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Commisurazione della pena e necessità di motivarla

Nota a Cass. pen., sez. III, sentenza n. 7075/2022
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Commisurazione della pena e necessità di motivarla: nota a Cass. pen., sez. III, sentenza n. 7075/2022


La questione posta dal ricorrente

La recentissima decisione richiamata nel titolo ha consentito ai giudici di legittimità di sottolineare alcuni principi che, sebbene scontati, sono spesso disattesi nella prassi.

Il ricorrente ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p.) per essere stato condannato, in quanto responsabile del reato di distribuzione per il consumo di sostanze alimentari con cariche macrobiotiche superiori ai limiti previsti, ad un’ammenda di € 10.000, ben più alta del minimo edittale fissato in € 309,88, senza che la decisione impugnata spiegasse adeguatamente le ragioni di una sanzione così elevata.


La decisione della Corte di Cassazione

Il collegio di legittimità ha accolto il ricorso, ravvisando un vizio di motivazione.

Ha osservato che la scelta di un trattamento sanzionatorio che si discosta notevolmente dal minimo edittale richiede, per consolidata giurisprudenza, una specifica motivazione.

Non può dirsi tale quella affidata a ad espressioni prive di reale capacità definitoria ed esplicativa, come ad esempio “pena equa” o “congruo aumento” e sono ugualmente insoddisfacenti richiami generici alla gravità del reato o alla capacità a delinquere.

Ha conseguentemente annullato con rinvio la sentenza impugnata.


Qualche considerazione

Molti studiosi affermano che la determinazione della pena da infliggere al reo e i relativi criteri di commisurazione sono una sorta di buco nero del giudizio penale poiché a nessuno (verosimilmente neanche al giudice) è dato comprendere perché, a fronte di una certa condotta penalmente rilevante, segua una certa pena piuttosto che un’altra più bassa o più alta.

Lo afferma, tra gli altri, Giovanni Fiandaca, nel suo articolo “Pena “giusta” per un giusto processo, pubblicato sul Foglio il 25 ottobre dello scorso anno.

Il giurista siciliano fa tuttavia un importante distinguo: mentre è sostanzialmente impossibile un calcolo preciso della pena davvero giusta nel singolo caso, è per contro non solo possibile ma anche relativamente facile comprendere quando una pena è ingiusta per eccesso o difetto rispetto alla consistenza del fatto di reato per il quale è stata inflitta.

Questa comprensione – aggiunge Fiandaca – sarebbe però possibile solo se PM e giudici dedicassero alla richiesta della pena ed alla sua applicazione un’attenzione che invece è quasi sempre assente.

È un deficit di attenzione capace di provocare gravi conseguenze poiché dove mancano studio e riflessione lì proliferano sensibilità personali e fattori emotivi che sfuggono ad ogni possibilità di controllo razionale.

Aumenta contestualmente il rischio che la pena concretamente inflitta sia quella che viene “sentita” come più adeguata ad aspettative collettive, che a loro volta possono essere esacerbate dagli umori del momento, e scompare sullo sfondo la finalità rieducativa che i Costituenti avevano assegnata alla sanzione penale.

E poiché siamo ancora profondamente immersi nella stagione del “piacere punitivo” nel senso accreditato da Didier Fassin della punizione come una tra le più potenti passioni contemporanee, il sentire medio del giudice, che segue all’analogo sentire del legislatore, va nella direzione dell’eccesso di pena piuttosto che del difetto.

E poiché tanto più un sentire è conforme allo spirito dei tempi tanto meno gli si dedicano spazi di ripensamento, ecco che pare naturale e scontato non solo punire una contravvenzione con una sanzione pari a più di trenta volte il minimo edittale ma anche non dedicare un rigo a spiegare questo rigore.

È così e basta.

I giudici di legittimità hanno detto invece di no, che non basta affatto. Meglio così, decisamente.