Art. 416-bis - Associazioni di tipo mafioso anche straniere (1)

1. Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni (2).

2. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni (3).

3. L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali (4).

4. Se l’associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma (5).

5. L’associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell’associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito.

6. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà.

7. Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego.

8. [Decadono inoltre di diritto le licenze di polizia, di commercio, di commissionario astatore presso i mercati annonari all’ingrosso, le concessioni di acque pubbliche e i diritti ad esse inerenti nonché le iscrizioni agli albi di appaltatori di opere o di forniture pubbliche di cui il condannato fosse titolare] (6).

9. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso (7) (8).

(1) Rubrica così sostituita dal numero 5) della lettera b-bis) del comma 1 dell’art. 1, DL 92/2008, convertito in legge, con modificazioni, con L. 125/2008.

(2) Comma così modificato dall’art. 1, L. 251/2005, dal n. 1) della lett. b-bis) del comma 1 dell’art. 1, DL 92/2008, convertito, con modificazioni, con L. 125/2008 e, successivamente, dall’art. 5, comma 1, lett. a), L. 69/2015.

(3) Comma così modificato dall’art. 1, L. 251/2005, dal n. 2) della lett. b-bis) del comma 1 dell’art. 1, DL 92/2008, convertito, con modificazioni, con L. 125/2008 e, successivamente, dall’art. 5, comma 1, lett. b), L. 69/2015.

(4) Comma così modificato dall’art. 11-bis, DL 306/1992 convertito in L. 356/1992, recante provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa.

(5) Comma così modificato dall’art. 1, L. 251/2005, dal n. 3) della lett. b-bis) del comma 1 dell’art. 1, DL 92/2008, convertito, con modificazioni, con L. 125/2008 e, successivamente, dall’art. 5, comma 1, lett. c), L. 69/2015.

(6) Parte soppressa dall’art. 36, comma 2, L. 55/1990.

(7) Comma così modificato prima dal numero 4) della lettera b-bis) del comma 1 dell’art. 1, DL 92/2008, convertito, con modificazioni, con L. 125/2008 e poi dal comma 2 dell’art. 6, DL 4/2010, convertito, con modificazioni, con L. 50/2010. Si tenga presente che il citato DL n. 4/2010 è stato abrogato dalla lettera c) del comma 1 dell’art. 120, DLGS 6 settembre 2011, n. 159.

(8) Articolo aggiunto dall’art. 1, L. 646/1982.

Rassegna di giurisprudenza

Captatori informatici per scopi di intercettazione

Limitatamente ai procedimenti per delitti di criminalità organizzata, è consentita l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni tra presenti  mediante l’installazione di un captatore informatico in dispositivi elettronici portatili (ad es., personal computer, tablet, smartphone, ecc.)  anche nei luoghi di privata dimora ex art. 614, pure non singolarmente individuati e anche se ivi non si stia svolgendo l’attività criminosa. Per reati di criminalità organizzata devono intendersi non solo quelli elencati nell’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, CPP, ma anche quelli comunque facenti capo a un’associazione per delinquere, ex art. 416, correlata alle attività criminose più diverse, con esclusione del mero concorso di persone nel reato (SU, 26889/2016).

Elementi strutturali

…Intimidazione e assoggettamento omertoso

Il delitto di cui all'art. 416-bis ha natura di reato di pericolo e ne consegue che, nel caso in cui un'associazione di tipo mafioso costituisca una propria diramazione, ai fini della configurabilità della natura mafiosa di quest'ultima, è necessario che essa sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti; con l'ulteriore precisazione che detta capacità intimidatoria, deve appartenere all'associazione in quanto tale, non potendosi desumere la stessa dalla sola fama criminale del singolo associato (Sez. 6, 21025/2021).

Il reato di associazione mafiosa è configurabile in relazione ad organizzazioni diverse dalle mafie cosiddette “tradizionali” ed anche in relazione ad un sodalizio costituito da un ridotto numero di partecipanti, che tuttavia impieghi il metodo mafioso per ingenerare, sia pur in un ambito territoriale circoscritto, una condizione di assoggettamento ed omertà diffusa (Sez. 6, 57896/2017, in cui la Corte ha accolto il ricorso avverso la sentenza di appello che aveva derubricato il reato di cui all’art. 416-bis in quello di cui all’art. 416, non considerando adeguatamente che l’associazione criminale, pur operando in un ristretto territorio, si caratterizzava per l’indiscussa forza intimidatrice, generata anche mediante il ricorso abituale a condotte violente ed all’uso di armi, tale da indurre un generale atteggiamento omertoso tenuto dai testimoni in dibattimento e desumibile dall’assenza di denunce e di forme di collaborazione da parte delle persone offese). Si è inoltre chiarito che, ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un’associazione di cui all’art. 416-bis., costituita fuori dal territorio di origine di quest’ultima, è necessario che l’articolazione del sodalizio sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti, la quale può, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l’associazione principale, oppure dall’esteriorizzazione “in loco” di condotte integranti gli elementi previsti dall’art. 416-bis, comma terzo, (Sez. 2, 34147/2015). Per altro verso, però, si è ribadito di recente (Sez. 6, 28212/2017), con orientamento che affonda le proprie radici in un non recente passato, che la forza di intimidazione che caratterizza il vincolo associativo non deve necessariamente manifestarsi attraverso specifici atti di minaccia e violenza da parte dell’associazione o dei singoli soggetti che ad essa fanno riferimento, potendosi desumere anche dal compimento di atti che, sebbene non violenti, siano evocativi dell’esistenza attuale, della fama negativa e del prestigio criminale dell’associazione, ovvero da altre circostanze obiettive idonee a dimostrare la capacita attuale del sodalizio, o di coloro che ad essa si richiamano, di incutere timore ovvero dalla generale percezione che la collettività abbia dell’efficienza del gruppo criminale nell’esercizio della coercizione fisica. L’elemento qualificante dell’associazione mafiosa consiste piuttosto, sul piano processale, nella dimostrazione che gli associati, per raggiungere lo scopo sociale, si avvalgono della forza di intimidazione che promana dal vincolo associativo e profittano della condizione di assoggettamento omertoso che a quella forza di intimidazione consegue. Tant’è che, coerentemente con questa premessa, la condivisibile giurisprudenza prevalente ha concluso nel senso che, in relazione al reato di associazione per delinquere “comune” di cui all’art. 416, l’aggravante di cui all’art. 7 DL 152/1991 è ipotizzabile esclusivamente sotto lo specifico profilo della finalità di agevolare l’attività di un’associazione mafiosa e non dell’utilizzo del metodo mafioso, dovendosi necessariamente configurare, nella seconda ipotesi, ovvero qualora il sodalizio operi secondo un metodi “oggettivamente” mafiosi, che il fatto “trasmodi” nel diverso reato di cui all’art. 416-bis (Sez. 2, 24802/2016). Pur non essendo richiesta la necessaria consumazione di delitti-scopo e prevedendo, anzi, la punibilità anche per le sole condotte associative di per sé considerate (data la natura di reato di pericolo - sia pure concreto - in rapporto al bene protetto), è infatti evidente (ed in tal senso si parla di reato associativo a struttura mista) che i caratteri tipici dell’associazione mafiosa, prima evidenziati, implicano un minimo di operatività o comunque postulano l’esistenza di una concreta carica intimidatoria, derivante dal modo di atteggiarsi o di comportarsi (anche pregresso) da parte di quei soggetti che rendano con chiarezza riconoscibile all’esterno tale fondamentale caratteristica. D’altra parte, si è precisato che è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato mezzo rispetto ai reati fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima. È noto, peraltro, che con la particolare formulazione dell’articolo 416-bis, il legislatore ha adottato un modello descrittivo dell’illecito tratto dalla concreta esperienza criminologica, essendo stata compiuta una valorizzazione di taluni elementi caratterizzanti della fattispecie (in particolare l’avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle correlate condizioni di assoggettamento e di omertà) desunti da dati “fenomenologici” riscontrati in alcune realtà territoriali del Paese. Ciò, come si è notato, ha comportato una sorta di alterazione dell’ordinario metodo di incriminazione delle fattispecie orientate alla tutela dell’ordine pubblico (art. 416) e basate sulla penale rilevanza (già) del solo accordo finalizzato alla commissione indeterminata di delitti (cui si accompagni un minimum di substrato organizzativo), atteso che il carattere “tipico” dell’associazione che possa dirsi mafiosa è riscontrabile solo nella misura in cui all’accordo tra più soggetti sia oggettivamente ricollegabile  per il metodo operativo seguito, per la qualità soggettiva degli associati, per il radicamento criminale sul territorio  un concreto effetto di “intimidazione ambientale”, tale da rendere possibile il perseguimento dei particolari fini (alterazione delle regole del mercato, alterazione dei rapporti tra privati e pubbliche amministrazione nell’aggiudicazione di appalti, o realizzazione di profitti ingiusti mediante lo svolgimento di attività illecite) previsti dalla norma. In altre parole, un’associazione può essere qualificata come “di stampo mafioso” laddove emerga che il suo modus operandi sia fortemente caratterizzato da un uso (almeno potenziale) della violenza o minaccia, tale da generare quel senso di timore e insicurezza, per la propria persona o i propri beni, che induce i terzi a piegarsi alle diverse richieste di vantaggi provenienti dagli associati (Sez. 2, 5271/2019).

L’associazione mafiosa non deve necessariamente manifestare la propria forza di intimidazione attraverso eclatanti epifanie della violenza. L’elemento qualificante dell’associazione mafiosa consiste piuttosto, sul piano processale, nella dimostrazione che gli associati, per raggiungere lo scopo sociale, si avvalgono della forza di intimidazione che promana dal vincolo associativo e profittano della condizione di assoggettamento omertoso che a quella forza di intimidazione consegueÈ noto, infatti, che con la particolare formulazione dell’articolo 416-bis, il legislatore ha adottato un modello descrittivo dell’illecito tratto dalla concreta esperienza criminologica, essendo stata compiuta una valorizzazione di taluni elementi caratterizzanti della fattispecie (in particolare l’avvalersi della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle correlate condizioni di assoggettamento e di omertà) desunti da dati «fenomenologici» riscontrati in alcune realtà territoriali del Paese. Ciò, come rilevato anche in dottrina, ha comportato una sorta di alterazione dell’ordinario metodo di incriminazione delle fattispecie orientate alla tutela dell’ordine pubblico (art. 416) e basate sul rilievo penalistico del solo accordo finalizzato alla commissione indeterminata di delitti (cui si accompagni un minimum di substrato organizzativo), atteso che il carattere «tipico» dell’associazione che possa dirsi mafiosa è riscontrabile solo nella misura in cui all’accordo tra più soggetti sia oggettivamente ricollegabile  per il metodo operativo seguito, per la qualità soggettiva degli associati, per il radicamento criminale sul territorio  un concreto effetto di «intimidazione ambientale», tale da rendere possibile il perseguimento dei particolari fini (alterazione delle regole del mercato, alterazione dei rapporti tra privati e pubbliche amministrazione nell’aggiudicazione di appalti, o realizzazione di profitti ingiusti mediante lo svolgimento di attività illecite) previsti dalla norma. Pur non richiedendo la norma in parola la necessaria consumazione di delitti-scopo e prevedendo, anzi, la punibilità anche per le sole condotte associative di per sé considerate (data la natura di reato di pericolo  sia pure concreto  in rapporto al bene protetto), è infatti evidente (ed in tal senso si parla di reato associativo a struttura mista) che i caratteri tipici dell’associazione mafiosa, prima evidenziati, rendono necessario un minimo di operatività o comunque postulano l’esistenza di una concreta carica intimidatoria (Sez. 1, 35627/2012), derivante dal modo di atteggiarsi o di .comportarsi (anche pregresso) da parte di quei soggetti che rendano con chiarezza riconoscibile all’esterno tale fondamentale caratteristica. In altre parole, va detto che un’associazione può essere qualificata in sede giudiziaria come «di stampo mafioso» esclusivamente ove risulti che il suo modus operandi sia fortemente caratterizzato da un uso (almeno potenziale) della violenza o minaccia, tale da generare quel senso di timore e insicurezza, per la propria persona o i propri beni, che induce la generalità dei consociati a piegarsi alle diverse richieste di vantaggi provenienti dagli associatiCiò posto, e richiamando i requisiti tipici delle condotte partecipative, va osservato che, negli ormai quasi quaranta anni di vigenza della fattispecie in parola, la dimensione applicativa ha fortemente risentito, come sovente accade, della particolarità delle vicende oggetto di giudizio, degli aspetti ambientali correlati alle stesse e degli specifici materiali dimostrativi portati all’attenzione dei diversi soggetti giudicanti. Sul punto, occorre anzitutto ricordare che è richiesta per la punibilità a titolo di partecipazione la verifica dimostrativa della ricorrenza di un duplice aspetto: sul terreno soggettivo va riscontrata l’affectio societatis, ossia la consapevolezza e volontà del singolo di far parte stabilmente del gruppo criminoso, con piena condivisione dei fini perseguiti e dei metodi utilizzati; sul piano oggettivo, non potendosi ritenere sufficiente la mera ed astratta «messa a disposizione» delle proprie energie (dato che ciò, oltre a costituire un dato di notevole evanescenza sul piano dimostrativo, si porrebbe in contrasto con il fondamentale principio di materialità delle condotte punibili di cui all’art. 25 Cost.) va riscontrato in concreto il «fattivo inserimento» nell’organizzazione criminale, attraverso la ricostruzione  sia pure per indizi  di un «ruolo» svolto dall’agente o comunque di singole condotte che  per la loro particolare capacità dimostrativa  possano essere ritenute quali «indici rivelatori» (mediante l’applicazione di ragionevoli massime di esperienza) dell’avvenuto inserimento nella realtà dinamica ed organizzativa del gruppo. Nella fattispecie, il tribunale della integrale devoluzione cautelare non ha tenuto conto del fatto che i consociati tutti si sono avvalsi, nel perseguire i fini sociali, di una forza di intimidazione (apprezzata nel concreto anche dalla singolare ricorrenza del numero di false dichiarazioni rese dalle vittime al pubblico ministero) obiettivatasi nel gruppo e non più confinata al suo solo promotore carismatico (peraltro detenuto mentre si consumavano i numerosi reati scopo), tanto che coloro che l’assoggettamento omertoso hanno subito hanno riferito di temere la reazione degli “uomini” del leader e, non tanto, o, non solo, del leader. Le capacità intimidatorie del singolo si sono, dunque, da questi emancipate per caratterizzare un gruppo e non più solo un soggetto. Del resto, è questo il percorso genetico seguito dalle numerose piccole mafie locali, che si sviluppano intorno alla figura carismatica di un capo, talvolta già associato ad una cosca più tradizionale, e attorno a questi formano un corpo identitario unico, che delinque con “metodo” facendo leva sulla forza di intimidazione divenuta patrimonio del gruppo e che da quel gruppo ormai promana (Sez. 2, 5273/2019).

…Cosiddetta “mafia silente”

Questione rimessa alle Sezioni unite: «se sia configurabile il reato di cui all’art. 416-bis con riguardo a una articolazione periferica (cd. “locale”) di un sodalizio mafioso, radicata in un’area territoriale diversa da quella di operatività dell’organizzazione “madre”, anche in difetto dell’esteriorizzazione, nel differente territorio di insediamento, della forza intimidatrice e della relativa condizione di assoggettamento e di omertà, qualora emerga la derivazione e il collegamento della nuova struttura territoriale con l’organizzazione e i rituali del sodalizio di riferimento» (Sez. 1, 15768/2019).

Il presidente aggiunto della Corte, con un provvedimento del 17 luglio 2019 emesso ai sensi dell’articolo 172 ATT. CPP, ha restituito gli atti alla sezione rimettente, escludendo l’esistenza del contrasto interpretativo rappresentato nell’ordinanza di rimessione. Così si legge nell'atto: «A ben vedere, dunque, l’asse ermeneutico si sposta sul tema della corretta valutazione delle evidenze probatorie, trattandosi di accertare le caratteristiche organizzative della “cellula”, i suoi rapporti con la “casa madre” nonché le forme di esteriorizzazione del metodo mafioso che, come affermato dalla sentenza Barranca, può manifestarsi anche in modo “silente”, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi o attentati di tipo stragistico) «ma avvalendosi di quella forma di intimidazione, per certi aspetti più temibile, che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere». Tali affermazioni non risultano particolarmente distanti dai principi affermati da Sez. 6, n. 41772 del 13/06/2017, Vicidomini, ascritta all’opposto orientamento, che escludendo la natura di reato associativo “puro” del reato di cui all’articolo 416-bis cod. pen., ha ribadito la necessità che l’associazione abbia già conseguito, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non minatori, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio […] In definitiva, il prisma rappresentato dai variegati arresti sul tema, può sostanzialmente ricondursi ad unità là dove si considera il presupposto ermeneutico comune che anche nel caso della delocalizzazione richiede, per poter riconoscere la natura mafiosa dell’articolazione territoriale, una capacità intimidatrice effettiva ed obiettivamente riscontrabile».

La rilevanza penale delle articolazioni (c.d. “locali”) estere del sodalizio mafioso denominato ‘ndrangheta, ed alla necessità dell’estrinsecazione del cosiddetto metodo mafioso, va evidenziato che un primo orientamento emerso nella giurisprudenza di legittimità ha affermato il principio secondo cui, ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un’associazione di cui all’art. 416-bis, costituita fuori dal territorio di origine di quest’ultima, è necessario che l’articolazione del sodalizio sprigioni nel nuovo contesto territoriale una forza intimidatrice che sia effettiva ed obiettivamente riscontrabile (Sez. 1, 55359/2016, che ha annullato la sentenza di merito che aveva qualificato una organizzazione operante in Germania come mafiosa, assenza di prova dell’esternazione in loco della metodologia mafiosa, ma sulla base soltanto del collegamento degli imputati con esponenti della ‘ndrangheta calabrese e dell’adozione dei rituali tipici di quest’ultima); tale orientamento, del resto, si inserisce nel solco interpretativo secondo cui, in tema di associazione a delinquere, il metodo mafioso deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione quale forma di condotta positiva, come si evince dall’uso del termine “avvalersi” contenuto nell’art. 416-bis ed esso può avere le più diverse manifestazioni, purché l’intimidazione si traduca in atti specifici, riferibili ad uno o più soggetti. Tuttavia, va osservato che la giurisprudenza di questa Corte si è successivamente consolidata nel senso di ritenere che il reato di cui all’art. 416-bis. sia configurabile  con riferimento ad una nuova articolazione periferica (c.d. “locale”) di un sodalizio mafioso radicato nell’area tradizionale di competenza  anche in difetto della commissione di reati-fine e della esteriorizzazione della forza intimidatrice, qualora emerga il collegamento della nuova struttura territoriale con quella “madre” del sodalizio di riferimento, ed il modulo organizzativo (distinzione di ruoli, rituali di affiliazione, imposizione di rigide regole interne, sostegno ai sodali in carcere, ecc.) presenti i tratti distintivi del predetto sodalizio, lasciando concretamente presagire una già attuale pericolosità per l’ordine pubblico (Sez. 5, 31666/2015, in una fattispecie relativa ad una cellula “locale” della ‘ndrangheta operante in Piemonte, in cui è stato tra l’altro valorizzato il fatto che una delegazione di appartenenti alla struttura periferica si era recata in Calabria per ottenere, da un esponente di spicco dell’organizzazione mafiosa, il “placet” per la costituzione di una nuova cellula in altro comune piemontese; in senso analogo, anche successivamente, Sez. 2, 24850/2017, che ha, altresì, osservato come diverso sia invece il caso di una neoformazione che si presenta quale struttura autonoma ed originale, ancorché caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle c.d. “mafie storiche”, giacché, rispetto ad essa, è imprescindibile la verifica, in concreto, dei presupposti costitutivi della fattispecie ex art. 416-bis, tra cui la manifestazione all’esterno del metodo mafioso, quale fattore di produzione della tipica condizione di assoggettamento ed omertà nell’ambiente circostante; più di recente, Sez. 5, 28722/2018, che, con riferimento all’articolazione in una cittadina svizzera di un clan della ndrangheta” radicato in Calabria, ha osservato che i moderni mezzi di comunicazione propri della globalità hanno reso noto il metodo mafioso proprio della “‘ndrangheta” anche in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari o insensibili al condizionamento mafioso, per cui non è necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento o di omertà in quanto l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo dalla consorteria). Nel medesimo senso si sono altresì pronunciate: Sez. 2, 34147/2015, in una fattispecie relativa alle “locali” de “La Lombardia” collegata con la ‘ndrangheta operante in Calabria, secondo cui, ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un’associazione di cui all’art. 416-bis, costituita fuori dal territorio di origine di quest’ultima, è necessario che l’articolazione del sodalizio sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti, la quale può, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l’associazione principale, oppure dall’esteriorizzazione “in loco” di condotte integranti gli elementi previsti dall’art. 416-bis, comma terzo; Sez. 6, 44667/2016, secondo cui, in tema di associazione di tipo mafioso, nei casi di delocalizzazione di più articolazioni periferiche (c.d. locali) che, pur richiamandosi a consorterie mafiose comprese tra quelle specificamente tipizzate sulla base di una consolidata esperienza, costituiscano un unico centro autonomo di imputazione di scelte criminali in un diverso quadro territoriale, non occorre che ogni cellula abbia dato luogo alla manifestazione del metodo mafioso, essendo invece necessario verificare che ciascuna di esse sia effettivamente parte del sodalizio e che questo, nel suo complesso, si sia manifestato nel nuovo contesto territoriale attraverso modalità concrete che, pur potendo non postulare azioni eclatanti, devono consistere nell’attuazione di un sistema incentrato sull’assoggettamento derivante dalla forza del vincolo associativo (fattispecie relativa alla costituzione di plurime “locali” di ‘ndrangheta operanti in Piemonte, in cui la Corte ha ritenuto sussistente un’unica associazione mafiosa composta da più cellule tra loro federate, evidenziando da una parte, come le singole cellule, pur operanti in propri ambiti territoriali e mantenendo stabilmente i contatti con gli organismi di vertice della consorteria di riferimento, si riconoscessero “come parti di un tutto”, e, dall’altra, come il sodalizio avesse, nel suo complesso, fatto effettivamente uso del metodo mafioso all’esterno ed al suo interno). Tanto premesso, va dunque espressa condivisione per questo secondo orientamento, consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte. Al riguardo, va innanzitutto evidenziata la differenza tra le ipotesi di ‘delocalizzazione’ delle c.d. mafie storiche (mafia, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita, tipizzate dal legislatore nell’art. 416-bis), da un lato, che, in considerazione del collegamento con le componenti centrali (la c.d. “casa madre”, in Calabria denominata “Provincia” o “Crimine”), e della fama criminale conseguita nei territori di origine, possono assumere anche la dimensione della c.d. “mafia silente”, e le ipotesi delle cosiddette “nuove mafie”, dall’altro, in relazione alle quali è necessario l’accertamento in concreto, meglio l’esteriorizzazione, dell’impiego del metodo mafioso per ingenerare, sia pur in un ambito territoriale circoscritto, una condizione di assoggettamento ed omertà diffusa (Sez. 6, 57896/2017, secondo cui la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici, può essere desunta da indicatori fattuali come le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo, la disponibilità di armi e il conflitto con le tradizionali associazioni operanti sul territorio, purché detti indici denotino la sussistenza delle caratteristiche di stabilità e di organizzazione che dimostrano la reale capacità di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva). Nel caso della ‘ndrangheta, oltre alla fama criminale conseguita nei territori di origine, in quanto “mafia storica” (menzionata anche dall’art. 416-bis, comma 8), ricorre altresì un elemento organizzativo particolarmente pregnante, che caratterizza la criminalità organizzata calabrese: invero, sul presupposto, accertato a livello giurisdizionale, dell’unitarietà a livello nazionale dell’organizzazione di tipo mafioso denominata ‘ndrangheta (sulla riconosciuta esistenza di una associazione unitaria, Sez. 6, 44667/2016), e dell’accertato modulo di diffusione mediante riproduzione sui territori dove opera delle proprie strutture organizzative denominate “locali”, la struttura criminale “delocalizzata”, cellula della mafia storica calabrese, risulta strettamente collegata alla cd. “casa madre”, al “locale originario” insediato in Calabria  cui compete il mantenimento degli equilibri generali, il controllo delle nomine dei capi-locali e delle aperture di altri “locali”, il nulla osta per il conferimento di cariche, la risoluzione di eventuali controversie, la sottoposizione a giudizio di eventuali comportamenti scorretti posti in essere da soggetti intranei alla ‘ndrangheta , mutuandone non soltanto moduli organizzativi (cariche ‘sociali’, organigramma, rispetto delle gerarchie, ecc.) e finalità di realizzazione del programma delinquenziale, ma anche la forza di intimidazione conseguita nei territori di originario insediamento. Va sul punto condivisa, su un piano generale, l’affermazione contenuta in Sez. 2, 15412/2015, secondo cui: “all’interno dell’alternativa di fondo (metodo mafioso meramente potenziale o in atto), può obiettarsi che richiedere ancora oggi la prova di un’effettiva estrinsecazione del metodo mafioso potrebbe tradursi nel configurare la mafia solo all’interno di realtà territoriali storicamente o culturalmente permeabili dal metodo mafioso o ignorare la mutazione genetica delle associazioni mafiose che tendono a vivere e prosperare anche “sott’acqua”, cioè mimetizzandosi nel momento stesso in cui si infiltrano nei gangli dell’economia produttiva e finanziaria e negli appalti di opere e servizi pubblici. E - questa - una preoccupazione che rivela un’opzione di fondo (in realtà non presupposta dall’art. 416-bis) in virtù della quale in tanto può parlarsi di associazione mafiosa in quanto essa sia penetrata in modo massiccio (quasi in maniera irreversibile) nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione. Ma, a parte il rilievo che la verifica di tale penetrazione in zone diverse da quelle di insediamento storico richiederebbe indagini sociologiche incompatibili con gli strumenti dell’accertamento penale, deve osservarsi che poco importa che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà abbia avuto maggiore o minore successo, successo che è in proporzione inversa alla capacità di resistenza civile e culturale delle comunità che della forza di intimidazione siano state destinatarie: in realtà tale impiego, munito della connotazione finalistica delineata dall’art. 416-bis comma 3 è già di per sé sufficiente ad integrare il delitto in discorso. Piuttosto, meglio sarebbe ridefinire la nozione di cosiddetta mafia silente non già come associazione criminale aliena dal cosiddetto metodo mafioso o solo potenzialmente disposta a farvi ricorso, bensì come sodalizio che tale metodo adopera in modo silente, cioè senza ricorrere a forme eclatanti (come omicidi e/o attentati di tipo stragistico), ma avvalendosi di quella forma di intimidazione - per certi aspetti ancora più temibile - che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere” (in senso analogo, Sez. 2, 24851/2017: “Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall’art. 416-bis, in ipotesi di strutture delocalizzate e di mafie “atipiche”, non è necessaria la prova che l’impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice”). A sostegno della tesi dell’osmosi tra la forza di intimidazione dei sodalizi storici operanti in Calabria e di quelli ubicati altrove, giova altresì richiamare un passaggio della già citata sentenza (Sez. 5, 31666/2015) che, con straordinaria lucidità, analizza il fenomeno anche nei suoi presupposti sociologici, e che, a parere del Collegio, segna la traccia esegetica da percorrere nella corretta operazione ermeneutica: «La mafia, e più specificamente la ‘ndrangheta che di essa è, certamente, l’espressione di maggiore pericolosità, ha oramai travalicato i limiti dell’area geografica di origine, per diffondersi, con proprie articolazioni o ramificazioni, in contesti geografici un tempo ritenuti refrattari od insensibili al condizionamento mafioso. L’immediatezza e l’alta cifra di diffusione dei moderni mezzi di comunicazione, propri della globalità, hanno contribuito ad accrescere a dismisura la fama criminale di certe consorterie, di cui, oggi, sono a tutti note la spietatezza dei metodi, l’ineluttabilità delle reazioni sanzionatorie, anche trasversali, inequivocità ed efficacia persuasiva dei codici di comunicazione. Sicché, non è certo lontano dal vero opinare che il grado di diffusività sia talmente elevato che il messaggio  seppur adombrato  della violenza (di quella specifica violenza di cui sono capaci le organizzazione mafiose) esprima un linguaggio universale da tutti percepibile, a qualsiasi latitudine [...] Ora, pretendere che, in presenza di simile caratterizzazione delinquenziale, con confondibile marchio di origine, sia necessaria la prova della capacità intimidatrice o della condizione di assoggettamento od omertà è, certamente, un fuor d’opera. Ed infatti, l’immagine di una ‘ndrangheta cui possa inerire un metodo “non mafioso” rappresenterebbe un ossimoro, proprio in quanto il sistema mafioso costituisce in sè della ‘ndrangheta, mentre l’impatto oppressivo sull’ambiente circostante è assicurato dalla fama conseguita nel tempo da questa stessa consorteria. Il baricentro della prova deve, allora, spostarsi sui caratteri precipui della formazione associativa e, soprattutto, sul collegamento esistente  se esistente  con l’organizzazione di base. In questo senso, vanno dunque lette ed apprezzate le statuizioni di questa Corte regolatrice, che reputano sufficiente la mera potenzialità del vincolo associativo, indipendentemente dal suo concreto esteriorizzarsi». L’argomentazione, poi, si sposta dal profilo sociologico a quello strettamente giuridico, laddove la pronunzia citata condivisibilmente valorizza la natura di reato di pericolo della fattispecie ex art. 416-bis, sì da rinvenirne gli estremi anche nel caso di “mafia silente”, purché l’organizzazione sul territorio, la distinzione di ruoli, i rituali di affiliazione, il livello organizzativo e programmatico raggiunto, lascino concretamente presagire la prossima realizzazione di reati-fine dell’associazione. Ricavando, a contrario, la diversità delle strutture che abbiano sì mutuato l’organizzazione interna ed i rituali di quelle operanti in Calabria, ma che operino non solo in contesti territoriali “vergini” al fenomeno ma anche in totale autonomia, sì da non poter contare sulla forza intimidatrice insita nei sodalizi calabri, né sulle logiche economico-delinquenziali di questi ultimi, rendendo così necessario che la neoformazione si guadagni sul campo la sua fama criminale, prima di assurgere al rango di associazione mafiosa. 2.4. Ne consegue, pertanto, che la reale connotazione delle forme di “delocalizzazione” delle “mafie storiche”, e della ‘ndrangheta in particolare (in ragione delle peculiarità strutturali, organizzative ed operative), connotata da forme di vera e propria “colonizzazione” dei territori nei quali decide di estendere la propria forza egemonica, risiede nella intrinseca, e non implicita, forza di intimidazione derivante dal collegamento con le componenti centrali dell’associazione mafiosa, dalla riproduzione sui territori delle tipiche strutture organizzative della ‘ndrangheta, dall’avvalimento della fama criminale conseguita, nel corso di decenni, nei territori di storico ed originario insediamento. Pur nella consapevolezza dell’attitudine performativa del linguaggio, è dunque possibile affermare, senza abdicare ai doveri di lealtà intellettuale, ma saldamente ancorati alla capacità conformativa della realtà, che, ricorrendone i presupposti (strutturali, organizzativi, operativi), la cosiddetta “mafia silente” rientra nel paradigma normativo dell’art. 416-bis, in quanto è capace di avvalersi di una forza di intimidazione intrinseca alla struttura dell’associazione mafiosa, nelle sue componenti centrali e delocalizzate, e pur in assenza di forme di esteriorizzazione (che non coincide con il diverso concetto di estrinsecazione) eclatante del metodo mafioso e della forza di intimidazione, che non deve essere ritenuta implicita, secondo inammissibili logiche di accertamento presuntive, bensì intrinseca alla accertata capacità di egemonizzazione criminale dei territori propria delle più potenti e temibili associazioni mafiose (Sez. 5, 47535/2018).

L’associazione mafiosa, per essere configurabile, necessità della manifestazione della capacità di intimidazione anche nel caso si tratti di c.d. “mafia silente”. La riconducibilità o meno dei fatti di causa alla c.d. mafia silente non esonera dalla prova della esistenza della capacità di intimidazione del sodalizio (Sez. 6, 56966/2017).

...Mafie non tradizionali

Ai fini della configurabilità del delitto previsto dall'art. 416 bis, in ipotesi di strutture delocalizzate e di mafie "atipiche", non è necessaria la prova che l'impiego della forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrato in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di elezione, essendo sufficiente la prova di tale impiego munito della connotazione finalistica richiesta dalla suddetta norma incriminatrice. Infatti, per le organizzazioni diverse dalle c.d. mafie storiche, la valutazione della sussistenza del requisito dell'esternazione del metodo mafioso, non deve essere necessariamente parametrata all'impatto ambientale determinato dal radicamento territoriale dell'organizzazione, giacché la condizione di assoggettamento e di omertà - variabile dipendente dalla permeabilità del contesto sociale all'uso strumentale dell'intimidazione mafiosa - costituisce il riflesso sociologico della metodologia associativa ma non è, rispetto ad essa, causalmente obbligato (Sez. 6, 35797/2020).

La fattispecie associativa delineata dall'art. 416-bis, è stata introdotta nel "sistema" dei reati associativi dalla legge Rognoni-La Torre del 1982, per colmare quello che appariva essere un deficit di criminalizzazione di realtà associative più "complesse" delle ordinarie associazioni criminali, in quanto "storicamente" dedite alla "sopraffazione" di un determinato territorio per il conseguimento di obiettivi di potere e di utilità economica. Il legislatore, peraltro, non si è limitato a "registrare" realtà (talvolta secolari) già presenti, come la mafia, la 'ndrangheta, la camorra, la "Sacra corona unita", ecc., da tempo dotate di un nomen (localisticamente connotativo - particolare importante perché evocativo del sincretismo che normativamente caratterizza il binomio associazione mafiosa e territorio), con correlativi insediamenti, articolazioni periferiche, prestigio, e "fama" criminale da "spendere" come arma di pressione nei confronti dei consociati (tanto che con riferimento alle c.d. mafie locali il collegamento della nuova struttura con la casa madre e l'adozione di un modulo organizzativo che ne abbia i tratti distintivi possono costituire espressione della capacità di intimidazione (Sez. 5, 28722/2018), ma ha anche aperto un indefinito ambito operativo, per così dire "parallelo", destinato a perseguire tutte le altre aggregazioni (anche straniere) che, malgrado prive di un nomen e di una "storia" criminale, utilizzino metodi e perseguano scopi corrispondenti alle associazioni di tipo mafioso già note. Tuttavia, con riferimento alle finalità perseguite gli elementi tipizzanti le varie compagini criminali sono fra loro eterogenei, in quanto gli scopi perseguiti dalle associazioni di stampo mafioso possono essere i più vari. Essi, infatti, spaziano dalla tradizionale realizzazione di un programma criminale - tipica di tutte le associazioni per delinquere - allo svolgimento di attività in sé lecite, come l'acquisizione, in modo diretto o indiretto, della gestione o comunque del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici; alla realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti; all'impedimento o all'ostacolo del libero esercizio del diritto di voto o per procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. Un "mosaico" dunque, di finalità, tanto ampio che mal si concilia con l'individuazione di un elemento specializzante che possa definire il concetto di "tipo mafioso". Deve ritenersi, invece, che il nucleo della fattispecie incriminatrice si collochi nel terzo comma dell'art. 416-bis, laddove il legislatore definisce, assieme, metodo e finalità dell'associazione mafiosa - in sostanza, quelle finalità che si qualificano solo se c'è uno specifico "metodo" che le alimenta - delineando in tal modo un reato associativo non soltanto strutturalmente peculiare, ma, soprattutto, a gamma applicativa assai estesa, perché destinato a reprimere qualsiasi manifestazione associativa che presenti quelle caratteristiche di metodo e fini. Per questo le associazioni che non hanno una connotazione criminale qualificata sotto il profilo "storico", dovranno essere analizzate nel loro concreto atteggiarsi, in quanto per esse "non basta la parola" (il nomen di mafia, camorra, ‘ndrangheta, ecc.); ed è evidente, che, in questa opera di ricostruzione, occorrerà porre particolare attenzione alle peculiarità di ciascuna specifica realtà delinquenziale, in quanto la norma mette in luce un problema di "assimilazione" normativa alle mafie "storiche" che rende necessaria un'attività interpretativa particolarmente attenta a porre in risalto "simmetrie" fenomeniche tra realtà fattuali, sociali ed umane diverse fra loro. Il fulcro del processo d'"identificazione" non potrà, dunque, fare riferimento che sul paradigma del metodo: è di tipo mafioso - puntualizza, infatti, l'art. 416-bis - l'associazione i cui partecipanti "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e dell'assoggettamento e di omertà che ne deriva". Il metodo mafioso, così come descritto dal terzo comma dell'art. 416-bis, colloca la fattispecie all'interno di una classe di reati associativi che, parte della dottrina, definisce "a struttura mista", in contrapposizione a quelli "puri", il cui modello sarebbe rappresentato dalla "generica" associazione per delinquere di cui all'art. 416. La differenza consisterebbe proprio in quell'elemento "aggiuntivo" rappresentato dal metodo, ma con effetti strutturali di significativa evidenza. La circostanza, infatti, che l'associazione mafiosa è composta da soggetti che "si avvalgono della forza d'intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva", parrebbe denotare - come l'uso dell'indicativo presente evoca - che la fattispecie incriminatrice richieda per la sua integrazione un dato di "effettività": nel senso che quel sodalizio si sia manifestato in forme tali da aver offerto la dimostrazione di "possedere in concreto" quella forza di intimidazione e di essersene poi avvalso. Il metodo mafioso, in questa prospettiva, assumerebbe connotazioni di pregnanza "oggettiva", tali da qualificare non soltanto il "modo d'essere" della associazione (l'affectio societatis si radicherebbe attorno ad un programma non circoscritto ai fini ma coinvolgente anche il metodo), ma anche il suo "modo di esprimersi" in un determinato contesto storico e ambientale. Forza di intimidazione, vincolo di assoggettamento ed omertà rappresentano, dunque, secondo questa impostazione, strumento ed effetto tipizzanti, in quanto concretamente utilizzati attraverso un "metodo" che, per esser tale, richiede una perdurante efficacia, anche, per così dire "di esibizione", pur se priva di connotati eclatanti. D'altra parte, anche in giurisprudenza si sottolinea come in tema di associazione di tipo mafioso, sussiste il reato previsto dall'art. 416-bis in caso di costituzione di una nuova struttura, operante in un'area geografica diversa dal territorio di origine dell'organizzazione di derivazione, che sprigioni, nel nuovo contesto, una forza intimidatrice effettiva e obiettivamente riscontrabile. Principio, questo, affermato in una fattispecie in cui si è ritenuta corretta la qualificazione mafiosa di un'articolazione della 'ndrangheta operante in Piemonte per l'utilizzo di metodi evocativi della capacità di assoggettamento di tale organizzazione, non attribuendo rilievo al fatto che non era stato replicato, nel territorio di espansione, il peculiare modello di insediamento della stessa (Sez. 6, 6933/2019). Per altro verso, il reato previsto dall'art. 416-bis è configurabile non solo in relazione alle mafie cosiddette "tradizionali", consistenti in grandi associazioni ad alto numero di appartenenti, dotate di mezzi finanziari imponenti e in grado di assicurare l'assoggettamento e l'omertà attraverso il terrore e la continua messa in pericolo della vita delle persone, ma anche con riguardo alle c.d. "mafie atipiche", costituite da piccole organizzazioni con un basso numero di appartenenti, non necessariamente armate, che assoggettano un limitato territorio o un determinato settore di attività, avvalendosi del metodo "mafioso" da cui derivano assoggettamento ed omertà, senza, peraltro, che sia necessaria la prova che la forza intimidatoria del vincolo associativo sia penetrata in modo massiccio nel tessuto economico e sociale del territorio di riferimento (tra le più recenti, Sez. 5, 6764/2020). La presenza, seppur necessariamente adattata alla realtà dimensionale, di una caratura "oggettiva" del metodo mafioso vale anche a consegnare alla fattispecie un coefficiente di offensività tale da giustificare, sul piano della proporzionalità, il rigoroso editto sanzionatorio, anche in linea con i più recenti approdi della Corte costituzionale, particolarmente attenta a scrutinare tale profilo della pena, superando qualsiasi preclusione derivante dalla tesi del tertium comparationis e delle cosiddette "rime obbligate" (Corte costituzionale, sentenze 236/2016; 40/2019 e, in tema di sanzioni "punitive", 112/2019). È proprio il metodo di cui l'associazione - per tipizzarsi - deve "avvalersi" a convincere del fatto che l'intimidazione e l'assoggettamento omertoso che ne devono derivare, rappresentano, in sé, un "fatto" che può prescindere dalla realizzazione degli ulteriori "danni" scaturenti dalla eventuale realizzazione di specifici reati-fine. Che l'associazione mafiosa costituisca un pericolo per l'ordine pubblico, l'ordine economico, quello sociale e quant'altro possa entrare nel programma della associazione è un fatto: ma ciò non toglie che il relativo metodo - per integrare la fattispecie incriminatrice - allorché attenga a struttura autonoma ed originale, caratterizzata dal proposito di utilizzare la stessa metodica delinquenziale delle mafie storiche, debba andare al di là di una mera dichiarazione di intenti, altrimenti rischiando di far sconfinare il "tipo" normativo in connotazioni meramente soggettivistiche, sulla falsariga di modelli di "tipo d'autore", ormai preclusi al sistema. In sostanza, l'associazione mafiosa è "strutturalmente" aperta: chiunque dia vita o partecipi ad un sodalizio che persegua quei fini con quel metodo, è chiamato a rispondere del reato, a prescindere dal nomen, dal territorio e dagli eventuali delitti specifici riferibili a quel sodalizio. Non è la "mafiosità" del singolo o dei singoli a qualificare, in sé, l'associazione; ma è il "modo di essere e di fare" che individua il tratto che rende quella associazione "speciale" rispetto alla comune associazione per delinquere, e che rappresenta il coefficiente di disvalore aggiunto che giustifica - anche sul piano costituzionale - l'assai più grave trattamento sanzionatorio. Il problema è peraltro quello di stabilire, in concreto, quale sia la portata da annettere al "metodo mafioso", dal momento che l'estrema varietà degli approcci definitori scaturiti tanto da parte della dottrina che della giurisprudenza mette a fuoco il rischio che si corre nel definire in chiave giuridica nozioni, categorie e fenomeni che presentano connotazioni storico sociologiche, anch'esse non poco variegate. Il che, ovviamente, ha lasciato spazio a quelle voci che hanno stigmatizzato la formulazione del reato di cui all'art. 416-bis, in quanto descritto attraverso enunciati normativi asseritamente non del tutto satisfattivi dei principi di determinatezza e precisione delle fattispecie incriminatrici. È noto, a questo riguardo, come il principio di riserva di legge, che la dottrina qualifica come "tendenzialmente assoluta", sia consuetamente declinato secondo tre distinte, ma complementari, direttrici. Anzitutto il principio di precisione, in virtù del quale le norme penali devono assumere la veste formale più chiara possibile, al fine di evitare interpretazioni creative e consentire a chiunque di prevedere le conseguenze delle proprie condotte (evidenti i riverberi sul versante della colpevolezza). La giurisprudenza costituzionale, come è noto, ha al riguardo costantemente ritenuto che l'esigenza di precisione nella descrizione della fattispecie, che scaturisce dall'art. 25, comma 2, Cost., «non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa (Corte costituzionale, sentenze 79/1982, 120/1963 e 27/1961), oppure riferirsi a concetti extra-giuridici diffusi (sentenze 42/1972, 191/1970), ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica (sentenza 126/1971). Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l'ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a "giustificare" l'inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell'incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta» (Corte costituzionale, sentenze 302 e 5/2004; da ultimo, sentenza 172/2014). Dunque, i profili definitori offerti a proposito del "metodo mafioso" vanno "estrapolati" sulla base del contesto normativo in cui gli stessi sono collocati, senza dover necessariamente attingere ai dati della "storia" e delle "esperienze" maturate alla luce delle manifestazioni offerte dalle mafie, per così dire, tradizionali. Accanto a ciò, viene però talvolta anche evocato il principio di determinatezza, dal momento che, richiamandosi "atteggiamenti" genericamente riconducibili ad una platea indifferenziata di soggetti, il cui tratto comune sarebbe rappresentato da un mero connotato "soggettivo interiore" (stato di intimidazione, di assoggettamento e di omertà), sfuggirebbe alla possibilità di qualsiasi elemento empirico di "registrazione" e di prova. Dunque, in contrasto con il principio di determinatezza della fattispecie penale. Sul punto, infatti, la Corte costituzionale ha puntualizzato che la valutazione del testo normativo «è da condurre con un metodo di interpretazione integrato e sistemico e dovrà essere volta ad accertare, da una parte, la intelligibilità del precetto in base alla sua formulazione linguistica e, dall'altra, la verificabilità del fatto, descritto dalla norma incriminatrice, nella realtà dei comportamenti sociali. Infatti, come già precisato dalla Consulta, a partire dalla sentenza 96/1981, «nella dizione dell'art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell'intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l'onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà». Ma anche sotto questo specifico versante, il dato normativo, ove si condivida la prospettiva "oggettivistica" e "materiale" di cui prima si è detto, sfugge alle censure di "fattispecie sociologicamente orientata" di cui, specie in passato, il reato di cui all'art. 416-bis è stato fatto segno, dal momento che quei profili lato sensu ambientali connessi al metodo mafioso, assumono i caratteri del "fatto", che deve formare oggetto, naturalmente, di prova adeguata. E ciò tanto più vale proprio nei casi in cui non si parli delle associazioni mafiose "tradizionali", ma di realtà ambientalmente e, se si vuole, culturalmente diverse, e per le quali sono solo i "fatti", e non le "denominazioni", a contare davvero. Non è un caso, d'altra parte, che proprio sul versante della prova della "mafiosità" di un'associazione, sia stato affermato che in tema di rilevanza dei risultati di indagini storico-sociologiche ai fini della valutazione, in sede giudiziaria, dei fatti di criminalità di stampo mafioso, il giudice deve tener conto, con prudente apprezzamento e rigida osservanza del dovere di motivazione, anche dei predetti dati come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori, dopo averne vagliato, caso per caso, l'effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime di esperienza senza che ciò, peraltro, lo esima dal dovere di ricerca delle prove indispensabili per l'accertamento della fattispecie concreta oggetto del giudizio. L'esistenza di un "metodo" che produce determinati effetti, costituisce, dunque, ordinario oggetto di prova, non diversamente dall'esistenza del sodalizio e delle finalità che, attraverso quel metodo lo stesso persegue. A conclusioni non dissimili sembra possibile pervenire anche in merito all'ultimo corollario che solitamente si desume dal principio di legalità: vale a dire, quello di tassatività della fattispecie, il cui fine, come è noto, è quello di precludere applicazioni analogiche della norma incriminatrice ai sensi dell'art. 14 delle preleggi, nonché degli artt. 1 e 199 c.p. e 25 Cost. Sotto questo versante, si è osservato, sarebbero proprio i riferimenti di carattere sociologico, storico e culturale a permettere indebite "estensioni" alla fattispecie, in particolare sul versante delle associazioni non "tradizionali", dal momento che per queste ultime non potrebbe farsi appello proprio a quei dati di comune esperienza che possono trarsi dai metodi - di antica "sperimentazione" - praticati nei territori "occupati" da mafia, camorra o ‘ndrangheta. Ancora una volta, infatti, è proprio facendo leva sulla lettura "oggettivistica" del dato normativo che è possibile scongiurare un simile epilogo. È di tutta evidenza, infatti, che se per raggiungere gli obiettivi descritti dall'art. 416-bis, un'associazione "priva di storia" determina, in un certo alveo sociale e ambientale, un clima diffuso di intimidazione che genera uno stato di assoggettamento (con correlativa limitazione della sfera di autodeterminazione) e di omertà (qualcosa di cui non si deve parlare), non viene affatto in discorso un'applicazione "analogica" della fattispecie, ma una normale applicazione del "fatto" tipizzato. Una diversa interpretazione creerebbe, d'altra parte, un'ingiustificata disparità di trattamento, giacché sarebbero assoggettate alla disciplina di maggior rigore solo le associazioni, per così dire, a "denominazione di origine controllata" e non quelle che perseguano gli stessi fini con gli stessi metodi e realizzino, per questa via, il medesimo coefficiente di maggior disvalore rispetto alla normale associazione per delinquere. Il deficit di determinatezza della fattispecie è stato, peraltro, da parte di taluno traguardato nella prospettiva - all'apparenza non nitidamente scolpita nel testo normativo - qualitativa e quantitativa che l'intimidazione deve presentare per conseguire gli effetti dell'assoggettamento e di omertà, a loro volta utilizzati per il perseguimento dei fini dell'associazione. L'evocazione, infatti, di paradigmi "generalizzati" di riferimento (intimidazione, assoggettamento, omertà, sono chiaramente assunti come "fenomeni" meta individuali) assegna a tali elementi di fattispecie una dimensione chiaramente "collettiva", che esclude gli opposti estremi: da un lato, un effetto "totalizzante", di coazione che coinvolga l'intera popolazione di un determinato territorio; dall'altro, quello della "micro-entità" associativa, che opera in una prospettiva poco più che individuale. Sul primo versante, si è di recente affermato che, ai fini della configurabilità dell'associazione per delinquere di tipo mafioso, il requisito della forza intimidatrice promanante dal sodalizio non può essere escluso per il sol fatto che la sua percezione all'esterno non è generalizzata nel territorio di riferimento, o che un singolo non si è piegato alla volontà dell'associazione o, addirittura, ne ignori l'esistenza (Sez. 5, 26427/2019). A maggior ragione il discorso vale per le organizzazioni "non tradizionali", per le quali il "metodo mafioso" va integralmente analizzato alla luce delle concrete emergenze e dello specifico atteggiarsi dell'associazione in un determinato ambito sociale e territoriale. È evidente che, in questa cornice, non sarà l'atteggiamento del singolo a contare in sé e per sé, ma è la risposta "collettiva" a dimostrare che l'associazione ha raggiunto una capacità di intimidazione "condizionante" una generalità di soggetti, e che della stessa si avvale per il perseguimento degli obiettivi normativamente scolpiti dallo stesso art. 416-bis. "Assoggettamento" ed "omertà" rappresentano, dunque, gli "eventi" che devono scaturire dall'intimidazione: "fatti", quindi, che devono formare oggetto di prova, e che chiaramente fuoriescono da qualsiasi ambigua lettura di tipo sociologico o culturale. Deve pertanto condividersi l'assunto secondo il quale ai fini della configurabilità del reato di associazione di tipo mafioso con riguardo alle c.d. mafie non tradizionali è necessario che l'associazione abbia già conseguito, nell'ambiente in cui opera, un'effettiva capacità di intimidazione esteriormente riconoscibile, che può discendere dal compimento di atti anche non violenti e non di minaccia, che, tuttavia, richiamino e siano espressione del prestigio criminale del sodalizio. Gli eventuali atti di violenza e minaccia posti in essere da un'associazione di nuova formazione al fine di acquisire sul territorio la capacità di intimidazione, in quanto precedenti all'assoggettamento omertoso della popolazione e strumentali a strutturare il prestigio criminale del gruppo, sono atti esterni ed antecedenti rispetto alla configurazione del reato di cui all'art. 416-bis. D'altra parte, la forza intimidatrice espressa dal vincolo associativo può essere diretta a minacciare tanto la vita o l'incolumità personale, quanto, anche o soltanto, le essenziali condizioni esistenziali, economiche o lavorative di specifiche categorie di soggetti, ed il suo riflesso esterno in termini di assoggettamento non deve tradursi necessariamente nel controllo di una determinata area territoriale. Forza intimidatrice, dunque, "a forma libera", dal momento che è proprio la complessità delle dinamiche sociali a richiedere una "flessibilità" delle tipologie espressive e delle forme d'intimidazione, le quali ben possono trascendere la vita e l'incolumità personale, per attingere direttamente la "persona", con i suoi diritti inviolabili, anche relazionali, la quale viene ad essere coattivamente limitata nelle sue facoltà. L'associazione di stampo mafioso, dunque, ineluttabilmente "incrocia", compromettendoli, i diritti di libertà di un numero indeterminato di soggetti, dando ragione a quanti considerano, ormai, strutturalmente angusta la qualificazione del reato come delitto "semplicemente" contro l'ordine pubblico, arricchendosi il bene giuridico tutelato di altri interessi meritevoli di tutela, quali l'ordine pubblico economico e l'esercizio di diritti e libertà costituzionalmente garantiti. (Sez. 2, 10255/2020).

…Struttura organizzativa

Non è l’accordo, stretto tra i componenti di uno stesso nucleo familiare, di commettere nel tempo più delitti, espressivi di una comune deliberazione criminosa a costituire il requisito indispensabile dell’associazione per delinquere, ma piuttosto quello dell’organizzazione, sia pure in forma rudimentale. È attraverso l’organizzazione strutturale che i partecipanti si predispongono alla realizzazione di una serie indeterminata di delitti, nella consapevolezza di far parte di un sodalizio criminoso durevole e di essere disponibili ad operare per l’attuazione del progetto delinquenziale comune (Sez. 5, 12101/2021).

La  mancanza di prova circa una gerarchia fra i componenti dell’associazione non costituisce elemento ostativo alla sussistenza di detto reato, il cui elemento materiale consiste nell’associarsi di tre o più persone allo scopo di commettere più delitti, senza che sia richiesta una distribuzione gerarchica di funzioni, l’esistenza di un rapporto di subordinazione e la presenza di un capo; evenienza quest’ultima che la norma, al pari dell’esistenza di promotori od organizzatori, considera come eventuale, configurando un’autonoma e più grave fattispecie criminosa (Sez. 3, 19198/2017).

L’associazione a delinquere si caratterizza per tre elementi fondamentali: a) un vincolo associativo, tendenzialmente permanente, o comunque stabile, destinato a durare anche oltre la realizzazione dei delitti concretamente programmati; b) una struttura organizzativa idonea a realizzare gli obiettivi criminosi presi di mira; c) l’indeterminatezza del programma criminoso. Va precisato che i requisiti della stabilità del vincolo associativo e dell’indeterminatezza del programma criminoso possono essere legittimamente desunti dal susseguirsi ininterrotto, per un apprezzabile lasso di tempo, delle condotte integranti i reati-fine ad opera di soggetti stabilmente collegati; nel contempo il vincolo associativo non deve presentare carattere di assoluta stabilità, essendo sufficiente che esso non sia programmaticamente circoscritto alla consumazione di uno o più delitti predeterminati, sicché il rapporto di interazione criminosa può essere limitato anche ad un breve periodo di tempo. Il discrimine tra partecipazione al reato associativo e concorso di persone nel reato continuato va individuato nella natura dell’accordo criminoso, che nel secondo caso si manifesta in via occasionale e temporanea, per quanto funzionale a realizzare la commissione di più reati determinati, commessi i quali le singole volontà non convergono più verso uno scopo unitario; nella partecipazione al reato associativo, invece, l’accordo criminoso persegue il fine di realizzare un più vasto programma di azioni antigiuridiche indeterminate da compiere nell’indistinto futuro e con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, ciascuno dei quali vuole, e tale è considerato dagli altri, essere associato per dare esecuzione al progetto condiviso. In definitiva, è proprio il diverso livello qualitativo dell’accordo tra i soggetti che consente di differenziare i due istituti, entrambi caratterizzati da un collegamento nelle volontà e nelle azioni degli autori del reato, che dà luogo, nel concorso di persone nel reato, ad un’unione occasionale in vista del perseguimento di uno scopo specifico, nel delitto associativo ad un vincolo stabile e duraturo nella comune consapevolezza della sua permanenza anche a prescindere dagli esiti delle iniziative criminose progettate o in corso. Va ribadito, inoltre, che è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato-mezzo rispetto ai reati-fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto - che attraverso gli stessi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (Sez. 2, 3492/2019).

…Dimensioni dell’associazione

Nello schema normativo previsto dall’art. 416-bis non rientrano solo grandi associazioni di mafia ad alto numero di appartenenti ma anche piccole mafie con un basso numero di appartenenti, non necessariamente armate, che assoggettano un determinato territorio o un determinato settore di attività avvalendosi, però, del metodo dell’intimidazione da cui derivano assoggettamento ed omertà. Esistono peraltro anche piccole mafie che pure possono essere riportate al modello di stampo mafioso solo per la metodologia che adottano (Sez. 2, 36111/2017).

…Scopi e interessi personali degli associati

Non costituisce di per sé ostacolo per la costituzione del vincolo associativo e la realizzazione del fine comune, la diversità degli scopi personali e degli interessi economici perseguiti dai singoli partecipi (Sez. 2, 52005/2016).

…Elemento psicologico

Il dolo del delitto di associazione a delinquere, che è integrato dalla coscienza e volontà di partecipare attivamente alla realizzazione del programma delinquenziale in modo stabile e permanente, può desumersi in modo fortemente indiziante dalla stessa realizzazione dell’attività delittuosa in termini conformi al piano associativo. Si può risalire al dolo nel caso in cui, attraverso le modalità esecutive e altri elementi di prova, possa risalirsi all’esistenza del vincolo associativo e quando la pluralità delle condotte dimostri l’esistenza di rapporti con alcuni degli associati (in questo senso, la mancata conoscenza tra tutti i diversi partecipanti è elemento circostanziale che non assume alcuna rilevanza in ordine alla sussistenza dell’organizzazione criminale) (Sez. 6, 12538/2019).

…Costituzione di un nuovo organismo mafioso

In tema di associazione di tipo mafioso, la costituzione di una nuova organizzazione, alternativa ed autonoma rispetto ai gruppi storici, può essere desunta da indicatori fattuali come le modalità con cui sono commessi i delitti-scopo, la disponibilità di armi e il conflitto con le tradizionali associazioni operanti sul territorio, purché detti indici denotino la sussistenza delle caratteristiche di stabilità e di organizzazione che dimostrano la reale capacità di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di omertà e di assoggettamento che ne deriva (fattispecie nella quale la Corte ha annullato con rinvio l’ordinanza che ha escluso l’esistenza della gravità indiziaria del reato di cui all’art. 416-bis. con riferimento ad una nuova formazione delinquenziale in difetto dell’accertamento che essa si sia proposta sul territorio ingenerando il clima di generale soggezione che ne giustifica la qualificazione mafiosa (Sez. 6, 27094/2017).

Qualifica di capi, dirigenti e organizzatori

Il ruolo direttivo e la funzione di capo di cui all'art. 416-bis co. 2 vanno riconosciuti solo a chi risulti al vertice di una entità criminale autonoma, sia essa famiglia, cosca o "clan", dotata di propri membri e regole, mentre il ruolo di organizzatore solo a chi sia posto a capo di un settore delle attività illecite del gruppo criminale con poteri decisionali e deliberativi autonomi ed è sempre necessaria la verifica dell'effettivo esercizio del ruolo di vertice che lo renda riconoscibile, sia pure sotto l'aspetto sintomatico, sia all'esterno, che nell'ambito del sodalizio, realizzando un effettivo risultato di assoggettamento interno (Dopo aver richiamato i principi in materia di associazione mafiosa, la Corte ha ulteriormente precisato che ciò che conta, quindi, indipendentemente da enunciazioni d'intenti, di generici riconoscimenti di ruoli decisivi e, a maggior ragione, di qualsivoglia forma di autopromozione e vanteria, è che le posizioni dirigenziali ed i ruoli apicali risultino in concreto esercitati, riconoscibili e riconosciuti nell'ambito del sodalizio oltre che, se espletati a livello locale, dalle strutture gerarchicamente sovraordinate) (Sez. 1, 8413/2022).

Ai fini dell’attribuzione della qualifica di capo, è necessaria la verifica dell’effettivo esercizio del ruolo di vertice che lo renda riconoscibile, sia pure sotto l’aspetto sintomatico, sia all’esterno, che nell’ambito del sodalizio, realizzando un effettivo risultato di assoggettamento interno (Sez. 6, 40530/2017).

Quanto al tema del ruolo direttivo/organizzativo, sul piano del diritto sostanziale trattasi pacificamente di titolo autonomo di reato la cui riconoscibilità va operata in concreto (anche mediante indizi purché connotati da gravità precisione e concordanza) sulla base di un riconoscibile esercizio di poteri decisionali, pur se esercitati in una articolazione territoriale minore o in un settore specifico di interesse. La ricostruzione del ruolo può infatti avvenire sia in via diretta  mediante la ricostruzione di uno o più episodi specifici espressivi del medesimo , che in via logica, mediante l’apprezzamento di segmenti della istruttoria che possiedano obiettiva valenza indicativa dell’avvenuto esercizio del medesimo (Sez. 1, 452/2019).

Ai fini della configurabilità del reato di promozione, di reggenza od organizzazione del gruppo criminale, è necessario che un ruolo apicale o una posizione dirigenziale, risultino in concreto esercitati (Sez. 1, 3137/2015).

…Nozione di partecipazione

Quesito alle Sezioni unite penali: “Se la mera affiliazione da una associazione a delinquere di stampo mafioso cd. storica, nella specie ‘Ndrangheta’, effettuata secondo il rituale previsto dalla associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato dalla norma previsto" (Sez. 1, 5071/2021).

Le Sezioni unite, con la sentenza  36958/2021, hanno così risposto: "La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione".

In tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, la condotta di partecipazione deve essere provata con puntuale riferimento al periodo temporale considerato dall'imputazione, sicché l'esistenza di una sentenza di condanna passata in giudicato per lo stesso delitto in relazione ad un precedente periodo può rilevare solo quale elemento significativo di un più ampio compendio probatorio, da valutarsi nel nuovo procedimento unitamente ad altri elementi di prova dimostrativi della permanenza all'interno della associazione criminale (Sez. 5, 27980/2021).

Nel caso di procedimento per il delitto di cui all’art. 416-bis, al fine di escludere la medesimezza del fatto, non rilevano né, dal punto di vista del soggetto partecipe, eventuali mutamenti nelle modalità di partecipazione (attività e ruoli), né, dal punto di vista dell’organizzazione criminale, eventuali mutamenti in ordine ai suoi equilibri interni in relazione al numero dei componenti, ma è necessario accertare o che le condotte sono successive all’archiviazione o che il soggetto sia passato ad una diversa organizzazione criminale ovvero che si sia verificata una successione nelle attività criminali tra organismi diversi, sia pure con lo stesso nome ed operanti nello stesso territorio (Sez. 5, 32767/2021).

Ai fini della configurabilità della condotta di partecipazione ad associazione mafiosa non è sufficiente la collaborazione episodica ad attività che agevolino il conseguimento dei fini dell’associazione di tipo mafioso, richiedendosi, invece, un’attività di carattere continuativo idonea a fornire un contributo causale e volontario alla realizzazione dei fini del sodalizio criminale, nonché alla sua conservazione e rafforzamento (Sez. 5, 37664/2020).

Il partecipe di un’organizzazione mafiosa deve essere definito, in senso dinamico e funzionale, come colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma anche “fa parte” della stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima (Sez. 1, 16233/2020).

La nozione di “partecipazione” ha una valenza dinamico-funzionalistica, che non solo implica un organico e stabile inserimento nella struttura organizzativa dell’associazione, ma comporta anche, all’interno di essa, l’assunzione di un ruolo effettivo e, in attuazione dei vincoli assunti, l’adempimento dei compiti funzionali al raggiungimento degli scopi perseguiti dal sodalizio e la disponibilità per le attività organizzate dal medesimo. Ne consegue che, sul piano della dimensione probatoria della partecipazione, rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio (SU, 33748/2005).

Non bisogna trascurare il carattere speciale del reato di cui all’art. 416-bis, su cui concordano dottrina e giurisprudenza, evidenziando come esso si caratterizzi, sotto il profilo attivo, per l’utilizzazione da parte degli associati dell’intimidazione nascente dal vincolo associativo; sotto il profilo passivo, per la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva. La tipicità della fattispecie di cui all’art. 416-bis, si coglie, dunque, non tanto negli scopi (pure essenziali per l’esistenza dei reato) avuti di mira dai consociati che, come appare evidente dalla formulazione letterale dell’art. 416- bis, terzo comma, possono essere rappresentati, a differenza di quanto previsto dall’art. 416, anche da eventi diversi dalla commissione di delitti e, in ipotesi, anche leciti, inseriti, tuttavia, nell’orbita dell’illecito penale proprio in conseguenza delle modalità «mafiose» con cui vengono realizzati, ma, per l’appunto, nelle modalità attraverso cui l’associazione decide di manifestarsi e si manifesta concretamente: l’intimidazione ed il conseguente insorgere nei terzi di quella situazione di soggezione, che può derivare anche soltanto dalla conoscenza della pericolosità del sodalizio di stampo mafioso. Se, dunque, l’elemento tipizzante del delitto di cui all’art. 416-bis si presenta nei termini ora indicati, può a ragione affermarsi che, ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso, non è necessario che ciascuno dei membri del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi della condotta criminosa programmata, perché il contributo del partecipe può essere costituito anche dalla sola dichiarata adesione all’associazione da parte di un singolo, il quale presti la propria disponibilità ad agire, ad esempio, quale «uomo d’onore». La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, precisato che la qualità di «uomo d’onore» non è significativa di una adesione morale meramente passiva ed improduttiva di effetti al sodalizio mafioso, ma presuppone la permanente ed incondizionata offerta di contributo, anche materiale, in favore di esso, con messa a disposizione di ogni energia e risorsa personale per qualsiasi impiego criminale richiesto; l’obbligo così assunto rafforza il proposito criminoso degli altri associati ed accresce le potenzialità operative e la complessiva capacità di intimidazione ed infiltrazione nel tessuto sociale del sodalizio (Sez. 2, 23687/2012). Tale arresto, peraltro, non rappresenta una voce isolata, ma si pone, piuttosto, in assoluta continuità con una serie di precedenti statuizioni in cui, partendo dalla tradizionale nozione della partecipazione all’associazione a delinquere come condotta a forma libera, nel senso che qualunque azione, purché dotata di efficacia causale rispetto all’evento tipico, è costitutiva della materialità del fatto, si sottolinea come la partecipazione ad un sodalizio criminoso di stampo mafioso possa configurarsi attraverso una molteplicità di contributi, che, al tempo stesso, costituiscono, sul piano probatorio, altrettanti indici rivelatori dell’esistenza del vincolo associativo, tutti contrassegnati proprio dalla intervenuta «messa a disposizione» del singolo a favore dell’associazione a delinquere. Si è, così, affermato che la condotta di partecipazione ad un’associazione per delinquere, per essere punibile, non può esaurirsi in una manifestazione positiva di volontà del singolo di aderire alla associazione che si sia già formata, occorrendo invece la prestazione, da parte dello stesso, di un effettivo contributo, che può essere anche minimo e di qualsiasi forma e contenuto, purché destinato a fornire efficacia al mantenimento in vita della struttura o al perseguimento degli scopi di essa. Nel caso dell’associazione di tipo mafioso, differenziandosi questa dalla comune associazione per delinquere per la sua peculiare forza di intimidazione, derivante dai metodi usati e dalla capacità di sopraffazione, a sua volta scaturente dal legame che unisce gli associati (ai quali si richiede di prestare, quando necessario, concreta attività diretta a piegare la volontà dei terzi che vengano a trovarsi in contatto con l’associazione e che ad essa eventualmente resistano), il detto contributo può essere costituito anche dalla dichiarata adesione all’associazione da parte del singolo, il quale presti la sua disponibilità ad agire come «uomo d’onore», ai fini anzidetti. In tema di associazione di stampo mafioso, dunque, la permanente «disponibilità» al servizio dell’organizzazione mafiosa a porre in essere attività delittuose, anche se di bassa manovalanza, ma pur sempre necessarie per il perseguimento dei fini dell’organizzazione, indipendentemente dalla prova di una formale iniziazione, rappresenta univoco sintomo di inserimento strutturale nella compagine associativa e, quindi, di vera e propria partecipazione, ad un livello pur minimale, al sodalizio delinquenziale, mentre la «legalizzazione» con la qualifica di «uomo d’onore» costituisce uno stadio più evoluto nella progressione carrieristica del mafioso nell’organigramma piramidale del sodalizio. Ciò appare assolutamente conforme ai principi affermati in materia dalla nota sentenza Mannino delle Sezioni unite, che, evidenziando la natura «dinamica» del contributo che il singolo sodale deve apportare alla compagine associativa perché esso possa essere definito in termini di «partecipazione» ai sensi dell’art. 416-bis, ne individua l’essenza proprio nella «messa a disposizione» del singolo in favore del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Rileva, infatti, il Supremo collegio nella sua massima espressione che in tema di associazione di tipo mafioso, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trovi in rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare, più che uno «status» di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato «prende parte» al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. Precisa, inoltre, la Corte, nel corpo della motivazione, che la partecipazione può essere desunta da indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi la appartenenza nel senso indicato, purché si tratti di indizi gravi e precisi  tra i quali, esemplificando, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di «osservazione» e «prova» l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di «uomo d’onore» la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, e però significativi fatti concludenti , idonei senza alcun automatismo probatorio a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo (Sez. 1, 452/2019).

In tema di associazione di tipo mafioso, la mera “contiguità compiacente”, così come la “vicinanza” o “disponibilità” nei riguardi di singoli esponenti, anche di spicco, del sodalizio, non costituiscono comportamenti sufficienti ad integrare la condotta di partecipazione all’organizzazione, ove non sia dimostrato che l’asserita vicinanza a soggetti mafiosi si sia tradotta in un vero e proprio contributo avente effettiva rilevanza causale, ai fini della conservazione o del rafforzamento della consorteria (Sez. 6, 29346/2019).

Il reato di partecipazione ad associazione mafiosa è di natura permanente ma ciascun atto di partecipazione è da solo sufficiente ad integrarlo, sicché i fatti rilevanti ai sensi dell’art. 416-bis sono plurimi (Sez. 2, 9671/2019).

Ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad un’associazione mafiosa, l’affiliazione rituale può non essere sufficiente qualora alla stessa non si correlino concreti indici fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto con ruolo attivo nel sodalizio (Sez. 5, 38786/2017).

Nella ricostruzione delle necessariamente molteplici manifestazioni nelle quali si può esplicare la partecipazione mafiosa, la giurisprudenza di legittimità ha fatto, tra l’altro, rientrare anche il concetto di permanente “disponibilità” al servizio dell’organizzazione, al fine di porre in essere attività delittuose, anche di bassa manovalanza, giungendo a ritenere come non sia necessario catalogare in un ruolo stabile e predefinito la condotta del singolo associato, poiché il sodalizio mafioso è una realtà dinamica, che si adegua continuamente alle modificazioni del corpo sociale ed all’evoluzione dei rapporti interni tra gli aderenti, sicché le forme di “partecipazione” possono essere le più diverse e, addirittura, assumere caratteri coincidenti con normali esplicazioni di vita quotidiana o lavorativa, conferendo, ad esempio, rilievo alle “frequentazioni” stabili con mafiosi, in presenza di determinate condizioni di riscontro. Si è anche specificato che l’investitura formale o la commissione di reati-fine, funzionali agli interessi dalla stessa perseguiti, non sono essenziali, in quanto ciò che rileva, ai fini della condotta di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso, è la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del sodalizio, da valutarsi alla stregua. di una lettura non atomistica, ma unitaria, degli elementi rivelatori di un suo ruolo dinamico all’interno dello stesso, in cui è stato ritenuto che detto ruolo potesse evincersi, sulla base di una valutazione complessiva delle risultanze fattuali, in relazione ad un indagato che, pur non raggiunto da indizi circa la sottoposizione a rituale affiliazione e la commissione di specifici reati-fine, godeva della possibilità di confrontarsi direttamente con soggetti di comprovata “mafiosità”, frequentava il “luogo di appuntamenti” dei sodali ed intratteneva con i medesimi movimentazioni di denaro) (Sez. 5, 15045/2019).

Ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, non è necessario che il membro del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi del programma criminoso, essendo sufficiente che lo stesso assuma o gli venga riconosciuto il ruolo di componente del sodalizio e aderisca consapevolmente al programma criminoso, accrescendo per ciò solo la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’associazione (Sez. 2, 56088/2017).

In tema di associazione di stampo mafioso, la permanente disponibilità al servizio dell’organizzazione a porre in essere attività delittuose, anche di bassa manovalanza,  ma pur sempre necessarie per il perseguimento dei fini dell’organizzazione - rappresenta univoco sintomo - indipendentemente dalla prova di una formale iniziazione  di inserimento strutturale nel sodalizio e, quindi, di vera e propria partecipazione, seppur ad un livello minimale, all’associazione, mentre, invece, la “legalizzazione” e la conseguente qualifica di “uomo d’onore” costituisce uno stadio più evoluto nella progressione carrieristica del mafioso nell’organigramma piramidale criminoso (Sez. 5, 48676/2014).

In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, il sopravvenuto stato detentivo del soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della sua partecipazione al sodalizio, atteso che la relativa struttura  caratterizzata da complessità, forti legami tra gli aderenti e notevole spessore dei progetti delinquenziali a lungo termine  accetta il rischio di periodi di detenzione degli aderenti, soprattutto in ruoli apicali, alla stregua di eventualità che, da un lato, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non ne impediscono totalmente la partecipazione alle vicende del gruppo ed alla programmazione delle sue attività e, dall’altro, non ne fanno venir meno la disponibilità a riassumere un ruolo attivo alla cessazione del forzato impedimento (Sez. 2, 8461/2017).

La presunzione semplice della stabilità del vincolo associativo mafioso in caso di detenzione dell’associato si basa su un ragionamento logico che, prendendo le mosse dalle caratteristiche della struttura associativa  caratterizzata da complessità, forti legami tra gli aderenti e notevole spessore dei progetti delinquenziali a lungo termine , conduce a ritenere ragionevole l’accettazione del rischio da parte dell’associato di poter subire periodi di detenzione, con conseguente sostanziale irrilevanza di detta condizione quando, però, attraverso contatti possibili anche in pendenza di detenzione, non ne sia impedita la partecipazione alle vicende del gruppo e alla programmazione delle sue attività, sicché è, del pari, ragionevole attendersi che sussista la concreta possibilità che l’associato riassuma un ruolo attivo alla cessazione del forzato impedimento (Sez. 2, 8461/2017).

Per medesimo fatto deve intendersi ciò che risulta dai suoi elementi costitutivi e cioè da condotta, evento e nesso di causalità. Nel caso di procedimenti per delitti associativi, al fine di escludere la medesimezza del fatto non rilevano né, dal punto di vista del soggetto, eventuali mutamenti nelle modalità di partecipazione (attività e ruoli), né dal punto di vista dell’organizzazione, eventuali mutamenti in ordine all’ampiezza dell’oggetto del programma criminoso o in relazione al numero dei componenti; occorre accertare, invece, con giudizio di fatto riservato al giudice di merito, se il soggetto sia passato ad una diversa organizzazione criminale ovvero si sia verificata una successione nelle attività criminali tra organismi diversi, sia pure con lo stesso nome ed operanti nello stesso territorio (Sez. 1, 2260/2014).

Concorso esterno in associazione mafiosa

…Fatti contestati prima della stabilizzazione giurisprudenziale della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa

Quesito posto alle Sezioni unite: "se la sentenza della Corte EDU del 14 aprile 2015 sul caso Contrada abbia una portata generale, estensibile nei confronti di coloro che, estranei a quel giudizio, si trovino nella medesima posizione, quanto alla prevedibilità della condanna; e, conseguentemente, laddove sia necessario conformarsi alla predetta sentenza nei confronti di questi ultimi, quale sia il rimedio applicabile" (Sez. 6, 21767/2019).

A tale quesito le Sezioni unite hanno dato soluzione negativa poiché "la sentenza della Corte EDU del 14/4/2015 Contrada c. Italia non è una “sentenza pilota” e non può considerarsi espressione di una giurisprudenza europea consolidata" (SU, 5844/2020).

L’invocazione dei principi enunciati dalla Corte EDU nel caso Contrada c. Italia, nella decisione pronunciata il 14/04/2015, non può prescindere dall’applicazione che di tali principi ha fatto questa Corte nel procedimento di esecuzione attivato dallo stesso C., a conclusione del quale veniva dichiarata «ineseguibile e improduttiva di effetti penali la sentenza emessa nei confronti di Contrada dalla Corte di appello di Palermo in data 25/02/2006, irrevocabile il 10/05/2007» (Sez. 1, 43112/2017). Occorre, al contempo, ribadire i principi affermati da Sez. 1, 44193/2016, nella quale si affermava il seguente principio di diritto: «Lo strumento per adeguare l’ordinamento interno ad una decisione definitiva della Corte EDU va individuato, in via principale, nella revisione introdotta dalla sentenza additiva della Corte costituzionale 113/2011, applicabile sia nelle ipotesi di vizi procedurali rilevanti ex art. 6 della Convenzione EDU, sia in quelle di violazione dell’art. 7 della stessa Convenzione che non implichino un vizio assoluto di responsabilità (per l’assenza di una norma incriminatrice al momento del fatto), ma solo un difetto di prevedibilità della sanzione  ferma restando la responsabilità penale  o che comunque lascino aperte più soluzioni del caso; lo strumento dell’incidente di esecuzione, invece, può essere utilizzato solo quando l’intervento di rimozione o modifica del giudicato sia privo di contenuto discrezionale, risolvendosi nell’applicazione di altro e ben identificato precetto senza necessità della previa declaratoria di illegittimità costituzionale di alcuna norma, fermo restando che, qualora l’incidente di esecuzione sia promosso per estendere gli effetti favorevoli della sentenza della Corte EDU ad un soggetto diverso da quello che l’aveva adita, è necessario anche che la predetta decisione (pur non adottata nelle forme della “sentenza pilota”) abbia una obiettiva ed effettiva portata generale, e che la posizione dell’istante sia identica a quella del caso deciso dalla Corte di Strasburgo». Tanto premesso, occorre anzitutto evidenziare che il dato ermeneutico da cui partire è quello dell’efficacia immediatamente precettiva delle norme della CEDU, pur non potendo riconoscersi alle stesse rilievo costituzionale (Sez. 1, 2800/2007). Si consideri che l’efficacia precettiva delle norme della Convenzione EDU è assicurata dall’art. 19 dello stesso testo convenzionale che prevede l’istituzione della Corte EDU per «assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla presente Convenzione e dai suoi Protocolli». In tale ambito, si inserisce l’art. 46 CEDU, nel cui primo paragrafo si prevede che le «Alte Parti contraenti s’impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte nelle controversie nelle quali sono Parti». L’art. 46, inoltre, stabilisce, nel suo secondo paragrafo, che «la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione». L’obbligo di conformazione alle decisioni della Corte EDU, infine, è ribadito dal terzo paragrafo dell’art. 46 CEDU, a tenore del quale se «il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell’esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà di interpretazione di tale sentenza, esso può adire la Corte affinché questa si pronunci su tale questione di interpretazione [...]». L’obbligo previsto dall’art. 46 CEDU, dunque, non può essere messo in discussione. In questa cornice ermeneutica, la questione topica affrontata nella sentenza di cui si discute (Sez. 1, 43112/2017) riguardava la verifica dell’osservanza da parte del giudice dell’esecuzione dell’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, che non si riteneva rispettato nel caso di specie. Quanto agli strumenti processuali con cui dare esecuzione all’obbligo di conformazione previsto dall’art. 46 CEDU, il giudice di legittimità, richiamando la giurisprudenza consolidata delle Sezioni unite (SU, 42858/2014), li individuava negli ampi poteri di intervento sul giudicato penale, che venivano riconosciuti al giudice dell’esecuzione dagli artt. 666 e 670 CPP. Si evidenziava, in proposito, che l’ampiezza degli ambiti di intervento della giurisdizione esecutiva trovava il proprio fondamento nei poteri di cui agli artt. 666 e 670 CPP, che erano stati riconosciuti dalla Corte costituzionale (Corte costituzionale, 210/2013), secondo cui il giudice dell’esecuzione «non si limita a conoscere delle questioni sulla validità e sull’efficacia del titolo esecutivo ma è anche abilitato, in vari casi, ad incidere su di esso». Occorre, a questo punto, verificare se, sulla base dei principi enunciati nell’arresto giurisprudenziale che si è richiamato (Sez. 1, 43112/2017), definitivamente consolidatosi (Sez. 1, 36509/2018; Sez. 1, 8661/2018), sia possibile estendere le conclusioni formulate dalla Corte EDU nella decisione del 14/02/2015 ad altri procedimenti riguardanti soggetti non coinvolti da tale pronuncia. A tale quesito, deve fornirsi risposta negativa. Si consideri che la previsione dell’art. 46 CEDU ha una portata precettiva limitatamente allo specifico caso coinvolto dalla pronuncia in esame e a differenza dei casi analoghi; efficacia precettiva rispetto alla quale doveva escludersi l’esistenza di margini di discrezionalità in capo al giudice nazionale, fatta salva l’eventuale ricorrenza di controlimiti, insussistenti nel caso in esame, alla stregua dei principi affermati dalla Corte costituzionale (Corte costituzionale, 348/2007). Si affermava conseguentemente che «la previsione dell’art. 46 CEDU, nelle ipotesi di violazioni delle norme del testo convenzionale, impone al giudice nazionale, limitatamente al caso di cui si controverte, di conformarsi alle sentenze definitive della Corte EDU, i cui effetti si estendono sia allo Stato sia alle altre parti coinvolte dalla decisione che tale violazione ha censurato (Sez. 1, 43112/2017). Queste conclusioni impongono di affermare, in linea con quanto affermato nell’orientamento ermeneutico in esame che i principi affermati nella decisione della Corte EDU del 14/02/2015, nel procedimento Contrada c. Italia non possono essere esportati al di fuori della vicenda processuale coinvolta da tale decisione. Non è, al contempo, possibile ipotizzare l’applicazione dei principi affermati dalla Corte EDU nel medesimo caso sul piano della configurazione del concorso esterno in associazione mafiosa, al di fuori degli obblighi di conformazione imposti dall’art. 46 CEDU. Per risolvere tale questione occorre muovere dalla natura di fattispecie di “creazione giurisprudenziale” del concorso esterno in associazione mafiosa, affermata dalla Corte EDU nel paragrafo 57 della decisione in discorso, in cui si evidenziava che «il concorso esterno in associazione di tipo mafioso è una creazione della giurisprudenza avviata in decisioni che risalgono alla fine degli anni ottanta, ossia posteriore ai fatti per i quali il ricorrente è stato condannato e che si è consolidata con la sentenza della Corte di cassazione Demitry». Osserva il Collegio che, fermi restando gli obblighi di conformazione previsti dall’art. 46 CEDU, l’affermazione della Corte EDU si pone in termini problematici rispetto al modello di legalità formale al quale è ispirato il nostro sistema penale, in cui non solo non è ammissibile alcun reato di “creazione giurisprudenziale”, ma la punibilità delle condotte illecite trova il suo fondamento nei principi di legalità e di tassatività. Tali profili di problematicità appaiono ulteriormente accentuati dal fatto che il modello di punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa prefigurato dalle Sezioni unite (SU, 33478/2005, Mannino), più volte richiamato dalla Corte EDU, non consente alcun equivoco interpretativo sulle ragioni che legittimano nel nostro ordinamento l’applicazione dell’istituto concorsuale. Si consideri che nella predetta sentenza Mannino le Sezioni unite  non hanno dato vita a una nuova fattispecie incriminatrice, ma si sono limitate a fornire una ricostruzione sistematica armonica con il nostro ordinamento, ribadendo che la responsabilità penale per il contributo fornito dal concorrente esterno a un’associazione mafiosa trae origine dalla sua consapevolezza di contribuire con il suo apporto a un’attività illecita svolta in forma associata, di cui il soggetto attivo del reato conosce gli obiettivi generali e la struttura consortile, pur senza aderirvi. Ne consegue che, attraverso la clausola prevista dell’art. 110, si attribuisce alle fattispecie associative una responsabilità di carattere generale per l’apporto concorsuale che l’agente fornisce al gruppo criminale, senza esserne affiliato e nella consapevolezza di tale estraneità (Sez. 2, 34147/2015; Sez. 5, 2653/2016). Ne discende che, ferma restando l’assenza di discrezionalità del giudice dell’esecuzione nel conformarsi alle decisioni della Corte EDU imposta dalla previsione dell’art. 46 CEDU, tali richiami non risultano esportabili nell’ordinamento italiano, il quale non contempla la possibilità di fattispecie di “creazione giurisprudenziale”. A conferma di quanto si sta affermando, si ritiene utile richiamare il passaggio della decisione di legittimità esaminata nel paragrafo 4, in cui si affermava che «il nostro ordinamento non conosce la creazione di matrice giurisprudenziale di fattispecie incriminatrici» (Sez. 1, 43112/2017) (ricostruzione sistematica dovuta a Sez. 1, 37/2019).

…Caratteristiche strutturali del concorso esterno

Le pronunzie intervenute nel corso del tempo da parte delle Sezioni unite (negli anni 1994, 2002 e 2005) hanno ormai radicato, sia pure con differenti accentuazioni di alcuni profili, il dato giuridico della ammissibilità del concorso ex art. 110 anche in riferimento alla fattispecie plurisoggettiva di associazione, nel senso che assume la qualità di concorrente «esterno» nel reato di associazione di stampo mafioso la persona che  priva dell’affectio societatis e non essendo inserita nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, purché questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima (SU, 22327/2003). A ben vedere, la rilevanza e la stessa verificabilità processuale delle condotte di concorso esterno è da sempre strettamente correlata – tanto sul piano teorico che su quello ricostruttivo – alla esatta perimetrazione delle condotte di partecipazione, nel senso che lì dove l’elemento di prova si risolva in un rassicurante «indicatore» dell’avvenuto inserimento del soggetto, con carattere di tendenziale stabilità e assunzione di un ruolo, nella compagine associativa si avrà la partecipazione, mentre il concorso esterno è necessariamente ancorato ad un modello «causalmente orientato» e presuppone da un lato la presa d’atto del non/inserimento del soggetto nel gruppo, dall’altro la ricostruzione di una condotta capace di realizzare un incremento tangibile del macro-evento rappresentato dalla esistenza e permanenza della associazione (le modalità alternative di ricostruzione delle due diverse ipotesi delittuose sono state di recente evidenziate con particolare chiarezza da Sez. 6, 16958/2014, nonché da Sez. 6, 8674/2014). Si tratta dunque di una condotta, quella del concorrente, che per essere punibile deve essere alimentata dal dolo (diretto ma generico) inteso come previa rappresentazione e accettazione del nesso funzionale tra la propria azione e il raggiungimento (anche parziale) degli scopi della associazione (tra le molte, Sez. 5, 15727/2012, ove si è precisato che il rafforzamento del sodalizio può non essere l’unico o il primario obiettivo perseguito dall’agente, potendo concorrere con uno scopo individuale, ma deve essere previsto, accettato e perseguito come risultato quantomeno «altamente probabile» della propria condotta). Se, infatti, l’evento (in senso giuridico e materiale) che la norma incriminatrice di cui all’art.416-bis tende a reprimere è l’esistenza ed operatività concreta di un «consorzio umano organizzato» (l’associazione mafiosa) avente determinate caratteristiche tipiche (sul piano degli scopi e delle modalità utilizzate per conseguirli) è pacifico che rispetto a tale dato fenomenico debbano assumere rilievo penalistico non soltanto le condotte direttamente espressive di «intraneità» (in quanto dimostrative della connaturale ripartizione di compiti, attribuiti agli associati in senso stretto), ma altresì tutte quelle condotte che, pur poste in essere da soggetti «esterni», contribuiscano in modo oggettivamente rilevante (e soggettivamente consapevole) alla realizzazione o al permanere dell’evento in questione. Il tratto di maggiore problematicità teorica e ricostruttiva – nelle decisioni che hanno affrontato il tema – consiste nel criterio di apprezzamento della idoneità causale (della condotta posta in essere dal preteso concorrente esterno) in rapporto alla integrazione o meno dell’evento. La connotazione innovativa della decisione emessa dalle Sezioni unite in data 12.7.2005 (ric. Mannino) sta infatti, come è noto, nella necessità di un apprezzamento concreto di tale aspetto (ovviamente anche sulla base di un rassicurante ragionamento indiziario) con verifica processuale che tende a spostarsi dalla «prospettazione dell’agente» (valutazione ex ante) alla constatazione ex post della «efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente» (parla espressamente di accertamento postumo di ogni inferenza o incidenza della condotta nella vita e nella operatività del sodalizio criminoso Sez. 6, 542/2007, relativa al caso Contrada). Ora, tale sottolineatura è figlia di una condivisibile impostazione teorica  realizzata nella decisione Mannino del 2005  tesa a far rifluire nella costruzione dell’istituto i principi essenziali del concorso di persone nel reato, tra cui assume un indubbio rilievo la previsione normativa di cui all’art. 115 secondo cui non risulta punibile il mero «tentativo di concorso» ossia il semplice accordo per commettere un reato o l’istigazione accolta, ma non seguita dalla commissione del reato. Da qui la necessità di un criterio oggettivo idoneo al rafforzamento della tipicità (l’efficacia causale del contributo per la realizzazione del «medesimo reato», così da poter affasciare la condotta del concorrente esterno con quella degli associati in rapporto al permanere della lesione del bene protetto, sub specie integrità dell’ordine pubblico) e la richiesta direzione del dolo, correlata alla funzionalità della condotta rispetto al perseguimento (in una con il fine individuale, che sempre muove i comportamenti umani) di almeno una delle finalità descritte dalla norma incriminatrice. Se dunque l’evento del reato di associazione mafiosa è identificabile nella conservazione o nel rafforzamento dell’organismo criminoso e se l’adesione al modello causalmente orientato impone di individuare, nei casi in rilievo, un effettivo «raggiungimento dello scopo», è evidente che la ricostruzione processuale dell’evento deve porsi in stretta correlazione con il perseguimento delle finalità tipiche del reato associativo di cui si discute e pertanto con il catalogo offerto dal comma 3 dell’art. 416-bis (commettere delitti che siano espressivi del metodo mafioso, acquisire la gestione o il controllo di attività economiche, concessioni, appalti o servizi pubblici, realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti per sé od altri etc.). Con ciò si vuole evidenziare che la condotta del concorrente esterno  per essere punibile  non deve tendere ad un incremento della semplice potenzialità operativa dell’organismo criminoso (altrimenti si rientra nel paradigma di punibilità del mero accordo, con ricadute percepibili solo in ambito psicologico, non sufficiente a realizzare l’evento descritto nella decisione Mannino), ma deve porsi come «frammento» (la realizzazione dello scopo è necessariamente parziale e frammentaria) di una concreta utilità per la realizzazione di una delle molteplici attività espressive del programma criminoso, così da realizzare una contribuzione «percepibile» al mantenimento in vita dell’organismo criminale. Vi sono infatti compiti che – per le loro caratteristiche – richiedono, in realtà, il loro affidamento (anche continuativo) proprio a soggetti non associati, posto che per il raggiungimento degli scopi tipici del sodalizio mafioso – così come per garantirne la stessa esistenza – è necessaria una costante «interazione» tra il gruppo criminoso e persone disposte a realizzare – per finalità personali concorrenti – attività strumentali che vanno dalla realizzazione di lavori pubblici in modo solo apparentemente lecito (ma in realtà strumentale anche agli interessi del sodalizio, cui viene restituita una parte dell’utile di impresa) alla protezione della latitanza degli esponenti di rilievo del sodalizio, al reinvestimento in attività ad oggetto lecito delle risorse accumulate, tanto per fare qualche esempio, in ciò accedendo alla realizzazione dell’offesa al bene giuridico protetto. La verifica della effettiva efficacia causale della condotta con giudizio ex post, una volta esclusa – per citare ancora la decisione Mannino – una impostazione di tipo meramente soggettivistico («..che, operando una sorta di conversione concettuale autorizzi il surrettizio e indiretto impiego della causalità psichica c.d. da “rafforzamento” dell’organizzazione criminale, per dissimulare in realtà l’assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato..») richiede indubbiamente l’esame e la ricostruzione  in sede di merito – delle ricadute fattuali della condotta oggetto di analisi, così da poter affermare che la condivisione, da parte del concorrente, delle finalità perseguite dal gruppo abbia comportato un concreto ausilio in una o più vicende specifiche, e così da poter affermare  con la dovuta certezza processuale – che quella condotta sia stata un ingrediente effettivo per la realizzazione di uno degli scopi tipici e dunque per il permanere dell’offesa al bene giuridico protetto (Sez. 1, 452/2019). Sotto il profilo tecnico-giuridico, la punibilità del concorso eventuale di persone nel reato nasce, nel rispetto del principio di legalità, sancito dall’art. 1 e dall’art. 25, comma 2, della Costituzione, dalla combinazione tra le singole norme penali incriminatrici speciali che tipizzano reati monosoggettivi, e l’art. 110, principio generale del concorso di persone applicabile a qualsiasi tipo di reato. Nel vigente ordinamento, il concorso di persone nel reato è concepito come una struttura unitaria, nella quale confluiscono tutte le condotte poste in essere dai concorrenti: proprio in virtù di detta unitarietà strutturale, l’evento del reato concorsuale deve essere considerato come effetto della condotta combinata di tutti i concorrenti, anche di quelli che hanno posto in essere atti privi dei requisiti di tipicità. In virtù dell’art. 110 (che ha, dunque, una funzione estensiva dell’ordinamento penale, portato a coprire fatti altrimenti non punibili, ove ciascun concorrente abbia posto in essere non l’intera condotta tipica, ma soltanto una frazione “atipica” di essa), possono, pertanto, assumere rilevanza penale tutte le condotte, anche se atipiche (ovvero singolarmente non integranti quella tipizzata dalla norma penale incriminatrice), poste in essere da soggetti diversi, che, se valutate complessivamente, siano risultate conformi alla condotta tipica descritta dalla norma incriminatrice, ed abbiano contribuito causalmente alla produzione dell’evento lesivo da essa menzionato. Come per ogni altra ipotesi di reato concorsuale, quindi, anche il c.d. “concorso esterno” nei reati associativi (il problema non si pone, infatti, per il solo reato di cui all’art. 416-bis) trova la sua giustificazione normativa nella combinazione tra la norma penale incriminatrice (nella specie, l’art. 416-bis) e la disposizione generale di cui all’art. 110, ed è caratterizzato dalle diverse modalità concrete in cui la fattispecie è suscettibile di manifestarsi. D’altro canto, la stessa Corte costituzionale (sentenza 48/2015) ha recentissimamente ribadito che il “concorso esterno” non è, come postulato dalla Corte EDU nella sentenza Contrada, un reato di creazione giurisprudenziale, ma scaturisce «dalla combinazione tra la norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis. e la disposizione generale in tema di concorso eventuale nel reato di cui all’art. 110». In realtà, con riguardo alla configurabilità o meno del c.d. “concorso esterno” (od eventuale, ex art. 110) nei delitti associativi, e quindi, per quanto in questa sede più immediatamente rileva, nell’associazione per delinquere di tipo mafioso, il problema tradizionalmente discusso riguardava piuttosto la mera compatibilità dell’estensione ex art. 110 con le singole norme incriminatrici di volta in volta in questione (questo, e non altro, il contrasto devoluto per la prima volta all’esame delle Sezioni unite (SU, 16/1995) come si ricava dall’espressione che segue: «La sezione feriale, investita della questione, rilevata l’esistenza di un contrasto nella giurisprudenza, anche recentissima, di questa suprema corte sulla compatibilità del concorso eventuale con il reato associativo, con ordinanza in data 30 agosto 1994 rimetteva il ricorso alle sezioni unite»). Soltanto in riferimento a tale problema  ferma la matrice esclusivamente ed inequivocabilmente normativa dell’incriminazione, ove ritenuta, in difetto di ragioni di incompatibilità, ammissibile  è stato, pertanto, attribuito rilievo all’esegesi giurisprudenziale. La dottrina ha tradizionalmente evidenziato l’insussistenza di astratti ostacoli di tipo dogmatico alla configurabilità del concorso eventuale nelle fattispecie plurisoggettive necessarie, pur ammettendo la necessità di valutare se la struttura del singolo reato plurisoggettivo sia compatibile, in concreto, con il concorso eventuale. Il problema riguardava, in particolare, il solo concorso materiale, poiché non si era mai dubitato della configurabilità di quello morale. L’orientamento che ha negato la configurabilità del concorso esterno non afferma tout court la liceità penale delle condotte ad esso generalmente riconducibili, ma ritiene che queste ultime siano in ampia parte già qualificabili come vere e proprie condotte di partecipazione all’associazione. Si è, infatti, inizialmente sostenuto, che “potranno essere punibili come associati anche soggetti «esterni» all’associazione criminosa, purché autori di comportamenti che obiettivamente l’avvantaggiano e purché sia presente il relativo elemento soggettivo di partecipazione”; la stessa autorevole dottrina ha, solo in seguito, auspicato, per evitare eccessi di discrezionalità giurisprudenziale, «un intervento legislativo diretto a precisare, mediante la configurazione di una o più fattispecie incriminatrici di parte speciale, le forme di contiguità davvero intollerabili, e perciò meritevoli di repressione penale». Altra autorevole dottrina, premesso che la condotta di «partecipazione all’associazione» richiede: (a) la permanente messa a disposizione del proprio apporto e l’accettazione da parte dell’associazione, che non richiede forme espresse o addirittura rituali, ma può aver luogo anche per facta concludentia, ha evidenziato che, «così intesa la partecipazione all’associazione, appare chiaro che residua uno spazio per la valutazione di comportamenti che, per il loro carattere episodico, oppure perché provenienti da parte di soggetti non inseriti nell’associazione, non possono essere ricondotti al paradigma della partecipazione interna, ma che pure presentano un rilevante significato per la vita dell’associazione». Nel medesimo senso, con ineccepibile applicazione dei principi generali comunemente accolti (ma dei quali non sempre chi è intervenuto nel dibattito sulla configurabilità del concorso esterno ha tratto le inevitabili conseguenze dogmatiche), ulteriore autorevole dottrina ha anche osservato che il c.d. concorso esterno è sicuramente configurabile in presenza dei tre requisiti essenziali del concorso eventuale ex articolo 110, ovvero: “(a) l’atipicità della condotta concorsuale rispetto alla fattispecie associativa»; (b) «il contributo, morale o materiale, necessario o agevolatore, occasionale o continuativo, per la costituzione, conservazione o rafforzamento dell’associazione»; (c) «il dolo di concorso, per l’esistenza del quale non è necessario il dolo specifico di perseguire il programma criminoso, ma sufficiente la coscienza e volontà di contribuire alla costituzione, conservazione o rafforzamento dell’associazione, stante il principio della possibilità del concorso con dolo generico nel reato a dolo specifico, purché almeno un altro concorrente agisca con la finalità richiesta dalla norma incriminatrice”. La giurisprudenza è ormai ferma nell’ammettere la configurabilità del concorso esterno nei reati associativi, con riguardo alle condotte consapevolmente volte a vantaggio dell’associazione, ma poste in essere da soggetto che non è, e non vuole essere, organico ad essa. A tal fine, si richiede che il concorrente esterno: (a) sia privo della affectio societatis e non inserito nella struttura organizzativa del sodalizio (SU, 22327/2003); (b) fornisca, ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione, un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, dotato di un’effettiva rilevanza causale, e che quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative del sodalizio o, per le associazioni operanti su larga scala, di un suo particolare settore o ramo d’attività, o di una sua articolazione territoriale (SU, 22327/2003; SU, 33748/2005, per la quale, in particolare, l’efficienza causale in merito alla concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo costituisce elemento essenziale e tipizzante della condotta concorsuale, di natura materiale o morale, e non è sufficiente una valutazione ex ante del contributo, risolta in termini di mera probabilità di lesione del bene giuridico protetto, ma è necessario un suo apprezzamento ex post, in esito al quale sia dimostrata, alla stregua dei comuni canoni di «certezza processuale», l’elevata credibilità razionale dell’ipotesi formulata in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente); (c) si rappresenti, nella forma del dolo diretto, l’utilità del contributo fornito alla societas sceleris, ai fini della realizzazione anche parziale del programma criminoso (SU, 22327/2003): non è necessario, in capo al concorrente esterno, il dolo specifico proprio del partecipe (consistente nella consapevolezza di far parte dell’associazione e nella volontà di contribuire a tenerla in vita e farle raggiungere gli obiettivi prefissati), essendo sufficiente quello generico (che deve investire sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice, sia il contributo causale recato dalla propria condotta alla conservazione od al rafforzamento dell’associazione, agendo nella consapevolezza e volontà di fornire il proprio contributo al conseguimento, anche parziale, del programma criminoso dell’associazione) (SU, 14 dicembre 1995, e SU, 33748/2005: queste ultime hanno anche evidenziato l’insufficienza del dolo eventuale, inteso come mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio del verificarsi dell’evento, ritenuto solamente probabile o possibile insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti). Un’ulteriore pronuncia (Sez. 2,  18797/2012) ha così focalizzato la differenza fra il partecipe all’associazione (intraneus) ed il concorrente esterno (extraneus): (a) sotto il profilo oggettivo, essa va individuata «nel fatto che il concorrente esterno  benché fornisca un contributo che abbia una rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione  non sia inserito nella struttura criminale; (b) sotto il profilo soggettivo, essa va individuata “nel fatto che il concorrente esterno  differentemente da quello interno il cui dolo consiste nella coscienza e volontà di partecipare attivamente alla realizzazione dell’accordo e quindi del programma delittuoso in modo stabile e permanente  sia privo dell’affectio societatis”. Peraltro, nella consapevolezza che detti canoni, astrattamente ineccepibili, possono in concreto risultare di nebulosa applicazione, si è condivisibilmente ritenuto di precisare, in relazione all’elemento materiale del reato associativo, che «l’art. 416-bis incrimina chiunque partecipi all’associazione, indipendentemente dalle modalità attraverso le quali entri a far parte dell’organizzazione criminosa. Infatti, non occorrono atti formali o prove particolari dell’ingresso nell’associazione che può avvenire nei modi più diversi. La mancata legalizzazione  cioè l’atto formale di inserimento nell’ambito dell’organizzazione criminosa  non esclude, pertanto, che il partecipe sia di fatto in essa inserito e contribuisca con il suo comportamento ai fini dell’associazione; questa Corte, infatti, da tempo, ha chiarito che la prova dell’appartenenza, come intraneus, al sodalizio criminoso può essere dato anche attraverso significativi facta concludentia ove siano idonei, senza alcun automatismo probatorio, a dare la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo». Il “prendere parte” al fenomeno associativo implica, quindi, sul piano fattuale, «un ruolo dinamico e funzionale in esplicazione del quale l’interessato fornisca uno stabile contributo rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi. La suddetta condotta può assumere forme e contributi diversi e variabili proprio perché, per raggiungere i fini propri dell’associazione, occorrono diverse competenze e diverse mansioni ognuna delle quali  svolta da membri diversi  contribuisce, in modo sinergico, al raggiungimento del fine comune». Ne consegue che, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 416- bis, è necessaria e sufficiente l’adesione (anche non formale o rituale) al sodalizio, con impegno di mettersi a sua disposizione ricoprendo  in via tendenzialmente stabile  uno specifico ruolo, da cui promani un costante, effettivo e concreto contributo (anche atipico, ovvero di qualsiasi forma e contenuto) finalizzato alla conservazione od al rafforzamento di esso. Generalmente l’attenzione si concentra sull’aspetto più cruento dell’associazione mafiosa ossia sui reati fine (estorsioni, usura, omicidi, traffico di stupefacenti ecc.) che vengono assunti ad indice del fenomeno associativo che sta a monte»; tuttavia, ai fini del raggiungimento degli scopi associativi, risultano non meno importanti le attività poste in essere da soggetti in apparenza al di sopra di ogni sospetto, dotati di specifiche competenze professionali (la c.d. “borghesia mafiosa”), strumentalizzate al fine di consentire al sodalizio mafioso di “dilagare” nel campo della società civile per incrementare ulteriormente le propria potenzialità operative: «questi soggetti  siano essi politici, pubblici funzionali, professionisti o imprenditori  devono ritenersi far parte a pieno titolo (come concorrenti interni) all’associazione mafiosa quando rivestano, nell’ambito della medesima, una precisa e ben definita collocazione, uno specifico e duraturo ruolo – per lo più connesso e strumentale alle funzioni ufficialmente svolte  finalizzato, per la parte di competenza, al soddisfacimento delle esigenze dell’associazione. In questi casi, ove l’attività svolta da questa particolare categoria di soggetti presenti i caratteri della specificità e continuità e sia funzionale agli interessi e alle esigenze dell’associazione alla quale fornisce un efficiente contributo causale, la partecipazione dev’essere equiparata a quella di un intraneus tanto più ove il soggetto, per la sua stabile attività, consegua vantaggi e benefici economici o altre utilità». Andrà, pertanto, essere considerato a pieno titolo come partecipante (quanto meno) alla societas sceleris, e non come mero concorrente esterno, il soggetto (appartenente alle categorie suddette) che si sia messo a disposizione del sodalizio assumendo stabilmente, nel suo ambito, il ruolo di elemento di collegamento tra i membri del sodalizio criminale e gli ambienti istituzionali, politici e imprenditoriali: «il contributo di questi soggetti della “borghesia mafiosa” è per l’associazione fonte di potere, relazioni, contatti. Occorre ricordare, in proposito, che le associazioni mafiose sono tali perché hanno relazioni con la società civile; e, invero, tali relazioni che uniscono i boss con una rete di politici, pubblici amministratori, professionisti, imprenditori, uomini delle forze dell’ordine, avvocati e persino magistrati, costituiscono uno dei fattori che rendono forti le associazioni criminali e che spiegano perché lo Stato non sia ancora riuscito a sconfiggerle. Basti pensare che gli infiltrati, “le talpe”, le fughe di notizie riservate e, in casi ancora più gravi, le collusioni di investigatori, inquirenti o magistrati, con le cosche mafiose, possono portare al fallimento parziale o totale delle indagini. Trattasi di principi ormai pacifici nella giurisprudenza di legittimità. Si è, infatti, osservato che, nei rapporti tra partecipazione ad associazione mafiosa e mero concorso esterno, la differenza tra il soggetto intraneus ed il concorrente esterno risiede nel fatto che quest’ultimo, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur fornendo ad essa un contributo causalmente rilevante ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione, e, sotto il profilo soggettivo, è privo della affectio societatis, laddove il partecipe intraneus è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell’accordo e del programma delittuoso in modo stabile e permanente (Sez. 6, 49757/2012). Ritornando successivamente ad esaminare la questione, si è poi osservato che la partecipazione ad associazione mafiosa ed il concorso esterno costituiscono fenomeni completamente alternativi fra loro, in quanto la condotta associativa implica la conclusione di un pactum sceleris fra il singolo e l’organizzazione criminale, in forza del quale il primo rimane stabilmente a disposizione della seconda per il perseguimento dello scopo sociale, con la volontà di appartenere al gruppo, e l’organizzazione lo riconosce ed include nella propria struttura, anche per facta concludentia e senza necessità di manifestazioni formali o rituali, mentre il concorrente esterno è estraneo al vincolo associativo, pur fornendo un contributo causalmente orientato alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione, ovvero di un suo particolare settore di attività o articolazione territoriale, e diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima (Sez. 6, 16958/2014). Si è, infine, chiarito che la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trova in rapporto di stabile ed organica compenetrazione con il tessuto organizzativo della associazione criminale, tale da implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato prende parte al fenomeno associativo, rimanendo a disposizione del sodalizio per il perseguimento dei comuni fini criminosi; ne consegue che è da considerare intraneus  e non semplice “concorrente esterno”  il soggetto che, consapevolmente, accetti i voti dell’associazione mafiosa e che, una volta eletto a cariche pubbliche, diventi il punto di riferimento della cosca mettendosi a disposizione, in modo stabile e continuativo, di tutti gli affiliati della consorteria, alla quale rende conto del proprio operato (Sez. 2, 53675/2014). Nei medesimi termini la distinzione tra le due figure è stata focalizzata dalla Corte costituzionale con la già citata sentenza 48/2015: a parere del giudice delle leggi, infatti, «La differenza tra il partecipante “intraneus” all’associazione mafiosa e il concorrente esterno risiede (..) nel fatto che il secondo, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur offrendo un apporto causalmente rilevante alla sua conservazione o al suo rafforzamento, e, sotto il profilo soggettivo, è privo dell’affectio societatis, laddove invece l’ “intraneus” è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell’accordo e del programma criminoso in modo stabile e permanente (..). Dunque, se il soggetto che delinque con “metodo mafioso” o per agevolare l’attività di una associazione mafiosa (..) può, a seconda dei casi, appartenere o meno all’associazione stessa, il concorrente esterno è, per definizione, un soggetto che non fa parte del sodalizio: diversamente, perderebbe tale qualifica, trasformandosi in un «associato. Nei confronti del concorrente esterno non è, quindi, in nessun caso ravvisabile quel vincolo di «adesione permanente al gruppo criminale». In conclusione, il contributo adesivo del partecipe all’associazione mafiosa deve, oggettivamente, configurarsi come tendenzialmente stabile e durevole, ovvero concretizzarsi nella continuativa disponibilità, per apprezzabile lasso di tempo, del proprio apporto, e, sotto il profilo soggettivo, essere connotato dalla coscienza e volontà di entrare a far parte stabilmente ed organicamente dell’associazione ed operare per il raggiungimento delle finalità della stessa. Appare, di conseguenza, evidente che le condotte che si concretizzano in un ausilio occasionale all’associazione, poste in essere senza entrare a farne parte stabilmente, senza essersi messi più o meno durevolmente a disposizione del sodalizio, senza assumere all’interno di esso un ruolo od una funzione ben determinati, non possono rilevare come condotte di partecipazione ex articolo 416-bis, perché atipiche rispetto alla previsione tassativa della predetta norma incriminatrice. La ratio della rilevanza penale da attribuire al c.d. concorso «esterno» (come detto, pacificamente configurabile dal punto di vista dogmatico) va, pertanto, rinvenuta, senza alcun dubbio, nell’esigenza di attrarre nell’ambito del “penalmente rilevante” anche le condotte di chi, pur non essendo organico all’associazione (non facendone stabilmente parte), abbia fornito  anche solo occasionalmente  un contributo causalmente rilevante alla esistenza ed operatività di essa, ovvero al raggiungimento delle sue finalità, con ciò esponendo ugualmente a pericolo di lesione il bene protetto, l’ordine pubblico. Deve aggiungersi che la distinzione tra le due figure non è meramente quantitativa: andrebbe qualificato senza dubbio come contributo di partecipazione quello del soggetto cui, nell’ambito del sodalizio, sia stato attribuito un ruolo, pur se non abbia mai avuto occasione di attivarsi (si pensi all’appartenente alle forze dell’ordine incaricato di riferire le notizie riservate di interesse del sodalizio, che non si sia in concreto attivato perché nell’ambito territoriale di sua competenza non abbia mai avuto conoscenza di simili notizie); al contrario, andrebbe qualificato, ancora una volta senza dubbio, come contributo concorsuale “esterno” quello del soggetto extraneus, sulla cui disponibilità il sodalizio non possa contare, ma che sia stato in più occasioni contattato per indurlo a tenere determinate condotte agevolative, di volta in volta concordate sulla base di autonome determinazioni (si pensi all’appartenente alle forze dell’ordine con il quale sia stata, in più occasioni, ma con autonome determinazioni, negoziata la rivelazione di singole notizie riservate). Conferme testuali della configurabilità del concorso materiale esterno nei reati associativi (talora frettolosamente dimenticate dagli interpreti) sono fornite dallo stesso legislatore: invero, sia l’art. 307 (assistenza ai partecipi di cospirazione o di banda armata) che l’art. 418 (assistenza agli associati ex artt. 416 e 416-bis) contengono una iniziale clausola di riserva («fuori dei casi di concorso nel reato») che ammette inequivocabilmente la possibilità di un mero concorso eventuale, «esterno», nei reati associativi, lasciando all’interprete soltanto il compito di stabilire in quali casi un tal concorso sia configurabile, ovvero consentendo all’interprete unicamente la valutazione del quomodo, non anche dell’an, del concorso esterno nel reato associativo. L’orientamento che svaluta la rilevanza dei predetti riferimenti testuali, ed in particolare del riferimento di cui all’art. 418, ritiene che l’espressione «al di fuori dei casi di concorso nel reato» si riferirebbe al solo concorso necessario e non anche al concorso eventuale (l’espressione è interpretata come se dicesse «al di fuori dei casi di concorso necessario»); peraltro, nell’ambito del medesimo orientamento, l’identica espressione adoperata dal primo comma dell’art. 307 è interpretata come se si riferisse al “concorso morale”, ovvero ad escludere l’applicabilità della norma nel caso di concorso eventuale morale. Detta immotivata discrasia appare di per sé idonea ad “indebolire” l’orientamento, rendendolo già al suo interno non univoco. Autorevole dottrina ha già osservato (con argomentazioni già condivise e recepite dalle Sezioni unite con la sentenza 16/1994) che nel primo comma dell’art. 418 “si trovano due espressioni differenti, rappresentate dalle locuzioni “concorso nel reato” e “persone che partecipano all’associazione” che richiamano necessariamente due realtà differenti»; «pare, infatti, logico supporre che se il legislatore avesse voluto fare riferimento, all’interno dello stesso comma, per due volte alla stessa fattispecie, avrebbe utilizzato la medesima espressione e non due diverse locuzioni»; «si deve dedurre, quindi, che “concorso nel reato” non significhi partecipazione allo stesso, ma concorso eventuale esterno nel reato associativo; è da ritenersi, pertanto, che il legislatore abbia inteso ammettere esplicitamente la configurabilità di un concorso eventuale nei confronti della associazione». E, in proposito, si osserva che il dato letterale, ovvero le diverse espressioni adoperate nel medesimo contesto (esse confluiscono, infatti, nello stesso comma della norma de qua), rivela la trasparente intenzione del Legislatore di fare riferimento a due fattispecie diverse: in caso contrario, sarebbe davvero incomprensibile l’impiego, in una stessa norma, di due distinti termini per evocare il medesimo concetto. Rilievo decisivo va, sul punto, attribuito anche a quanto osservato nella Relazione ministeriale sul progetto del codice penale. La Relazione, nell’illustrare la disciplina dettata dall’art. 418, osserva che «questa figura criminosa è tenuta distinta dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento», ed evidenzia che “infondato è il dubbio sollevato se l’inciso “fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento” si debba riferire al reato d’associazione o al reato-fine che gli associati si propongono di commettere, apparendo chiaro che il riferimento va fatto al reato di associazione per delinquere, oggetto della speciale previsione». Per la Relazione ministeriale non possono quindi esservi dubbi sulla configurabilità del concorso eventuale, in tutte le sue forme, nei reati associativi (all’epoca, il riferimento riguardava tendenzialmente il reato di cui all’art. 416), visto che la stessa si premura di precisare che il concorso di cui si parla nell’art. 418 non è il concorso degli esterni rispetto al reato-fine che gli associati si propongono di commettere, bensì il concorso rispetto al reato di associazione, che, per la distinzione, per il parallelo che la Relazione fa tra quest’ultimo concorso ed il concorso esterno nel reato-fine, non può non essere, anch’esso, il concorso esterno, degli esterni, nel reato di associazione. E, dopo aver chiarito il significato delle espressioni «dare rifugio o fornire vitto», la Relazione ministeriale aggiunge, ribadendo il concetto, che la disposizione penale in questione è stata resa rigorosa, ma che «il maggior rigore si è reso necessario» anche «per la esigenza di non confondere questa speciale figura delittuosa - che, non v’è dubbio, punisce un certo contributo esterno prestato agli associati, ai partecipanti - con il concorso nell’associazione per delinquere». Il contributo del «concorrente eventuale od esterno» al reato associativo rileva, pertanto, come accade ordinariamente per ogni altra fattispecie tipica di reato, in forza dell’art. 110 (che ha la funzione di estendere l’ambito dell’illecito penale, onde ricomprendervi i contributi atipici), e deve necessariamente accedere ad una societas sceleris preesistente od anche solo contemporaneamente costituita da terzi. In proposito, va, conclusivamente, affermato il seguente principio di diritto: «È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 110 e 416-bis (nella parte in cui, secondo l’interpretazione giurisprudenziale in atto dominante, incriminano il c.d. “concorso esterno” in associazioni di tipo mafioso), sollevata per asserito contrasto con l’art., 25, comma 2, della Costituzione e con gli artt. 117 della Costituzione e 7 della Convenzione EDU, per violazione del principio di legalità. Il c. d. “concorso esterno” in associazioni di tipo mafioso non è un istituto di (non consentita, perché in violazione del principio di legalità) creazione giurisprudenziale, ma è incriminato in forza della generale (perché astrattamente riferibile a tutte le norme penali incriminatrici) funzione incriminatrice dell’art. 110, che estende l’ambito delle fattispecie penalmente rilevanti, ricomprendendovi quelle nelle quali un soggetto non abbia posto in essere la condotta tipica, ma abbia fornito un contributo atipico, causalmente rilevante e consapevole, alla condotta tipica posta in essere da uno o più concorrenti, secondo una tecnica normativa ricorrente; la sua matrice legislativa trova una conferma testuale nella disposizione di cui all’art. 418, comma 1» (Sez. 2, 22447/2016).

Il reato di concorso esterno in associazione mafiosa è necessariamente ancorato ad un modello causalmente orientato (art. 110) e presuppone da un lato la presa d’atto del non/inserimento del soggetto in questione nel gruppo, dall’altro la ricostruzione di una condotta specifica, capace (con valutazione in concreto ed ex post) di realizzare un incremento tangibile del macro-evento rappresentato dall’esistenza e permanenza dell’associazione, mentre la condotta partecipativa attiene alla realizzazione tipica degli scopi ordinari dell’organizzazione criminosa. Tuttavia, nell’individuazione dei requisiti minimi della partecipazione punibile - ed in sostanza della tipicità della fattispecie – non possono adottarsi modelli esplicativi e dimostrativi che non identifichino un visibile apporto del singolo alla realizzazione degli ordinari scopi del sodalizio, con necessità di inquadrare le sue forme di manifestazione nella realtà fenomenica, dovendosi invece rintracciare, nei materiali cognitivi, il riferimento - pur se per indizi - a condotte espressive del ruolo. Non vi è spazio alcuno per ipotesi di identificazione della condotta punibile di partecipazione che risultino del tutto svincolate dalla ricostruzione di un contributo effettivo reso dal partecipe, che sia concreto e visibile, materiale o morale, alla vita dell’organizzazione criminosa (Sez. 5, 23142/2020).

La rilevanza e la stessa verificabilità processuale delle condotte di concorso esterno sono da sempre strettamente correlate  tanto sul piano teorico che su quello ricostruttivo  alla esatta perimetrazione delle condotte di partecipazione, nel senso che lì dove l’elemento di prova si risolva in un rassicurante «indicatore» dell’avvenuto inserimento del soggetto, con carattere di tendenziale stabilità e assunzione di un ruolo, nella compagine associativa si avrà la partecipazione, mentre il concorso esterno è necessariamente ancorato ad un modello «causalmente orientato» e presuppone da un lato la presa d’atto del non/inserimento del soggetto nel gruppo, dall’altro la ricostruzione di una condotta capace di realizzare un incremento tangibile del macro-evento rappresentato dalla esistenza e permanenza della associazione. Si tratta dunque di una condotta, quella del concorrente, che per essere punibile deve essere alimentata dal dolo (diretto ma generico) inteso come previa rappresentazione e accettazione del nesso funzionale tra la propria azione e il raggiungimento (anche parziale) degli scopi della associazione. Se, infatti, l’evento (in senso giuridico e materiale) che la norma incriminatrice di cui all’art. 416-bis tende a reprimere è l’esistenza ed operatività concreta di un «consorzio umano organizzato» (l’associazione mafiosa) avente determinate caratteristiche tipiche (sul piano degli scopi e delle modalità utilizzate per conseguirli) è pacifico che rispetto a tale dato fenomenico debbano assumere rilievo penalistico non soltanto le condotte direttamente espressive di «intraneità» (in quanto dimostrative della connaturale ripartizione di compiti, attribuiti agli associati in senso stretto), ma altresì tutte quelle condotte che, pur poste in essere da soggetti «esterni», contribuiscano in modo oggettivamente rilevante (e soggettivamente consapevole) alla realizzazione o al permanere dell’evento in questione.  Il tratto di maggiore problematicità teorica e ricostruttiva  nelle decisioni che hanno affrontato il tema - consiste nel criterio di apprezzamento della idoneità causale (della condotta posta in essere dal preteso concorrente esterno) in rapporto alla integrazione o meno dell’evento. La connotazione innovativa della decisione Mannino del 2005 sta infatti, come è noto, nella necessità di un apprezzamento concreto di tale aspetto (ovviamente anche sulla base di un rassicurante ragionamento indiziario) con verifica processuale che tende a spostarsi dalla «prospettazione dell’agente» (valutazione ex ante) alla constatazione ex post della «efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente». Ora, tale sottolineatura è figlia di una condivisibile impostazione teorica – realizzata nella decisione Mannino del 2005 – tesa a far rifluire nella costruzione dell’istituto i principi essenziali del concorso di persone nel reato, tra cui assume un indubbio rilievo la previsione normativa di cui all’art. 115 secondo cui non risulta punibile il mero «tentativo di concorso» ossia il semplice accordo per commettere un reato o l’istigazione accolta, ma non seguita dalla commissione del reato. Da qui la necessità di un criterio oggettivo idoneo al rafforzamento della tipicità (l’efficacia causale del contributo per la realizzazione del «medesimo reato», così da poter affasciare la condotta del concorrente esterno con quella degli associati in rapporto al permanere della lesione del bene protetto, sub specie integrità dell’ordine pubblico) e la richiesta direzione del dolo, correlata alla funzionalità della condotta rispetto al perseguimento (in una con il fine individuale, che sempre muove i comportamenti umani) di almeno una delle finalità descritte dalla norma incriminatrice. Se dunque l’evento del reato di associazione mafiosa è identificabile nella conservazione o nel rafforzamento dell’organismo criminoso e se l’adesione al modello causalmente orientato impone di individuare, nei casi in rilievo, un effettivo «raggiungimento dello scopo», è evidente che la ricostruzione processuale dell’evento deve porsi in stretta correlazione con il perseguimento delle finalità tipiche del reato associativo di cui si discute e pertanto con il catalogo offerto dal comma 3 dell’art. 416-bis (commettere delitti che siano espressivi del metodo mafioso, acquisire la gestione o il controllo di attività economiche, concessioni, appalti o servizi pubblici, realizzazione di profitti o vantaggi ingiusti per sé od altri etc.). Con ciò si vuole evidenziare che la condotta del concorrente esterno  per essere punibile  non deve tendere ad un incremento della semplice potenzialità operativa dell’organismo criminoso (altrimenti si rientra nel paradigma di punibilità del mero accordo, con ricadute percepibili solo in ambito psicologico, non sufficiente a realizzare l’evento descritto nella decisione Mannino), ma deve porsi come «frammento» (la realizzazione dello scopo è necessariamente parziale e frammentaria) di una concreta utilità per la realizzazione di una delle molteplici attività espressive del programma criminoso, così da realizzare una contribuzione «percepibile» al mantenimento in vita dell’organismo criminaleVi sono infatti compiti che – per le loro caratteristiche – richiedono, in realtà, il loro affidamento (anche continuativo) proprio a soggetti non associati, posto che per il raggiungimento degli scopi tipici del sodalizio mafioso  così come per garantirne la stessa esistenza  è necessaria una costante «interazione» tra il gruppo criminoso e persone disposte a realizzare  per finalità personali concorrenti – attività strumentali che vanno dalla realizzazione di lavori pubblici in modo solo apparentemente lecito (ma in realtà strumentale anche agli interessi del sodalizio, cui viene restituita una parte dell’utile di impresa) alla protezione della latitanza degli esponenti di rilievo del sodalizio, al reinvestimento in attività ad oggetto lecito delle risorse accumulate, tanto per fare qualche esempio, in ciò accedendo alla realizzazione dell’offesa al bene giuridico protetto. La verifica della effettiva efficacia causale della condotta con giudizio ex post, una volta esclusa  per citare ancora la decisione Mannino – una impostazione di tipo meramente soggettivistico («..che, operando una sorta di conversione concettuale autorizzi il surrettizio e indiretto impiego della causalità psichica c.d. da “rafforzamento” dell’organizzazione criminale, per dissimulare in realtà l’assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato..») richiede indubbiamente l’esame e la ricostruzione – in sede di merito – delle ricadute fattuali della condotta oggetto di analisi, così da poter affermare che la condivisione, da parte del concorrente, delle finalità perseguite dal gruppo abbia comportato un concreto ausilio in una o più vicende specifiche, e così da poter affermare – con la dovuta certezza processuale  che quella condotta sia stata un ingrediente effettivo per la realizzazione di uno degli scopi tipici e dunque per il permanere dell’offesa al bene giuridico protetto (Sez. 1, 452/2019).

Deve qualificarsi come concorrente esterno in un’associazione di stampo mafioso colui che, senza appartenere all’associazione, senza cioè trovarsi in un rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio criminoso, fornisca consapevolmente un concreto, specifico e volontario contributo, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e quindi si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. D’altro canto, si è sostenuto che, in tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ai fini della configurabilità del dolo, occorre che l’agente, pur in assenza dell’affectio societatis e, cioè, della volontà di far parte dell’associazione, sia consapevole dell’esistenza della stessa e del contributo causale recato dalla propria condotta alla sua conservazione o al suo rafforzamento, agendo con la volontà di fornire un apporto per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio, dovendo escludersi la sufficienza del dolo eventuale inteso come mera accettazione da parte del concorrente del rischio del verificarsi, insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti, dell’evento, ritenuto invece solamente probabile o possibile (Sez. 5, 26589/2018).

Il reato di cui all’art. 416-bis, nella forma del concorso esterno e la circostanza aggravante di cui all’art. 7 DL 152/1991 nella dimensione teleologica, sono strutturalmente diversi. Nell’ipotesi di concorso, anche nella forma cosiddetta eventuale o esterno, nel reato di cui all’art. 416-bis, esiste una cointeressenza che, pur se occasionale, deve presentare il carattere di una rilevante importanza, tale da comportare l’assunzione di un ruolo esterno ma essenziale, ineliminabile ed insostituibile, particolarmente nei momenti di difficoltà dell’organizzazione criminale. Quest’ultimo estremo non deve essere ravvisabile quando si contesta l’aggravante di cui all’art. 7 che si sostanzia nella semplice finalità di agevolazione dell’attività posta in essere dalla consorteria mafiosa, essendo in quest’ultimo caso necessario che venga accertata tale oggettiva finalizzazione dell’azione all’agevolazione detta. Né, all’evidenza, sussiste contraddizione alcuna allorché si afferma che la medesima condotta abbia agevolato la ordinaria attività criminale della associazione mafiosa, ma, al tempo stesso, non abbia arrecato alcun contributo rilevante, sul piano affatto diverso, della tenuta, della conservazione o del rafforzamento della consorteria. Sicché sono compatibili il riconoscimento della aggravante in parola e la esclusione del concorso esterno dell’indagato. Peraltro, diversamente opinando, la commissione di qualsivoglia delitto, sol che sia aggravato ai sensi dell’art. 7 DL 152/1991, sotto la ipotesi della agevolazione, comporterebbe  ad absurdum  la implicazione indiscriminata del concorso esterno nella associazione mafiosa per l’autore del reato aggravato (Sez. 2. 8452/2019).

Ai fini dell’integrazione del concorso esterno in associazione mafiosa, occorre che l’agente sia consapevole dell’esistenza della stessa e del contributo causale recato dalla propria condotta alla sua conservazione o al suo rafforzamento, agendo con la volontà di fornire un apporto per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio, dovendo escludersi la sufficienza del dolo eventuale inteso come mera accettazione da parte del concorrente del rischio del verificarsi, insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti, dell’evento, ritenuto invece solamente probabile o possibile. Non è sufficiente un dolo meramente eventuale, e quindi l’accettazione del rischio che, commettendo un determinato fatto, si procuri un rafforzamento del gruppo associativo a cui si rimane estranei; occorre, piuttosto, che quest’evento, causalmente collegato al contributo offerto, sia oggetto diretto della volizione (Sez. 1, 11168/2019).

Sotto il profilo oggettivo, per assumere il ruolo di concorrente esterno il soggetto – non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione e privo dell’affectio societatis – deve fornire un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un’effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell’associazione o, per quelle operanti su larga scala (come certamente è la ‘ndrangheta), di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima (Sez. 1, 11929/2019).

In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, ai fini della configurabilità del dolo, occorre che l’agente, pur in assenza dell’affectio societatis e, cioè, della volontà di far parte dell’associazione, sia consapevole dell’esistenza della stessa e del contributo causale recato dalla propria condotta alla sua conservazione o al suo rafforzamento, agendo con la volontà di fornire un apporto per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio, dovendo escludersi la sufficienza del dolo eventuale inteso come mera accettazione da parte del concorrente del rischio del verificarsi, insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti, dell’evento, ritenuto invece solamente probabile o possibile (Sez. 5, 34837/2019).

…Casistica in tema di concorso esterno

Il professionista nell’area legale (avvocato, notaio) che non si limiti a fornire al proprio cliente, che sia partecipe di una associazione a delinquere ex art. 416-bis, consigli e pareri mantenendosi nell’ambito di quanto legalmente consentito ma si trasformi nel consigliere di fiducia del capo di una associazione mafiosa in quanto conoscitore delle leggi e dei modi per eluderle (“consigliori”, nel gergo italo-americano), assicurando un’assistenza tecnico legale finalizzata a suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenta della legge, risponde del delitto di partecipazione all’associazione, se ricorrono gli ulteriori presupposti della affectio societatis e dello stabile inserimento nella sua struttura organizzativa. Quando manchino questi ulteriori presupposti, rimane configurabile il concorso esterno se la condotta costituisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo (di natura materiale o morale) dotato di apprezzabile rilevanza causale per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso dell’associazione: in altri termini, per integrare l’elemento oggettivo nel concorso nel reato associativo è sempre necessario che il contributo del concorrente valga a conservare o rafforzare le capacità operative dell’associazione e non soltanto gli interessi personali di alcuni suoi appartenenti, anche se identificabili con i soggetti costituenti il nucleo egemone all’interno dell’associazione (Sez. 6, 58411/2018).

Il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche nell’ipotesi del “patto di scambio politico-mafioso”. Per l’integrazione del reato è necessario che: a) gli impegni assunti dal politico a favore dell’associazione mafiosa presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione della affidabilità e della caratura dei protagonisti dell’accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti; b) all’esito della verifica probatoria “ex post” della loro efficacia causale, risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé ed a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali. A tal fine occorre provare la controprestazione da parte del politico e cioè individuare le concrete condotte successivamente poste in essere per favorire l’associazione mafiosa (Sez. 5, 2541/2021).

Bisogna verificare se sia configurabile il concorso c.d. “esterno” nel delitto di cui all’art. 416-bis di un uomo politico che abbia stipulato un patto con esponenti di un sodalizio di tipo mafioso, obbligandosi a favorirlo nei futuri rapporti con la P.A. in cambio di sostegno elettorale, ovvero se occorra all’uopo anche il successivo adempimento del predetto patto da parte del politico. Il tema è stato più recentemente esaminato da tre decisioni. Sez. 6, 43107/2011, premesso che ai fini della configurabilità del reato di scambio elettorale politico-mafioso (art. 416-ter), nella formulazione all’epoca vigente, è sufficiente un accordo elettorale tra l’uomo politico e l’associazione mafiosa, avente per oggetto la promessa di voti in cambio del versamento di denaro, mentre non è richiesta la conclusione di ulteriori patti che impegnino l’uomo politico adoperare in favore dell’associazione in caso di vittoria elettorale, ha osservato che, nell’ipotesi in cui tali ulteriori patti vengano conclusi, occorre successivamente posta in essere dal predetto a sostegno degli che gli ha promesso o procurato i voti assuma i caratteri della concorso esterno all’associazione medesima, potendo indicato, anche quello di cui all’art. 416-bis. A sua volta, Sez. 1, 8531/2013 stata così massimata: «Integra la fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa la promessa di un esponente politico di favorire, in cambio del sostegno elettorale, il sodalizio nei futuri rapporti con la pubblica amministrazione». Il principio di diritto massimato, particolarmente chiaro, trova inequivocabili esplicazioni nel seguente passo della motivazione: “Quanto al primo profilo (violazione di legge) con riferimento all’ipotesi accusatoria di un concorso esterno del F. nell’associazione di tipo mafioso «clan dei casalesi», si sostiene, da parte del ricorrente, che la stessa sia in contrasto, in primo luogo, con i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità relativamente a tale fattispecie, nel senso che, dalle risultanze investigative, non emergerebbe alcun concreto apporto fornito dal F. a quel sodalizio, dovendo escludersi, in particolare, che una semplice promessa di favori, ove pure in tesi accertata, sia sufficiente ad integrare il reato. La censura è priva di fondamento posto che questa Corte, nel ribadire la possibilità di configurare la condotta di concorso esterno nel delitto di associazione di stampo mafioso le volte in cui il contributo dell’extraneus sia concreto, specifico, consapevole e volontario, ha anche precisato che siffatto contributo può ben connettersi ad un accordo di scambio con il quale un esponente politico si impegni - verso la promessa di voti in sede di elezioni amministrative - a favorire il sodalizio nei futuri rapporti con la Amministrazione. E questa Corte ha anche avuto cura di rammentare che la condotta offensiva del bene giuridico tutelato viene integrata dallo scambio sinallagmatico tra le due promesse (l’appoggio elettorale e la agevolazione dell’Ente), restando pertanto irrilevante la mancata esecuzione delle promesse in discorso”. In apparenza difforme sembrerebbe il principio di diritto affermato da Sez. 2, 56088/2017, così massimato: «Il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche nell’ipotesi del “patto di scambio politico-mafioso”, in forza del quale un uomo politico, non partecipe del sodalizio criminale, si impegna, a fronte dell’appoggio richiesto all’associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo nei futuri rapporti con l’Amministrazione. A tal fine occorre provare la controprestazione da parte del politico e cioè individuare le concrete condotte successivamente poste in essere per favorire l’associazione mafiosa. Nondimeno, la motivazione propone un percorso argomentativo che sembrerebbe condurre a conclusioni, se non tout court diverse, quanto meno oscillanti: delinquere di tipo mafioso, premesso che tale ipotesi, a differenza di quella costituita dalla partecipazione “organica”, si caratterizza per l’assenza di una compenetrazione strutturale e di un vincolo psicologico finalistico stabile e richiede, quindi, necessariamente, una concreta attività collaborativa idonea a contribuire al potenziamento, consolidamento o mantenimento in vita del sodalizio mafioso in correlazione a congiunturali esigenze del medesimo, deve ritenersi che, nel caso particolare di una relazione fra uomo politico e gruppo mafioso, non basti, per la sussistenza del concorso esterno, una mera vicinanza al detto gruppo od ai suoi esponenti, anche di spicco, e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa, ma sia necessario un vero patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti della stessa organizzazione in un modo che, sin dall’inizio, sia idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento. In tale ottica non appare necessaria, per la consumazione del reato, la concreta esecuzione delle prestazioni promesse anche se, il più delle volte, essa costituisce elemento prezioso per la dimostrazione del patto e della sua consistenzaAppare evidente che la citata decisione: « mostri inizialmente di aderire ad un orientamento per il quale ai fini de quibus si può «prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali», in quanto non rileva «che l’impegno assunto sia stato successivamente rispettato o gli obiettivi del sodalizio effettivamente raggiunti» e resta «irrilevante la mancata esecuzione delle promesse»; « viri successivamente, ma questa volta nel senso di ritenere che “i rapporti anche reiterati e le relazioni tra esponenti politici e membri dell’associazione criminale possono invece essere sintomo del patto di scambio richiamato dalla pronuncia Sezioni Unite Mannino e, quindi, in tal caso, proprio in virtù della predetta autorevole giurisprudenza, andrà accertato che al sostegno elettorale e politico da parte dell’organizzazione criminale sia seguita poi la contro prestazione sinallagmatica in capo all’esponente politico, altrimenti rimanendo provata solamente una frazione della condotta non idonea ad integrare neppure la responsabilità ex artt. 110/416-bis”; - viri nuovamente, e conclusivamente nel senso di ritenere che «nel caso particolare di una relazione fra uomo politico e gruppo mafioso, non basti, per la sussistenza del concorso esterno, una mera vicinanza al detto gruppo od ai suoi esponenti, anche di spicco, e neppure la semplice accettazione del sostegno elettorale dell’organizzazione criminosa, ma sia necessario un vero patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti della stessa organizzazione in un modo che, sin dall’inizio, sia idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento. In tale ottica non appare necessaria, per la consumazione del reato, la concreta esecuzione delle prestazioni promesse anche se, il più delle volte, essa costituisce elemento prezioso per la dimostrazione del patto e della sua consistenza». In realtà SU, 33748/2005 ha affermato, con riferimento alla questione in esame, il principio di diritto così massimato: Il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso è configurabile anche nell’ipotesi del “patto di scambio politico-mafioso”, in forza del quale un uomo politico, non partecipe del sodalizio criminale (dunque non inserito stabilmente nel relativo tessuto organizzativo e privo dell’affectio societatis”) si impegna, a fronte dell’appoggio richiesto all’associazione mafiosa in vista di una competizione elettorale, a favorire gli interessi del gruppo. Per la integrazione del reato è necessario che: a) gli impegni assunti dal politico a favore dell’associazione mafiosa presentino il carattere della serietà e della concretezza, in ragione della affidabilità e della caratura dei protagonisti dell’accordo, dei caratteri strutturali del sodalizio criminoso, del contesto storico di riferimento e della specificità dei contenuti; b) all’esito della verifica probatoria “ex post” della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé ed a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali». In motivazione, sul punto, le Sezioni unite hanno osservato quanto segue: «E però, ammessa l’astratta configurabilità delle regole del concorso eventuale anche per l’ipotesi di accordo politico-mafioso diverso dallo scambio denaro/voti, occorre trarne le conseguenze in punto di rigorosa ricostruzione dei requisiti di fattispecie, con particolare riguardo, oltre che al dolo, anzitutto all’efficacia causale del contributo atipico del concorrente esterno. Non basta certamente la mera “disponibilità” o “vicinanza”, né appare sufficiente che gli impegni presi dal politico a favore dell’associazione mafiosa, per l’affidabilità e la caratura dei protagonisti dell’accordo, per i connotati strutturali del sodalizio criminoso, per il contesto storico di riferimento e per la specificità dei contenuti del patto, abbiano il carattere della serietà e della concretezza. Ed invero, la promessa e l’impegno del politico (ad esempio, nel campo  pure oggetto dell’imputazione  della programmazione, regolamentazione e avvio di flussi di finanziamenti o dell’aggiudicazione di appalti di opere o servizi pubblici a favore di particolari imprese) in tanto assumono veste di apporto dall’esterno alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione mafiosa, rilevanti come concorso eventuale nel reato, in quanto, all’esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale e non già mediante una mera valutazione prognostica di idoneità ex ante (che pure sembra acriticamente recepita in talune decisioni di legittimità, fra quelle sopra citate), si possa sostenere che, di per sè, abbiano inciso immediatamente ed effettivamente sulle capacità operative dell’organizzazione criminale, essendone derivati concreti vantaggi o utilità per la stessa o per le sue articolazioni settoriali coinvolte dall’impegno assunto. Il politico, concorrente esterno, viene in tal modo ad interagire con i capi e i partecipi nel funzionamento dell’organizzazione criminale, che si modula in conseguenza della promessa di sostegno e di favori mediante le varie operazioni di predisposizione e allocazione di risorse umane, materiali, finanziarie e di selezione strategica degli obiettivi, più in generale di equilibrio degli assetti strutturali e di comando, derivandone l’immediato ed effettivo potenziamento dell’efficienza operativa dell’associazione mafiosa con riguardo allo specifico settore di influenza. Una volta prospettata l’ipotesi di accusa in riferimento al patto elettorale politico-mafioso, si rivela quindi necessaria la ricerca e l’acquisizione probatoria di concreti elementi di fatto, dai quali si possa desumere con logica a posteriori che il patto ha prodotto risultati positivi, qualificabili in termini di reale rafforzamento o consolidamento dell’associazione mafiosa, sulla base di generalizzazioni del senso comune o di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità. Con l’avvertenza peraltro che, laddove risulti indimostrata l’efficienza causale dell’impegno e della promessa di aiuto del politico sul piano oggettivo del potenziamento della struttura organizzativa dell’ente, non è consentito convertire surrettiziamente la fattispecie di concorso materiale oggetto dell’imputazione in una sorta di  apodittico ed empiricamente inafferrabile  contributo al rafforzamento dell’associazione mafiosa in chiave psicologica: nel senso che, in virtù del sostegno del politico, risulterebbero comunque, quindi automaticamente, sia “all’esterno” aumentato il credito del sodalizio nel contesto ambientale di riferimento (ove tuttavia non si accerti e si definisca “occulto” l’accordo) che “all’interno” rafforzati il senso di superiorità e il prestigio dei capi e la fiducia di sicura impunità dei partecipi». Sulla base delle predette argomentazioni, le Sezioni unite hanno conclusivamente enunciato, a norma dell’art. 173, comma 3, ATT. CPP, il seguente principio di diritto: «È configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso nell’ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso, in forza del quale il personaggio politico, a fronte del richiesto appoggio dell’associazione nella competizione elettorale, s’impegna ad attivarsi una volta eletto a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere organicamente inserito in esso, a condizione che: a) gli impegni assunti dal politico, per l’affidabilità dei protagonisti dell’accordo, per i caratteri strutturali dell’associazione, per il contesto di riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della concretezza; b) all’esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sè e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali». Sono, quindi, ed in tutta evidenza, le stesse Sezioni unite, con la sentenza Mannino, ad affermare la non necessità dell’adempimento del patto da parte del politico per configurarne il concorso c.d. esterno in un sodalizio di tipo mafioso (Sez. 2, 45402/2018).

Circostanze aggravanti

…Transnazionalità

La circostanza aggravante della transnazionalità può applicarsi ai reati fine consumati dai sodali di un’associazione per delinquere anche in caso di immedesimazione tra tale associazione ed il gruppo criminale organizzato transnazionale (Sez. 5, 25663/2018).

…Assunzione del controllo di attività economiche

Ai fini della configurabilità dell’aggravante ex art. 416-bis, comma 6 – che ricorre quando gli associati intendono assumere il controllo di attività economiche, finanziando l’iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti – occorre, in primo luogo, una particolare dimensione dell’attività economica, nel senso che essa va identificata non in singole operazioni commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli esercizi, ma nell’intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi. È, poi, necessario che l’apporto di capitale corrisponda ad un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo. Siffatta aggravante, che ha natura oggettiva, si differenzia inoltre dalla fattispecie di cui all’art. 12-quinquies L. 356/1992, e può concorrere con essa, in quanto mentre la prima figura è integrata dal reinvestimento dei proventi illeciti dell’organizzazione criminale in attività economiche qualificate delle quali il sodalizio intende assumere o mantenere il controllo, e non implica la necessaria interposizione di soggetti terzi, ai fini della configurabilità della seconda occorre una condotta di interposizione fittizia soggettiva nella titolarità di un bene, e non è richiesto che il cespite sia di provenienza illecita e “mafiosa” (Sez. 2, 2833/2013).

Poiché l’aggravante prevista dall’art. 416 bis, comma 6, di natura oggettiva, è configurabile nei confronti dell’associato (e del concorrente esterno) che abbia commesso il delitto che ha generato i proventi oggetto, da parte sua, di successivo reimpiego, deve escludersi che, in questo caso, l’associato possa autonomamente rispondere anche del delitto di reimpiego, non consentendolo la clausola personale di esclusione della responsabilità contenuta nel reato disciplinato dall’art. 648 bis, e avente valenza generale; la lettera dell’art. 416 bis, comma 6, osta, infine, a che l’associato possa essere chiamato a rispondere ad alcun titolo del post-fatto di autoriciclaggio (Tribunale Catania, ufficio GIP, ordinanza del 17.11.2018).

…Associazione armata

In tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, la circostanza aggravante della disponibilità di armi, prevista dall’art. 416-bis, comma quarto, è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa, per l’accertamento della quale assume rilievo anche il fatto notorio della stabile detenzione di tali strumenti di offesa da parte del sodalizio mafioso (Sez. 1, 44704/2015).

In tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, per il riconoscimento della circostanza aggravante della disponibilità delle armi non è richiesta l’esatta individuazione delle armi stesse, ma è sufficiente l’accertamento, in fatto, della disponibilità di un armamento, quale desumibile ad esempio dai fatti di sangue commessi dal gruppo criminale o dal contenuto delle intercettazioni (Sez. 1, 14255/2017).

...Riciclaggio mafioso

Non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648bis o 648ter c.p. e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego nei confronti dell'associato abbia ad oggetto denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, operando in tal caso la clausola di riserva contenuta nelle predette disposizioni. Può, invece, configurarsi il concorso tra i reati sopra menzionati nel caso dell'associato che ricicli o reimpieghi proventi dei soli delitti-scopo alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun contributo causale (Sez. 6, 17014/2020).

L’aggravante del cosiddetto riciclaggio mafioso (art. 416-bis, comma 6) rappresenta una sorta di "progressione criminosa" rispetto al reato base e denota la maggiore pericolosità di un'organizzazione che, mediante il conseguimento degli obiettivi prefissati, produce una più intensa lesione degli interessi protetti, influendo sul mercato finanziario e sulle regole della concorrenza mediante la penetrazione in settori di attività imprenditoriale lecita. Il perseguimento della finalità descritta dall'art. 416-bis, comma 6, mediante i proventi dei delitti rappresenta, pertanto, una connotazione obiettiva dell'associazione, della quale qualifica la pericolosità. L'aggravante deve quindi essere riferita all'attività dell'associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, non occorrendo che quest'ultimo si interessi personalmente di finanziare, con i proventi dei delitti, le attività economiche di cui i sodali intendano assumere o mantenere il controllo. Il carattere oggettivo della circostanza comporta che di essa ne risponda il singolo sodale, per il solo fatto della partecipazione (purché, ai sensi dell'art. 59, comma 2, questi sia consapevole o colpevolmente inconsapevole dell'avvenuto reimpiego di profitti delittuosi), allorquando la sussistenza di tale elemento accessorio sia riconosciuta rispetto all'associazione di appartenenza, e non necessariamente - si badi - in capo ad un coimputato. L'aggravante prevista dall'art. 416-bis, comma 6, infatti, avendo natura oggettiva va riferita all'attività dell'associazione in quanto tale e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, con la conseguenza che essa è valutabile a carico di tutti i componenti del sodalizio di tipo mafioso sempre che siano stati a conoscenza dell'avvenuto reimpiego dei profitti delittuosi, ovvero l'abbiano ignorato per colpa o per errore determinato da colpa (SU, 25191/2014). Opinare diversamente, d'altra parte, significherebbe far dipendere l'applicazione di istituti di natura sostanziale, quale la configurabilità di una circostanza ed il correlativo aggravio sanzionatorio, da un'evenienza a carattere processuale, ossia la sottoposizione a procedimento penale unitamente ad una parte dei sodali che non rappresentino l'associazione nella sua interezza, venendosi così a determinare un ingiustificato distinguo tra individui giudicati ad esito di processi diversi, ma appartenenti alla medesima associazione, dotata di una portata lesiva che giustifica, per quanto supra osservato, l'aggravio di pena (Sez. 2, 10255/2020).

Regole in materia di competenza

La connessione teleologica tra delitto associativo e reati-fine, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. c), CPP, indefettibilmente postula il riscontro del nesso di strumentalità necessaria, configurabile solo nell’ipotesi in cui risulti che, fin dalla costituzione del sodalizio criminoso o dall’adesione ad esso, i singoli partecipi, nell’ambito del generico programma criminoso, avessero già individuato uno o più specifici fatti di reato, dagli stessi poi effettivamente commessi (Sez. 1, 17100/2019).

In tema di reati associativi la competenza per territorio si determina in relazione alla base ove si svolgono la programmazione, l’ideazione e la direzione delle attività criminose facenti capo al sodalizio, assumendo rilievo non tanto il luogo in cui si è stipulato il pactum sceleris, quanto quello in cui si è effettivamente palesata e realizzata l’operatività della struttura (Sez. 1, 17096/2019).

Presunzioni cautelari

Si è in presenza di una duplice presunzione relativa in relazione al titolo di reato associativo, sia per la sussistenza delle esigenze cautelari (an della cautela) che per la scelta della misura (quomodo della stessa) (Sez. 6, 53028/2017). In presenza di tale reato, come rammentato dal Giudice delle leggi (sentenza 231/2011), il giudice deve considerare sussistenti le esigenze cautelari, quante volte non consti la prova della loro mancanza, secondo uno schema di prova di tipo negativo e secondo un modello che, sul piano pratico, si traduce in una marcata attenuazione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti applicativi della custodia cautelare in carcere e assolve l’obbligo di motivazione dando semplicemente atto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, senza dovere specificamente motivare sul punto; solo nel caso in cui l’indagato, o la sua difesa, abbiano allegato elementi di segno contrario, egli sarà tenuto a giustificare la ritenuta inidoneità degli stessi a superare la presunzione. La presunzione può essere superata dallo stesso giudice, se dagli atti risultino, ictu oculi, elementi che mettano in evidenza che non sussistono esigenze cautelari (SU, 16/1995). Tra gli elementi che possono privare di valenza la suddetta presunzione si pone il considerevole lasso di tempo intercorrente tra l’emissione della misura e i fatti contestati in via provvisoria all’indagato (Sez. 6, 14957/2019).

Criteri di valutazione della prova

In tema di associazione per delinquere (nella specie di stampo mafioso), è consentito al giudice, pur nell’autonomia del reato-mezzo rispetto ai reati-fine, dedurre la prova dell’esistenza del sodalizio criminoso dalla commissione dei delitti rientranti nel programma comune e dalle loro modalità esecutive, posto che attraverso di essi si manifesta in concreto l’operatività dell’associazione medesima (SU, 10/2001; Sez. 2, 19435/2016).

La presenza, tra gli affiliati di un sodalizio criminale, di persone già condannate per delitti di mafia, non costituisce elemento decisivo per configurare il sodalizio come mafioso, se la caratura mafiosa del singolo soggetto non si sia trasmessa all’intera struttura associativa, non potendo essere accolta in astratto, in difetto di una concreta verifica, la regola “semel mafioso, semper mafioso” (Sez. 2, 5271/2019).

Se, in precedenti giudizi, risulti accertata  con decisione irrevocabile  l’esistenza di una data associazione criminosa (nel caso in esame la ‘ndrangheta) avente i caratteri tipici di cui all’art. 416-bis l’importazione critica di tale dato consente  in una con i materiali dimostrativi nuovi  di ritenere sussistente il radicamento territoriale di «quel» gruppo criminoso con i sottostanti caratteri specializzanti (l’esercizio concreto del potere di intimidazione) e il tema di prova diventa – pertanto – quello della continuità dell’agire del gruppo (complessivamente inteso), il che – si badi bene – non comporta necessariamente (almeno nei territori già oggetto della pressione mafiosa storica) la dimostrazione di un rinnovato esercizio del potere di intimidazione, ben potendo  in un lasso di tempo ragionevole, che consente ai consociati di serbare la memoria delle azioni del gruppo  essere semplicemente sfruttata (una sorta di rendita da capitale intimidatorio) la condizione già realizzatasi e oggetto di dimostrazione nel giudizio antecedente (la cd. oggettivizzazione del potere di intimidazione, come caratteristica del gruppo espressa quantomeno da alcuni suoi componenti e radicata nel contesto territoriale di riferimento è dato costante nell’analisi giurisprudenziale del fenomeno mafioso). Dunque parlare di continuità dell’agire associativo - nei territori oggetto di penetrazione storica  non significa predicare l’immobilismo e la riproduzione dei medesimi schemi operativi (nel caso della ‘ndrangheta la frammentazione dei gruppi e la tendenza a non realizzare un organismo verticistico condizionante, secondo lo storico modello della cupola siciliana), ma significa rapportare le nuove fonti di conoscenza – che ben possono comportare la emersione di variazioni all’originario modello – al medesimo contesto storico già in precedenza accertato attraverso l’identità (almeno parziale) dei soggetti raggiunti dai diversi accertamenti, la comunanza dei territori oggetto di azione, l’analisi delle finalità complessive del sodalizio. È evidente, dunque, che soltanto l’emersione di una netta frattura finalistica – che nel caso in esame non emerge affatto, come si è evidenziato in precedenza  avrebbe determinato la impossibilità di utilizzare, ai sensi del citato articolo 238-bis CPP i precedenti giudicati (per inconciliabilità di oggetto dovuta all’emersione di radicale discontinuità finalistica), ma siccome ciò non è in alcun modo emerso dai nova, è da ritenersi corretta – in presenza di parziale identità soggettiva dei protagonisti e di medesimezza dei territori interessati (almeno per quanto concerne la provincia di Reggio Calabria, cuore dell’accertamento) – la realizzata operazione di «traslazione» di apporti probatori (per quanto concerne il radicamento territoriale e il potere di intimidazione) verso il presente giudizio, provenienti dalle innumerevoli decisioni irrevocabili emesse nel corso del tempo sulla consorteria in esame (Sez. 1, 452/2019).

Rapporto con altre fattispecie

Nel caso di procedimento per il delitto di cui all’art. 416-bis e di separato procedimento per i reati fine realizzati, non sussiste la preclusione del “ne bis in idem” ricorrendo l’ipotesi del concorso materiale di reati, perché per il primo la condotta necessaria e sufficiente sta nella prestazione della propria adesione alla organizzazione già costituita, mentre per i secondi la condotta necessaria è quella tipica, fissata nella fattispecie criminosa; e, più specificamente, la preclusione da “bis in idem” non impedisce di valutare una condotta, già giudicata con sentenza irrevocabile di assoluzione dal delitto di riciclaggio, ai fini della prova della diversa fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa (Sez. 6, 16860/2019).

Confisca

Il legislatore ha previsto che alla condanna per il delitto per il reato ex art. 416-bis segua “la confisca obbligatoria delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l’impiego”, formula in cui l’obbligo della confisca è esteso a beni per i quali l’articolo 240, primo comma, si limita a disporre la confisca facoltativa. Nell’ambito delle “cose che servirono o furono destinate a commettere il reato” devono ricomprendersi tutti i beni destinati a essere utilizzati ai fini dell’attività dell’associazione: deve, pertanto, sussistere una relazione specifica e stabile tra il bene e l’illecito che testimoni l’esistenza di un rapporto strutturale e strumentale (Sez. 6, 27750/2012).

Nelle cose che costituiscono il prezzo, il profitto o il prodotto del reato, deve ricomprendersi anche ciò che sia stato guadagnato con attività economiche formalmente lecite, ma gestite attraverso l’esercizio della forza di intimidazione mafiosa. Sotto questo profilo, formano oggetto della confisca obbligatoria gli utili derivanti da un’impresa mafiosa. L’estensione inoltre, della confisca alle cose che costituiscono “impiego” del prezzo, del prodotto e del profitto del reato si propone, innegabilmente, di colpire ogni reinvestimento successivo dei profitti delittuosi e degli stessi utili dell’impresa mafiosa e, pertanto, anche le destinazioni sostanzialmente lecite delle utilità (SU, 2798/1994). Ciò premesso, anche un’impresa, compresi tutti i suoi beni, può essere oggetto di ablazione ai sensi della citata norma in quanto “strumento” del reato associativo mafioso. Tuttavia, ai fini della confiscabilità dei beni in questione occorre che sia positivamente dimostrata una correlazione, specifica e concreta, tra la gestione dell’impresa e le attività riconducibili al sodalizio criminale (Sez. 2, 948/2019).

Nell’ipotesi in cui l’impresa sia sostanzialmente posta sotto il controllo della consorteria che utilizzi la stessa da “schermo” per le proprie illecite attività, la stessa finisce per divenire lo strumento operativo per la realizzazione del programma criminoso: questo determina una contaminazione irreversibile dei meccanismi di accumulazione della ricchezza prodotta dalla stessa che rende impossibile la distinzione tra capitali illeciti e capitali leciti (Sez. 6,  3296/2018, in cui si affermato che il sequestro finalizzato alla confisca ai sensi dell’art. 416-bis, comma settimo, può avere ad oggetto l’intero patrimonio e le quote di una società allorché questa sia qualificabile come “impresa mafiosa” e, cioè, quando vi sia una totale sovrapposizione tra compagine associativa e sodalizio criminoso, ovvero l’intera attività sia frutto dell’impiego di risorse economiche provento di delitto, oppure qualora l’impresa sia direttamente sottoposta al controllo dell’associazione mafiosa). Infatti, dal momento che l’impresa è un’entità da intendere in modo unitario, una volta accertata la natura illecito-mafiosa dell’attività imprenditoriale, in quanto utilizzata per la consumazione di condotte delittuose, va necessariamente sottoposto a sequestro (e a successiva confisca) tutto il complesso delle quote e dei beni aziendali, non potendosi più operare una distinzione tra capitale originariamente lecito e capitale di provenienza illecita immesso successivamente, posto che l’impresa ha avuto la possibilità di espandersi e di produrre reddito proprio grazie all’uso distorto (in quanto “mafioso”), che è stato fatto dei suddetti beni (anche se originariamente acquisiti in modo lecito) e con l’ulteriore conseguenza che, anche le entrate progressivamente reimpiegate per l’ulteriore sviluppo aziendale, devono ritenersi connotate da quella illiceità (Sez. 2, 42525/2017) (riassunzione dovuta a Sez. 2, 948/2019).