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Riflettendo sul linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio

femminicidio e linguaggio
femminicidio e linguaggio

Nel 1970 Monica Vitti interpretava il film di Ettore Scola Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) – in cui la protagonista veniva uccisa dal suo ex fidanzato, interpretato da Marcello Mastroianni, che diceva di amarla, anzi di amarla “come un pazzo”. Sono trascorsi cinquant’anni, quindi, da quel racconto che mesco­lava a piene mani i concetti di amore e violenza, e che finiva per sminuire la responsabilità dell’uomo assassino – condannato infatti a una pena irriso­ria – perché provocato dalla decisione della donna di lasciarlo per un altro uomo, che l’avrebbe fatto impazzire. Il mio saggio Parole e pregiudizi [1] parte proprio da questo interrogativo: in cinquant’anni come e quanto è cambiata la narrazione del femminicidio?

 

La cronaca dei giornali e dei telegiornali continua a raccontarci uccisioni di donne da parte, per lo più, di uomini a loro vicini, compagni o ex. I dati del Ministero dell’Interno ci dicono, infatti, che gli omicidi di uomini avvengono per lo più nel contesto della criminalità organizzata e sono commessi per lo più da persone sconosciute, mentre le uccisioni di donne avvengono in larga maggioranza nel contesto familiare e amicale, per mano di persone conosciutissime [2].

 

Non si tratta di un fenomeno criminale come gli altri, perché tali uccisioni sono motivate dalle aspettative di genere che la nostra cultura ha nei confronti delle donne: ci si aspetta dalle donne un certo ruolo, certi comportamenti, certe caratteristiche, ed è proprio nel momento in cui una donna si allontana da quel ruolo che l’uomo si sente in diritto di punire questa ribellione in modo violento. Si tratta quindi di un fenomeno strutturale della nostra società, non di un’emergenza; si tratta inoltre di un fenomeno trasversale, che interessa tutti i contesti socio-culturali ed economici; si tratta di un fenomeno pervasivo, nei cui con­fronti nessuno può considerarsi immune, perché affonda le proprie radici nella cultura che tutte e tutti condividiamo.

Questa consapevolezza dovrebbe ormai essere acquisita, eppure così non è. E la stampa ha una rilevante responsabilità in questo contesto. La lingua e le parole sono uno strumento di potere. E chi utilizza la lingua e le parole per mestiere ha un potere enorme, perché costruendo ogni frase orienta l’interpretazione di chi legge decidendo di rappresentare in un certo modo la realtà sociale. Ogni parola che si sceglie di utilizzare porta con sé il bagaglio culturale che chi parla o scrive ha su quel tema, ma anche gli stereotipi e i pregiudizi sociali e culturali con cui tutti e tutte siamo cresciuti. “La lin­gua non solo manifesta, ma condiziona il nostro modo di pensare: incorpora una visione del mondo e ce la impone” [3].

I giornali hanno quindi una responsabilità quotidiana nella narrazione di un grave fenomeno sociale quale è la violenza maschile contro le donne, che, radicando la propria origine nella cultura, ancora di più si scontra con quei pregiudizi e quegli stereotipi che è indispensabile combattere per eli­minarla. Dire qualcosa in un certo modo significa pensare quel qualcosa in un certo modo; e significa condizionare anche chi legge a pensarlo in quel modo. Il modo in cui si racconta la violenza maschile contro le donne non è mai neutro, e pensare che il/la giornalista di cronaca si limiti a riportare fatti in modo puramente oggettivo è irreale: è inevitabile che il linguaggio di chi scrive rispecchi sempre la sua cultura e le sue idee su quel particolare argomento o contesto.

Partendo quindi dal presupposto che la violenza di genere sia un problema cul­turale, che deve trovare la propria soluzione nella cultura e non solo nella legge, con Parole e pregiudizi ho voluto analizzare il linguaggio che i quoti­diani italiani scelgono di utilizzare nel riportare in cronaca i casi di femmi­nicidio, al fine di verificare se la narrazione che viene restituita a chi legge sia coerente o no con gli obiettivi di prevenzione della violenza e di ogni forma di discriminazione. Dopo essermi confrontata con altre ricerche condotte da studiose in questo campo [4], ho voluto condurre un’analisi degli articoli comparsi sui più diffusi quotidiani italiani nell’arco di un anno tra aprile 2019 e aprile 2020 riguardanti 26 casi di donne uccise da un uomo identificato con cui avevano o avevano avuto una relazione intima. Ho analizzato, quindi, in maniera critica il discorso mediale, interrogandomi non solo su cosa viene detto, ma anche e soprattutto su come viene detto.

Ho potuto così verificare che la stampa italia­na, nel riportare i casi di femminicidio, tende a fornire al lettore un frame inter­pretativo che deresponsabilizza l’azione violenta dell’uomo, rappresentando per lo più il fatto come un delitto d’impeto, determinato da un discontrollo episodico, e causato spesso da un comportamento della donna che ha deluso le amorose aspettative del partner, con la conseguenza di isolare ciascun evento dall’altro senza coglierne la comune matrice culturale.

Il caso che apre la mia indagine è oltremodo esplicativo: il 25 agosto 2019 scompaiono Elisa Pomarelli e Massimo Sebastiani dopo un pranzo sulle colline di Piacenza. Quattordici giorni dopo vengono ritro­vati: lui è vivo, lei no; lui ha ucciso lei e ne ha occultato il cadavere per poi nascondersi fino alla cattura. Massimo ed Elisa non avevano una relazione sentimentale, erano amici; lui avrebbe voluto di più, mentre lei gli aveva sempre assicurato che nulla di più ci sarebbe stato tra loro. Massimo ha uc­ciso Elisa perché lei ha esercitato il diritto di dire di no, un no che gli uomini figli del patriarcato si rifiutano ancora di accettare. Perché gli uomini che uccidono le donne non sono pazzi, malati o figli di un’altra cultura diversa dalla nostra, sono figli della nostra cultura, di quella cultura che ha sempre detto – e in una certa misura continua a dire – che le donne hanno un deter­minato ruolo sociale dal quale non è possibile prescindere. Questi sono i fatti, per questo Elisa Pomarelli è stata uccisa. Ma la stampa italiana ha raccontato la sua morte in tutt’altro modo. L’inizio di settembre ha visto apparire sui quotidiani nazionali un’informazione superficiale e ric­ca di stereotipi volti a sminuire l’azione di Massimo Sebastiani e a provare compassione per lui. Tra tutti emerge il titolo su «il Giornale» che definisce l’assassino un “gigante buono”. Come si può definire buona una persona che ha ucciso? In un sussidiario delle scuole elementari qualunque bambino/a che in un esercizio di associazione tra sostantivi e aggettivi (del genere erba/verde, ghiaccio/freddo) associasse al sostantivo “assassino” l’aggettivo “buono” si ritroverebbe un segno rosso e un brutto voto. Eppure qui si sostiene – anzi, si implica – che Massimo Sebastiani ha sì ucciso, ma è comunque una buona persona. In secondo luogo si affianca il concetto di amore a quello di omicidio, affermando – anzi, implicando – che Massimo Sebastiani ha ucciso perché era un innamorato non corrisposto, ha ucciso per troppo amore. Sull’ossimorico concetto della violenza dell’innamo­rato ho a lungo riflettuto nel saggio Se questo è amore. La violenza maschile contro le donne nel contesto di una relazione intima [5]: quale migliore prova che quest’uomo non amava questa donna del fatto di averla uccisa? L’amore, l’affetto, è di per sé un sentimento opposto alla violenza, all’aggressione, al male. Eppure la stampa continua a riproporci quest’ossimoro avallando lo stereotipo dell’uomo che ha ucciso ma, poverino, era tanto innamorato di lei. È ancora forte l’eco del delitto d’onore, abrogato dal codice penale ma vivo nella cultura degli italiani. Il problema di questo genere di narrazione è che non solo attenua la respon­sabilità dell’assassino, ma colpevolizza la vittima, della quale si dice che è stato il suo comportamento a scatenare la violenza dell’uomo che mai in altre circostanze aveva e avrebbe agi­to così. Cioè noi donne dobbiamo essere in grado di controllare e limitare il nostro comportamento per riuscire a controllare e limitare quello degli uomini che non ne sono capaci autonomamente!

Allora diventa evidente perché è così importante riflettere sul linguaggio, riflettere non solo su cosa ci viene raccontato ma soprattutto su come ci viene raccontato. Perché l’informazione non solo informa, ma forma le nostre idee sulla realtà in cui viviamo. Il giornale non solo ci dice cosa è successo, ma anche cosa dobbiamo provare nei confronti di ciò che è successo.

E dobbiamo tristemente constatare che alla crescente presenza di femminicidi nella stampa italiana non è seguita una maggiore attenzione al modo in cui viene proposta la narrazione di tali fatti. Sembra che l’accresciuta notiziabilità del femminicidio sia connessa all’accresciuta notiziabilità della cronaca nera, e non invece alla riflessione su un problema socio-culturale relativo al rapporto uomo-donna. Al posto di scrivere che lui l’ha uccisa per­ché era stato lasciato o perché il suo amore non era corrisposto, bisognereb­be scrivere che lui ha ucciso lei perché non accettava la libertà della donna, la sua autonomia di decisione, perché non concepiva che lei fosse libera di rifiutarlo, perché non la vedeva come una persona ma come un oggetto. Al posto di colpevolizzare la donna uccisa, perché l’aveva lasciato, o perché non l’aveva lasciato o denunciato dato che era violento, bisognerebbe imparare che l’unica persona da colpevolizzare è chi ha commesso il crimine.

“Qualche mezzo d’informazione ospita talvolta l’opinione di chi avanza l’idea che dietro alla morte delle donne non ci sia per niente l’amore, ma una cultura che assegna loro un minor valore umano e un ruolo sociale subordinato, nor­malizzando la loro soppressione quando se ne discostano; ma questa lettura non è mai presente nelle pagine di cronaca in cui vengono date le notizie dei femminicidi e la loro ipotetica spiegazione. L’editoriale controcorrente lo scor­reranno in pochi, ma la storiaccia in cronaca invece la leggeranno tutti, con­vincendosi ulteriormente che la prima causa della morte violenta delle donne sia di volta in volta l’amore di uomini malati oppure la malattia di uomini innamorati.” [6]

Merita una riflessione questo passo scritto riguardo al femminicidio di Eli­sa Ciotti:

«Ci deve essere una maledizione su questo quartiere. Un incantesimo al contrario scagliato sulle donne che vivono qui». Pasqualina è una donna anziana che si trascina per il quartiere popolare San Valentino di Cisterna di Latina, sotto un’afa agostana, scuotendo la testa. La notizia dell’ennesimo femminicidio, accaduto a due passi da dove lei vive, in via Palmarola la porta subito con la mente alle storie di altre donne nate e cresciute lì il cui epilogo è stato tragico. […] Tre donne, tre destini spenti dalla violenza di uomini respinti. In poco più di un anno Cisterna di Latina piange una giovane stuprata e poi morta, e due donne vittime della rabbia di amori non corrisposti. […] Pasqualina è convinta davvero si tratti di una (sic) maleficio da cui si sfugge solo scappando via. (Repubblica, 11/06/2019) Ebbene non si tratta affatto di un maleficio. Forse sarebbe più facile trova­re l’antidoto se lo fosse. Si tratta invece di una distorsione culturale talmente profonda e radicata nella nostra società da non essere spesso vista, e talmente difficile da combattere che appare più facile ignorarla, continuando ad attri­buire il problema solo a qualcuno, a qualcun altro.

In Parole e pregiudizi ho voluto ripercorrere anche i principali studi condotti riguardo all’influenza e agli effetti dei mass-media; qui mi limito a segnalare che se tutta la stampa ripropone in modo coerente e persistente lo stesso tipo di lessico e gli stessi frame narrativi per descrivere la violenza maschile contro le donne, inevitabilmente l’accu­mulazione di questi messaggi ha una potente influenza sul pubblico di lettori e lettrici, che, non avendo nella maggioranza dei casi un’autonoma forma­zione su questo tema, accetterà come vero ciò che viene loro detto e come viene loro detto.

“Cambiare il linguaggio significa, utilizzando quello più appropriato, anche po­ter dare un contributo importante nel rappresentare correttamente il proble­ma e contribuire a combattere quei luoghi comuni e quegli stereotipi che tanta parte hanno nell’alimentare la violenza contro le donne. Affinché proprio per il tramite della comunicazione la violenza di genere possa emergere come un quadro socio-culturale di insieme, quale esso realmente è, e non come una mera sequela di fatti accidentali e isolati non riconducibili in un unico, se­colare fenomeno di usurpazione di controllo e possesso maschili sul genere femminile” [7].

L’obiettivo e la speranza di chi come me riflette sul potere delle parole è che i mass media comprendano l’importanza dell’utilizzo di un linguaggio corretto e assumano l’impegno di dare il proprio contributo al progresso della società in cui tutte e tutti viviamo, e in cui soprattutto crescono le nostre bambine e i nostri bambini. Loro hanno diritto di avere un futuro migliore e libero da pregiudizi.

 

[1] M. Dell’Anno, Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio, LuoghInteriori, Città di Castello (PG) 2021.

[2] Ministero dell’Interno, Dossier Viminale, 1/08/2018 – 31/07/2019, in https://www.interno. gov.it/it/sala-stampa/dati-e-statistiche/ferragosto-2019-dossier-viminale. Si veda anche ISTAT, Omi­cidi di donne, 2018, in https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/omicidi-di-donne.

[3] G. Priulla, La quotidiana responsabilità della parola, in F. Dente, A. Cagnolati (a cura di), Comunica­zione di genere tra immagini e parole, FahrenHouse, Salamanca 2019, p. 9.

[4] In particolare si segnalano qui, tra le altre:

L. Lipperini, M. Murgia, “L’ho uccisa perché l’amavo” Falso!, Roma-Bari, Laterza, 2013;

C. Gius, P. Lalli, “I loved her so much, but I killed her”. Romantic love as a representational frame for intimate partner femicide in three Italian newspapers, in «ESSACHESS. Journal for Communication Studies», vol. 7, no. 2(14) / 2014, pp. 53-75;

E. Giomi, Tag femminicidio. La violenza letale contro le donne nella stampa italiana, in «Problemi dell’infor­mazione» 3/2015, pp. 549-574;

S. Abis, P. Orrù, Il femminicidio nella stampa italiana: un’indagine linguistica, in «Gender Sexuality Italy», 3/2016, pp. 18-33;

E. Giomi, S. Magaraggia, Relazioni brutali. Genere e violenza nella cultura mediale, Il Mulino, Bologna 2017.

[5] M. Dell’Anno, Se questo è amore. La violenza maschile contro le donne nel contesto di una relazione intima, LuoghInteriori, Città di Castello (PG) 2019.

[6] L. Lipperini, M. Murgia, “L’ho uccisa perché l’amavo” Falso!, cit., p. 4.

[7] N. Somma, L. Martini, Le parole giuste, presentARTsì, Castiglione delle Stiviere (MN) 2018, p. 14.