», potendo sempre operare il riservato strumento di contatto per iscritto, secondo quanto previsto dall’art. 35 nell’attuale formulazione. Le considerazioni appena svolte danno conto dell’infondatezza della tesi secondo cui i colloqui coi garanti dovrebbero distinguersi, alla stregua di quanto previsto in via generale dagli artt. 18 e 37 Reg., da quelli indicati dalle medesime disposizioni relative alle persone diverse dai congiunti e conviventi (categoria infatti comprendente anche i predetti garanti). Si tratta di un punto fermo che inevitabilmente rende prive di rilevanza le altre osservazioni svolte nel provvedimento impugnato che chiamano in causa l’assenza di specifiche previsioni per i garanti nelle disposizioni sui colloqui con persone diverse dai familiari e conviventi dettate dall’art. 41-bis. Infatti, per quanto sopra rilevato, non vengono in evidenza distinzioni, in ragione del tipo di colloqui, previste da disposizioni generali (gli artt. 18 e 37 Reg.) e non espressamente superate da quelle speciali relative al regime di rigore. Deve, pertanto, concludersi che le previsioni di cui comma 2-quater lett. f) del citato art. 41-bis, aventi contenuto ulteriormente limitativo con riferimento alle condizioni di ammissione e alle modalità di espletamento dei colloqui visivi, debbono essere riferite anche a quelli aventi come interlocutori i garanti locali. Relativamente agli altri rilievi circa l’autorità chiamata a decidere sull’autorizzazione non possono che richiamarsi le osservazioni già espresse a proposito della disciplina dettata in via generale dall’art. 18. È vero che il comma 2-quater lett. f) del citato art. 41-bis indica il colloquio con i soggetti, quali i garanti locali, diversi dai congiunti o conviventi come uno strumento solo eccezionale, ma va ricordato che resta comunque aperta senza condizioni la strada della riservata comunicazione prevista dall’art. 35. Di talché, l’eccezionalità, quale condizione idonea a dare luogo all’ammissione al colloquio diretto, potrà rilevarsi anzitutto considerando proprio l’impossibilità di pervenire agli stessi risultati comunicativi adoperando il solo supporto scritto. La pienezza della tutela individuale rimane così assicurata attraverso la corretta integrazione dei due strumenti, secondo le diverse modalità consentite. In ordine alle critiche ulteriormente svolte, secondo cui il controllo auditivo e il vetro di separazione costituirebbero l’espressione di intollerabili sospetti sui garanti, va rilevato che si tratta di un approccio per nulla appropriato. Infatti, l’attenzione va piuttosto rivolta ai detenuti sottoposti allo speciale regime in ragione della pericolosità loro riconosciuta, che potrebbe portarli a strumentalizzare questo genere di opportunità di diretta interlocuzione anche per esercitare forme di coercizione volte ad attuare all’esterno finalità illecite. Una condizione di possibile esposizione dei garanti locali, chiamati ai colloqui con i detenuti sottoposti allo speciale regime, che non appare allo stesso modo configurabile nel caso in cui venga a interporsi lo scritto inviato secondo quanto previsto dall’art. 35. Il che si presta rappresentare le ragioni per cui solo in quest’ultima ipotesi non è contemplato alcun tipo di controllo preventivo (Sez. 1, 53006/2018).

…Uso della TV

La previsione, in via generale, ovvero tramite circolare, di limiti di orario nella fruizione dell’apparecchio TV da parte dei detenuti, è stato oggetto di interventi regolativi. In particolare: a) con circolare in data 2/5/2019, il DAP ha esteso la previsione della “fascia di silenzio” per sette ore notturne a tutti gli istituti penitenziari, senza distinzioni correlate al regime particolare di cui all’art. 41-bis., tant’è che con detta circolare è stato abrogato in modo espresso il comma 2 dell’art. 14 della circolare del 2017 relativa al regime differenziato; b) con determinazione del 22/7/2019, il DAP ha espressamente rivisto la circolare generale del 2/5/2019, ripristinando la regola previgente per cui il tema degli orari di fruizione della TV è rimesso alla regolamentazione interna dei singoli istituti e alle competenze delle direzioni; c) tale nuovo assetto è applicabile, come da precisazione del DAP, anche ai soggetti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41-bis (Sez. 1, 6185/2020).

Necessità della produzione delle circolari del DAP in caso di ricorso e legittimazione della Corte di cassazione a conoscerne il contenuto a prescindere dall’iniziativa delle parti

Le circolari emesse dal DAP contenuto lato sensu normativo, il che sottrae al potere dispositivo delle parti la loro necessaria produzione e impone alla Corte regolatrice di conoscerne il contenuto al fine di valutare l’ammissibilità del ricorso (Sez. 1, 22292/2018).