Dalla parte delle vittime
Dalla parte delle vittime
La vittimologia è una disciplina la cui origine viene ricondotta al 1948, quando Von Henting pubblicò il libro intitolato “The Criminal and His Victim”: il primo autore a studiare specificatamente le vittime del crimine.
In Italia, questa materia è stata oggetto ben presto addirittura di due volumi: uno risalente al 1976 dal titolo “La vittima” e l’altro pubblicato nel 1980 dal titolo “Dalla parte della vittima”. Sulla scia di quest’ultimo titolo, nasce il tema del presente articolo.
La vittimologia può essere definita come quella branca della criminologia che ha per oggetto lo studio della vittima del reato, della sua personalità, delle sue caratteristiche biologiche, psicologiche, morali, sociali e culturali, delle sue relazioni con l’autore di reato e del ruolo che essa ha assunto nella criminogenesi e nella criminodinamica (Gulotta, 1976; Gulotta, & Vagaggini, 1980).
Dal punto di vista etimologico, la parola vittimologia deriva dal latino "victima" e dalla radice greca "logos". La parola "victima" ha due significati: uno implica che l’essere vivente si sacrifichi a una divinità o in un rito religioso, mentre il secondo è quello che viene utilizzato in criminologia e nei campi correlati e, secondo Emilio Viano, vittimologo, professore di Criminologia e Vittimologia all’Università di Washington e direttore della rivista internazionale Victimology, si riferisce a “qualsiasi soggetto danneggiato o che abbia subito un torto da altri, che percepisce se stesso come vittima, che condivide l’esperienza con altri cercando aiuto, assistenza e riparazione, che è riconosciuto come vittima e che presumibilmente è assistito da agenzie e strutture pubbliche, private o collettive”. (Drapkin, & Viano, 1974; Balloni, & Viano, 1989).
La vittimologia è nata come disciplina per ragioni preventive, diagnostiche e riparative e, come tale, riguarda le vittime in generale. Le predisposizioni vittimogene specifiche possono essere così schematizzate:
Sostanzialmente lo spettro di soggetti che possono essere vittime è davvero molto ampio ed è distribuito non equamente nella società, perché alcuni possono essere più esposti di altri e sono quelli che vengono considerati le vittime, cosiddette fragili. Addirittura, nelle Procure della Repubblica del nostro Paese ci sono alcuni sostituti procuratori che sono specializzati nelle fasce cosiddette deboli, quelle categorie sociali in cui vengono inseriti normalmente le donne e i bambini. Tuttavia, ciò conduce a delle disuguaglianze nella tutela delle vittime, dato che il genere e la giovane età non sono i soli fattori predisponenti, per cui alcune vengono privilegiate rispetto ad altre.
In questo lavoro si vuole sottolineare come non sia consona tale asimmetria tra le vittime e come i propri giudizi sulla realtà siano viziati dalla mancanza di conoscenza dei dati: questo fa credere che delle situazioni siano più pericolose e/o dannose di quanto non lo siano e viceversa.
Guardiamo i numeri
Essi ci dicono, per esempio, che, in generale, gli omicidi sono diminuiti: nel 2019 gli omicidi sono 315 (345 nel 2018), di cui 204 uomini e 111 donne, nel 2021 risultano in lieve calo, ne sono stati commessi 303, di cui 184 uomini e 119 donne, mentre, secondo il bilancio di fine anno della Polizia di Stato, nel 2022 gli omicidi sono stati 309. Nel 1990 gli omicidi in Italia erano 3.012 e negli ultimi 15 anni i numeri sono in calo costante (erano 632 nel 2007). Confrontando i dati con quello degli omicidi in Europa, per 100mila abitanti, su 32 Paesi esaminati, l’Italia ha un tasso dello 0,6%, risultando il Paese più sicuro, dopo la Norvegia e la Svizzera. Nonostante ciò, è presente una percezione sociale che non corrisponde alla realtà. Lo si nota osservando l’andamento dei reati legati alla microcriminalità nelle sei più importanti città in 10 anni (2009-2019), ponendolo a confronto con il 2021, attraverso i dati forniti a Dataroom dal ministero dell’Interno su Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna e Napoli. Dai dati si esclude il 2020, perché tra il lockdown e la pandemia tale anno non può avere un reale valore statistico.
La tendenza generale delle rapine in abitazione è al ribasso. A Milano crollano dopo il picco del 2013: i casi diminuiscono del 60%. Anche a Roma, Napoli e Torino l’apice si registra tra il 2013 e il 2015, mentre restano sempre sotto i 70 casi a Bologna e Firenze.
Diminuiscono a Milano anche le rapine nei negozi: dal 2012 in poi si scende del 50%. Solo a Firenze e Bologna il dato sul decennio rimane in costante equilibrio, mentre il calo è sensibile anche a Roma, Torino e Napoli.
I furti semplici nei negozi a Milano per anni oscillano intorno ai 10-12 mila, ma dal 2015 la curva inizia a scendere e nel 2021 i furti sono 7.218. Crollano anche nelle altre città, mentre restano stabili, con una tendenza al ribasso più lieve a Firenze e Napoli.
Per quanto riguarda il furto in casa, i dati sono in discesa. A Milano i furti in abitazione toccano il picco nel 2013 e nel 2014 con oltre 20 mila casi: oggi sono meno 57%. E scendono anche a Roma, Torino, Bologna. Costanti a Napoli, mentre a Firenze il picco dei furti in abitazione si registra nel 2018 e nel 2021 sono la metà.
I borseggi diminuiscono a Roma, Torino e Bologna. Restano invece costanti a Napoli, Milano e Firenze. Nel capoluogo toscano il picco si registra nel 2019 (9.389), ma si riducono di due terzi (3.020) nel 2021. Il 2021 coincide, però, con il forte calo del turismo dovuto alle restrizioni per il Covid. A Milano nel decennio non si scende mai sotto i 20 mila casi: sono 21.560 nel 2021. Più di Roma dove sono 17.234, ma in costante discesa dal 2015. È il reato che più ha risentito del calo, nei valori assoluti, rispetto al passato. Nel capoluogo lombardo c’è stato un picco nel 2009 di 42 casi, ma dal 2016 in avanti si scende sotto quota 20. Stesso andamento a Roma: dai 47 casi del 2014, i delitti si sono poi stabilizzati intorno ai 20. La tendenza su Bologna e Firenze è altalenante: un anno 12, un altro anno 5.
Relativamente alle violenze sessuali, Bologna con 195 episodi segna il suo record assoluto degli ultimi dieci anni. A Milano nel 2021 si sono registrate 477 violenze, più di un caso al giorno, contro le 413 del 2019. Il picco nel 2009 con 520. Napoli con 206 casi si avvicina ai massimi del decennio. Le violenze non calano neanche a Torino, Roma e Firenze. Oggi il reato comprende, però, molte sfumature un tempo regolate da diversi articoli di legge: dagli atti di libidine allo stupro. Dal 2019 è stata introdotta una modifica del Codice penale denominata «Codice Rosso» per ciò che riguarda gli episodi che avvengono in famiglia, che innalza l’attenzione delle forze dell’ordine con interventi più celeri: rispetto al passato si denuncia maggiormente, anche se è molto probabile che resti una quota elevata di notizie sommerse.
Rispetto alle tipologie di reati presi in considerazione, ci si domanda se siano gli immigrati a delinquere di più. Dal 2018 al 2021 l’incidenza degli stranieri su arrestati e denunciati è pressoché identica: 32,1% contro il 31,9 del 2021. La percentuale sale però se si parla di furti (43,2%), borseggi (58,7%), furti in casa (47,7%) e violenze sessuali (39,5%). Un’incidenza che crolla invece al 17,1% per quanto riguarda le frodi e truffe informatiche, per i reati tipicamente mafiosi, dove il delinquente di nazionalità italiana batte la concorrenza mondiale: usura ed estorsioni sono rispettivamente al 6,8% e 20,9% ad opera straniera. Sugli omicidi gli italiani mantengono costantemente il primato, solo il 21% è commesso da stranieri.
L’Indice della pace globale 2022 creato dall’Institute for Economics and Peace colloca l’Italia al trentanovesimo posto (su 163) nel mondo per sicurezza.
Ma, nonostante questi numeri, la percezione pubblica sul tema che si tratta è completamente differente e in questa discordanza tra sicurezza reale e insicurezza percepita possono giocare un ruolo importante anche i mass media: essi hanno potere e responsabilità, poiché possono influenzare la percezione delle persone che giorno dopo giorno ne fruiscono costruendo una percezione dei fenomeni che non ha corrispondenza nella realtà.
Come riportato anche da Gabanelli e Offreddu in Data Room del Corriere della Sera (8 giugno 2019), in Italia le notizie di cronaca nera trovano maggiore spazio rispetto a quanto avviene in altri paesi e se le persone sono esposte quotidianamente ad un flusso di notizie che parla di crimini e reati, è verosimile che pensino di vivere in una società più temibile di quanto non sia. Non stupisce, ad esempio, che, da quanto si legge in un articolo di Fabio Poletti sul La Stampa (17 aprile 2017), il questore di Milano Marcello Cadorna si ritrovi continue richieste di licenza per ottenere il porto d’armi anche se i reati in città sono in diminuzione: le rapine in casa sono scese del 17,6% e quelle negli esercizi commerciali del 13%. Infatti, secondo il questore, “la vera sfida che attende le forze dell’ordine è la percezione della sicurezza tra i cittadini”.
I dati sui femminicidi non crescono e rimangono stabili: l’allarme è giustificato dal fatto che, rispetto agli altri omicidi, si insiste a porre attenzione a riguardo, ma non c’è questa strage di cui si parla.
Secondo i dati ISTAT, in Italia nel 2019 sono avvenuti 101 femminicidi, ciononostante c’è l’impressione che ci sia una strage di donne. Quello che è vero però è che mentre gli omicidi generali sono diminuiti, quelli nei confronti delle donne no. Secondo i dati ISTAT, in Italia nel 2019 gli omicidi sono 315 (345 nel 2018): 204 uomini e 111 donne. Gli omicidi sono in calo fin dagli anni Novanta, ma in ambito familiare o affettivo aumentano invece le vittime: 150 nel 2019 (47,5% del totale); 93 vittime sono donne (l’83,8% del totale degli omicidi femminili). Il tasso di omicidi in Italia è 0,53 per 100mila: su 100mila persone dello stesso sesso il tasso di omicidi di maschi è passato da 1,65 a 0,70 omicidi annui, contraendosi del 58%, mentre il tasso di omicidi di femmine è passato da 0,64 a 0,36 omicidi annui, perdendo il 44%. Una differenza evidente, ma non affatto strabiliante, come invece si suole ritenere. Nel 2021 sono 104 femminicidi su un totale di 119 omicidi con una vittima donna: sono 70 le donne uccise nell’ambito della relazione di coppia (il 58,8%, di cui il 45,4% dal partner e il 13,4% dall’ex partner), 30 le donne uccise da un altro parente (il 25,2%) e 4 quelle uccise da conoscenti in ambito affettivo o relazionale (il 5%). Per le restanti 15 donne vittime, servirebbero maggiori informazioni per poter definire se sono omicidi legati alla motivazione di genere. Nel 2022, invece, sono 124 le donne uccise, di cui 102 sono state uccise in ambito familiare o affettivo e, di queste ultime, 60 sono state uccise dal partner o dall’ex partner. Si tratta di numeri alti, ma si nota una piccola flessione rispetto all’anno 2021: i delitti commessi in ambito familiare o affettivo passano da 148 a 139 (-6%); calano anche le vittime di genere femminile che diminuiscono da 104 a 102 (-2%). Inoltre, si riduce sia il numero di omicidi commessi dal partner o dall’ex partner, da 78 a 66 (-15%), sia il numero di vittime donne, da 70 a 60 (-14%). Per gli omicidi di donne l’Italia ha uno dei tassi più bassi del mondo ed il più basso tra tutti i Paesi più grandi.
Ma il dramma specifico, connesso ai femminicidi, sono i bambini che rimangono, perché, solitamente, la madre è stata uccisa e il padre è in carcere o si è suicidato. Anna Costanza Baldry, insieme alla rete nazionale dei centri antiviolenza D.i.re, fece per prima luce sugli orfani di vittime di femminicidio: li definì «creature speciali» perché hanno «bisogni straordinari» e sono «in cerca di affidatari che possano offrire un appiglio per un nuovo cominciamento nonostante il più violento dei lutti» (Baldry, 2017). Sono orfani due volte: della madre uccisa e del padre omicida. Ogni anno in Italia le madri vittime di femminicidio lasciano all’incirca 210 figli. Da un’indagine della Commissione femminicidio svolta nel 2017 e nel 2018, sono 169 i figli rimasti orfani dopo l’omicidio della madre: il 39,6% è minorenne e un terzo ha perso anche il padre perché si è suicidato dopo il femminicidio. Quasi un figlio su due (46,7%) ha assistito a precedenti violenze del padre sulla madre. Su 169 sono 29 i figli presenti al femminicidio (21 minorenni), 50 quelli che hanno trovato il corpo della madre (19 minorenni). Nel 2022 sono circa 2.000 gli orfani “speciali” in Italia, ovvero i figli, maggiorenni e minorenni, delle donne uccise che assistono o che anche subiscono in maniera diretta le violenze. Tuttavia, non esiste un censimento ufficiale. Questi bambini e ragazzi hanno una situazione familiare devastata e, nel caso in cui non hanno parenti disponibili a prendersi cura di loro, vengono affidati ad altre famiglie o a centri per il supporto familiare.
Ma da cosa dipende, dunque, il divario tra la realtà sociale e la sua percezione?
La paura è presente in tutti, guida l’azione ed il pensiero. Tito Lucrezio Caro distingueva varie sfumature di tale stato d’animo. Il terror proviene dall’esterno e spesso viene provocato da un’aggressione. L’horror è una reazione istintiva. Il pavor è il panico e si percepisce quando l’anima si restringe e si diviene incapaci di reagire. Con il metus la paura diventa cronica: in questo caso essa è instrumentum regni, un insieme di superstizione e politica. Ed in ciò si nasconde la prevaricazione. Non si può accusare la vittima, ma l’uso politico. Lucrezio espone le parole dei sacerdoti pagani che generano terrore e che impauriscono le persone, in maniera infondata e proprio per questo le più pericolose.
La ragione per cui riteniamo che ci sia più violenza di quanto non ci sia o che, ad esempio, le donne siano più uccise di quanto non siano dipende dall’euristica della disponibilità, una tra le euristiche scoperte da Amos Tversky e Daniel Kahneman nel 1972: consiste nel valutare l'evento basandosi sulla facilità con cui ti viene in mente un esempio o un caso simile; infatti, gli incidenti stradali sono meno enfatizzati dai mass media di un incidente aereo che normalmente fa più notizia. Il risultato è questo che siccome è un circolo vizioso perché i mass media insistono molto, parlando di donne maltrattate o di furti in casa o per strada o di incidenti aerei, e ciò ci fa diventare più preoccupati di queste cose e la preoccupazione diventa una profezia che si auto-adempie. Si ritiene più probabile ciò che viene più facilmente alla mente e cosa ci viene alla mente più facilmente? Quello che nei mass media viene enfatizzato, col risultato che è un circolo vizioso, perché essi raccontano ciò che le persone vogliono che venga raccontato loro.
I mass media hanno lo scopo di tenere alto il tasso di preoccupazione e questo accende maggiormente l’attenzione degli ascoltatori e dei lettori.
Prendiamo come esempio l’anno 1973, quando il prezzo del petrolio aumentò di quattro volte, anche allora per ragioni politiche e utilizzandolo come arma contro l’occidente. Il 22 novembre del 1973, il governo guidato da Mariano Rumor emanò un decreto che imponeva assieme ai rincari per i carburanti e per il gasolio da riscaldamento, anche un coprifuoco per limitare i consumi di energia (taglio dell’illuminazione pubblica, abbassamento della tensione elettrica notturna, riduzione degli orari dei negozi, chiusura anticipata per cinema, bar e ristoranti, sospensione alle 23 dei programmi televisivi, limiti di velocità). Il 2 dicembre del 1973 arrivò la prima domenica di stop alle auto private e agli altri veicoli a motore non autorizzati, misura che durò fino al 10 marzo 1974 con un risparmio per ogni giornata “a piedi” di 50 milioni di litri di carburanti. Per l’inverno appena passato, il governo italiano decise che i riscaldamenti dovevano essere ridotti di un grado e accesi un’ora in meno al giorno a seconda delle fasce climatiche, con qualche blando consiglio per usare con parsimonia il gas: docce tiepide e brevi, bollire l’acqua chiudendo la pentola con il coperchio, staccare la spina della tv una volta spenta e una serie di raccomandazioni da economia domestica. Non sono stati enormi sacrifici, sono certo molto più leggeri di quelli degli anni Settanta, ma sono serviti a qualcosa? Gli italiani non moriranno di noia, di fame o di freddo per il ripetersi di questi fenomeni, ma l’importante è non farli morire di paura.
Quando avviene la trasformazione da fenomeno a problema può capitare, a causa del meccanismo provocato dall’euristica della disponibilità, che si travisino i fatti o che si includano nei problemi dei fenomeni che tali non sono (Gulotta, 1999). Come, ad esempio, a riguardo delle molestie nei confronti delle donne, se tentare di baciare una donna è una molestia, allora la maggior parte degli uomini hanno molestato. Sono entrate nel rango di molestie, cose che prima non lo erano, come, ad esempio, il tentativo di baciare o di accarezzare. Ancora, discutendo del maltrattamento infantile, esso è un fenomeno particolarmente raccapricciante. Il fatto che la famiglia, sede naturale dell’allevamento della prole, possa essere teatro e scuola di violenza desta preoccupazione. In Italia si è acuita la sensibilità per questo fenomeno, che è diventato un vero e proprio problema sociale. Nel momento in cui si vuole intervenire a fini diagnostici, preventivi e riparativi in un fenomeno sociale, è importante valutarne la portata, non solo in senso statistico ma anche ponderando come gli operatori del settore e tutti coloro che se ne occupano definiscono il fenomeno.
Cercando di definire in occasione di un congresso (Gulotta, 1989) il “maltrattamento psicologico sui minori”, qualunque attività di controllo dei genitori sul comportamento del figlio potrebbe essere definito tale. Al crescere della sensibilità per un fenomeno aumenta il numero di chi si riconosce o viene riconosciuto come danneggiato da quella condizione, se non altro perché essa viene denunciata, anziché nascosta, alle agenzie di tutela e di controllo. Viene amplificato il fenomeno:
- La drammatizzazione dei fatti porta per l’euristica della disponibilità a considerare più frequenti i fatti che sono rimasti più impressi nella propria memoria;
- L’ambiguità del fenomeno consente di far rientrare a discrezione un avvenimento nel problema. Quanti scappellotti fanno un bambino maltrattato? Oggi si insiste molto sui bambini maltrattati sessualmente, tuttavia dei bambini che vengono mandati a lavorare non se ne parla. Dove finisce l’uso dei mezzi di correzione consentiti dal Codice penale ai genitori e quando inizia l’abuso che è vietato?
- La divulgazione di statistiche fa sentire il deviante come parte di una porzione significativa della società e quindi non un responsabile solitario, il che può favorire una autolegittimazione del comportamento.
In tal modo, l’ampiezza del fenomeno tende ad aumentare nonostante l’esistenza di agenzie di controllo dello stesso, che pertanto chiedono maggiore forza proprio per poterlo affrontare.
È presente una certa confusione che nasce dal fatto che i problemi sociali sono costruzioni sociali. Esistono due concezioni riferite ai problemi sociali: quella obiettiva che ritiene che un problema divenga tale quando il fenomeno ha acquisito un livello di inaccettabilità tale da creare l’urgenza di intervenire per migliorare le condizioni che lo hanno determinato; e quella soggettiva, che ritiene invece che tali fenomeni vengano selezionati ed assemblati per potervi intervenire. Ciò suggerisce che esaminando un problema oltre che porre attenzione al fenomeno che vi è sotteso, si deve esaminare anche l’atteggiamento sociale di diversi gruppi nei confronti del fenomeno stesso.
Perché il fenomeno diventi un problema è necessario che:
- Non riguardi la maggioranza della società;
- Abbia rilevanza in relazione a qualche valore sociale;
- Si discosti, opponendosi o deviando, a referenti normativi, come leggi o regole sociali;
- Abbia un’incidenza ricorsiva e non sia meramente casuale o episodico;
- Costituisca per i consociati un costo di carattere economico o sociale;
- Si ritenga che possa farsi qualcosa per risolverlo o limitarne gli effetti.
Separando così i fenomeni dai problemi è evidente che:
- Esistono dei fenomeni sociali che non sono problemi perché non sono stati ancora diagnosticati o perché non hanno le caratteristiche specifiche per esserlo, come, ad esempio, il maltrattamento dei figli nei confronti dei genitori o i pedoni come vittime;
- Vi sono dei problemi a cui non corrispondono fenomeni, poiché trattasi di pseudo-fatti definiti fattoidi, come, ad esempio, gli untori e le streghe. In tali casi il problema è inventato. Voltaire giustamente diceva che le streghe, per far vedere come tutto questo sia un’attività di creazione della realtà, hanno smesso di esistere quando abbiamo smesso di bruciarle;
- Alcuni fenomeni diventano problemi sociali, come, ad esempio, l’intolleranza nei confronti degli extracomunitari non inseriti a livello sociale sta diventando razzismo;
- Taluni problemi sociali tornano ad essere fenomeni. Per esempio, la forza di pressione delle comunità LGBTQ+ e dei gruppi femministi ha indotto le comunità psichiatriche americane ad escludere l’omosessualità e i disturbi della menopausa dai manuali diagnostici, essendo considerati l’omosessualità un orientamento sessuale e i disturbi della menopausa accadimenti naturali nell’arco della vita di una donna.
Dunque, la situazione obiettiva è una condizione non sempre necessaria, ma comunque non sufficiente perché un fenomeno sociale diventi un problema sociale. Il passaggio da fenomeno a problema e viceversa non è correlato ad un cambiamento degli eventi, ma ad un mutamento dell’interesse e delle prospettive sociali nei confronti di quegli eventi.
Un problema si crea perché dei dati vengono assemblati e un problema sociale non esiste fino a che non viene definito come tale; quindi, i problemi sociali sono specificatamente quello che la gente pensa che essi siano. Di conseguenza, alcuni gruppi possono ritenere che un fenomeno esista, mentre altri possono pensare che lo stesso non esista.
Il problema sociale allora può essere concepito come il complesso delle attività di coloro che asseriscono l’esistenza di quelle condizioni che definiscono “il problema”. Sono queste le condizioni della “visibilità” del fenomeno.
Il passaggio da fenomeno a problema avviene attraverso una serie di tappe successive legate al comportamento di vari gruppi sociali di pressione come:
- Gruppi di valore, che giudicano inaccettabile una certa condizione;
- Gruppi di interesse, che possono agire nell’interesse proprio o di altri;
- Gruppi di protesta, che reclamano dei cambiamenti;
- Gruppi professionali, che si adoperano per diagnosticare, prevenire e trattare il problema.
Oggi i problemi che spaventano molto sono, ad esempio, le morti causate da droga o da alcool, perché è presente soprattutto l’idea del rispetto della vita umana e dell’integrità esistenziale.
I morti per dipendenza da droghe o tossicomania in Italia nel 2019, secondo i dati ISTAT, sono 151; per questo c’è tutto un movimento che non vuole che si liberalizzi le droghe cosiddette leggere (si intendono una varietà di sostanze psicoattive che tendenzialmente derivano dalla pianta della canapa e che possono prendere diversi nomi come cannabis, marijuana o hashish) perché questo sarebbe un primo passo verso fatti peggiori: ora mentre è vero che normalmente si pensa che una persona che fumi droghe leggere passi a fare uso di droghe pesanti, è anche vero che durante gli anni ‘60, ai tempi della cultura hippie, si fumava tranquillamente e queste persone non sono diventate tossicodipendenti. Ricordo un intervento congressuale raccolto da Monica Potzolu che feci dal titolo “Domande, pensieri, fantasie e paradossi sulla costruzione sociale del tossicodipendente” nel 1993:
- La droga fa male, per questo ne va punito il consumo.
Prima dei pasti ingerisco da qualche mese un cucchiaino di veleno per topi che ho comprato al supermercato. C’è stata una soffiata ai carabinieri. Anche il veleno per topi fa male, perché i carabinieri non sono venuti a prendermi per farmi smettere?
- La droga non è buona, per questo la assumono solo le persone con tendenze autodistruttive.
Ho cercato di spacciare del veleno per topi davanti ad una scuola, me lo hanno tirato dietro. Per invogliarli glielo davo gratis. Me lo tiravano dietro lo stesso. Possibile che io sia così sfortunato da non aver incontrato nessuno con tendenze masochistiche? Allora, i carabinieri non arrivano e non riesco a spacciare, perché il veleno per topi è voluttuario solo per me? I carabinieri arrivano solo se la sostanza è voluttuaria per molti e cioè piace a molti? Ma allora è cattiva o non è cattiva? Ho tentato di convincere i miei amici a non bere vino a tavola perché il vino è cattivo. Lo hanno assaggiato e mi hanno detto che è buono. Ho spiegato che il vino è cattivo perché ci sono gli alcolisti. Non sono riuscito a convincerli, perché?
- Perché ha cominciato a drogarsi?
Perché ero giù, tanto giù.
Come si è sentito dopo?
Meglio.
Allora perché ha continuato?
Perché poi mi sentivo più giù di prima.
Perché?
Per le ragioni di prima, più la mancanza di droga. E allora ho continuato a drogarmi.
- Perché ti droghi ragazzo?
Perché lo fanno tutti i miei amici.
Allora è colpa degli amici.
Sì, è colpa degli amici.
Ma, dimmi, con quali criteri tu selezioni gli amici?
- È giusto distinguere da droga a droga e avvertire che tutte le droghe fanno sempre male e sono pericolosissime perché danno assuefazione?
Se uno pensa che un fatto è reale, esso, anche se non lo è, lo diviene nelle sue conseguenze: se credo di essere indemoniato, mi uscirà la bava, bestemmierò e avrò le convulsioni. Se credo di aver bevuto un gin tonic, e invece era solo acqua tonica, mi comporterò da ubriaco, barcollerò e dirò cose bislacche. È fruttuoso allora dire che la droga è un tunnel buio dal quale una volta entrati è molto difficile uscirne?
Beh la gente non è poi così influenzabile.
Ma non ha cominciato a drogarsi proprio perché lo era?
- È conveniente allora che qualche esperto del ramo dica che i drogati sono delle vittime del sistema, della società, dell’ordinamento e non invece che sono delle persone che si fanno fregare da gente che ha interesse a farlo?
- Ma i drogati sono vittime emarginate, subculturali, poveri in canna.
Perché si drogava Elvis? Aveva 10 Cadillac. Perché attori, registi, gente della moda?
- A Milano si vendono più orologi, condizionatori d’aria e borse di coccodrillo che a Palermo. I drogati sono in percentuale di più a Milano che a Palermo. Allora la droga è figlia del disagio e dell’emarginazione sociale o del mercato economico?
- La droga non fa parte della nostra cultura!
Noi non abbiamo produzioni di droga. Produciamo però uva. L’alcool non è vietato da noi e le campagne e le sanzioni per far guidare sobri non le ha mai prese sul serio nessuno. Però la domenica mattina contiamo i morti per incidente stradale della sera precedente. Masticare foglie euforizzanti non è vietato nei paesi dove le loro piante crescono abitualmente. La cultura è ciò che si produce?
- La droga è contraria ai nostri principi morali che tutelano anche istituzionalmente l’integrità e la salute fisica dei cittadini.
Quest’anno ci sono stati più morti per alcool e fumo che per droga. E allora, perché lo Stato ha il monopolio sulla vendita del tabacco e incamera le tasse sugli alcolici?
- Al massimo si può lasciare impunita la piccola dose per uso giornaliero.
Ma così chi fa uso di droga sarà costretto a contatti continui con la malavita che avrà allora occasione di fare del “marketing personale” giornaliero aumentando la sua forza persuasiva.
- Se ho una cosa o la ottengo facilmente per definizione non posso desiderarla. Non desidero di essere dove sono perché ci sono; non desidero di fare ciò che faccio perché lo sto facendo. Se invece mi è proibito fare una cosa, posso cominciare a desiderare di farla. Il desiderio è tanto più forte quanti più ostacoli sono posti alla sua realizzazione? Se sì, conviene accanirsi nell’impedire?
- Come andrà a finire?
Se continua così dovremo aspettare che gli scienziati inventino delle droghe che non fanno male, euforizzanti quanto basta, ma senza danneggiare l’organismo. Resteranno così solo quei pochi buongustai come me che assumono prima dei pasti un cucchiaino di veleno per topi.
Se andiamo a vedere le morti causate dall’abuso di alcool sono superiori rispetto a quelle causate da dipendenza da droghe o tossicomania: secondo i dati ISTAT, in Italia nel 2019, sono 252.
Si devono distinguere le sostanze che danno luogo a reati diretti, indiretti o diretti e indiretti. I reati diretti vengono commessi sotto l’azione o la spinta della sostanza assunta come, ad esempio, l’alcool o la cocaina: tra questi si annoverano l’omicidio dei genitori per la droga o gli incidenti stradali e tutto quello che concerne per l’alcool. I reati indiretti sono legati all’appetizione della sostanza ma non all’effetto di questa come, ad esempio, l’eroina per cui il reato viene commesso durante l’astinenza. I reati diretti e indiretti sono connessi sia al craving (il desiderio incontrollabile di assumere una sostanza stupefacente, il quale è spesso accompagnato da una ricerca compulsiva o dall'attuazione di determinati comportamenti al fine di ottenere l'oggetto di cui si sente il forte bisogno) e sia all’effetto dovuto dalla sostanza come, ad esempio, il crack.
Osserviamo i numeri dei crimini indotti dalla tossicodipendenza.
Nelle carceri italiane, a fine giugno del 2021 circa un detenuto su quattro era tossicodipendente e più di un detenuto su tre lo era per violazione del Testo Unico sulle droghe (DPR n.309/1990), mentre a fine dello stesso anno nelle carceri italiane erano presenti 15.244 detenuti tossicodipendenti (28,1% del totale), per la quasi totalità di genere maschile (96%). In 15 anni è cresciuta enormemente la presenza di tossicodipendenti in carcere: nel 2020 erano il 38,6% dei carcerati, mentre nel 2005 erano il 28,41%. A fine del 2020 i detenuti tossicodipendenti presenti negli istituti penitenziari erano 14.148 (il 26,5%). Invece, a fine giugno del 2021, i carcerati per violazione del Testo Unico sulle droghe (DPR n.309/1990) erano 19.260 (15,1% sul totale delle imputazioni), di cui 658 donne e 18.602 uomini (a fine dello stesso anno i detenuti che hanno commesso lo stesso reato erano 18.884, il 35% sul totale dei carcerati), mentre nel corso del 2020 i detenuti in ingresso nelle carceri per tale reato sono stati 10.852 (30,8% sul totale delle imputazioni).
Questi rei sono il prodotto per un verso del fatto che sono tossicodipendenti e per un altro verso del fatto che, essendo le droghe vietate, per potersele procurare, commettono delitti strumentali aventi quasi sempre finalità patrimoniali.
Ma se guardiamo i dati resta incomprensibile come mai sia concesso di bere alcool senza distinguere tra il bicchiere di vino e il bicchiere di whisky, differenza che possiamo paragonare a quella esistente tra droghe leggere e droghe pesanti. Questo argomento viene chiamato la fallacia della brutta china è un ragionamento con cui, partendo da una tesi, si trae una sequenza di conseguenze presentate come inevitabili ma, in realtà, del tutto arbitrarie.
Bisogna tutelare i morti e le vittime, perché sono numerose, ma qui il meccanismo psicologico richiamato è quello del nocebo. Così, come nel caso dell’effetto placebo ritenere che un farmaco inerte sia un antidolorifico e che con la sua ingestione si curi il mal di testa, per l’effetto nocebo se un organismo viene trattato come se fosse malato finisce per comportarsi come tale. Ciò accade per un meccanismo individuato dalla Scuola Sociologica dell’”Interazionismo Simbolico” secondo il quale per un essere umano se un fatto è reale, esso lo è comunque nelle sue conseguenze (Gulotta, 1999): se un uomo fa degli apprezzamenti in strada e questo fatto turba la donna, di conseguenza ella soffre di questo accaduto. Si fa come esempio, i fatti accaduti poco tempo fa durante l’adunata degli Alpini a maggio 2022, in cui ci sono state segnalazione di molestie da parte di alcuni di questi ultimi nei confronti di donne presenti all’evento. Non si vuole sminuire, qui comincia la reductio ad absurdum. Innanzitutto, si deve abolire l’alpinismo e più in generale lo sci, perché secondo l’Istituto Superiore di Sanità in Italia si registrano in media 25-30.000 incidenti all’anno causati dalla pratica di sport invernali e tra questi 1.500 richiedono il ricovero in ospedale. Gli incidenti mortali sono, per fortuna, abbastanza rari. Si osserva, infatti, un decesso ogni 1700 interventi, che, rapportato ai 30.000 incidenti stimati, indica circa 20 morti all’anno, ma in alcuni anni gli infortuni mortali sono state molti di più e comunque, al di là di queste tragedie, resta il fatto che ogni inverno lascia alle spalle centinaia di feriti in modo anche grave, e che porteranno conseguenze permanenti. Quindi serve una campagna per sensibilizzare: c’è il problema dei morti in montagna, dobbiamo proteggere i nostri giovani.
Si parla della difesa di fasce deboli e in questa “era della suscettibilità” come dice l’autrice Guia Soncini, “io sono una velina, una mammola” (Soncini, 2021).
Come mai vengono privilegiate alcune vittime, per esempio, donne e bambini? Certamente anche nelle procure della repubblica ci sono le fasce deboli e normalmente sono tali categorie, ma perchè gli anziani non lo sono?
L’Associazione italiana di Psicogeriatria scrive un appello per tutti i partiti politici a favore di ogni persona fragile per età, collocazione sociale e condizione di salute, ponendo l’attenzione su diversi fatti: mancano operatori formati a livello umano e a livello tecnico per la cura degli anziani fragili; bisogna tenere in considerazione la solitudine dell’anziano e i danni che ciò provoca; si deve aiutare l’anziano nell’uso delle moderne tecnologie per far sì che si possa mettere in contatto con i vari servizi, in modo tale che non si senta escluso e impotente; i servizi territoriali e ospedalieri devono fornire specifiche modalità di accoglienza e di cura degli anziani, poiché hanno necessità particolari e sono fragili. L’appello viene concluso specificando che l’anziano è un costruttore di futuro e che il partito politico che non considera tale posizione non crea una società giusta ed equilibrata. Un programma a riguardo che si può tenere in considerazione è “Socialmente”, promosso da Fondazione Caript in provincia di Pistoia, che tra i tanti progetti dell’edizione 2022 si occupa di sostenere le vittime di reati oltre che di organizzare iniziative a favore degli anziani a rischio di isolamento, interventi per il lavoro e l’integrazione delle donne straniere e di svolgere attività a favore di persone con disabilità. Si tratta di 36 progetti gestiti da enti del Terzo settore, enti religiosi, onlus che la Fondazione sostiene investendo mezzo milione di euro. Le iniziative sono realizzate da più soggetti che cooperano e collaborano, progettandole e attuandole concretamente. Tra le attività proposte nelle varie iniziative vi sono: sessioni di musicoterapia per anziani che mostrano primi segni di demenza; assistenza alle vittime di qualsiasi tipologia di reato dal primo ascolto al sostegno psicologico e/o psichiatrico, con servizi offerti da equipe di professionisti specializzati; laboratori di cucito, musica, pittura, giardinaggio per persone affette da patologie che ostacolano la possibilità di avere contatti sociali, come, ad esempio, l’osteoporosi, l’Alzheimer, il Parkinson, il diabete e la cardiopatia.
Ci sono persone che hanno molta paura di andare in aereo, ma il vero pericolo nell’andare in aereo è raggiungere in automobile l’aeroporto. Le morti per incidenti stradali nel 2019 solo in Italia sono state 3.173 e i feriti 241.384 in 172.183 incidenti stradali con lesioni a persone[1], molto di più rispetto agli incidenti aerei che nel 2019 sono stati 53 con 240 morti a livello mondiale (523 nel 2018) e il rischio di mortalità del 2019 è dello 0,09 e significa che, in media, una persona dovrebbe viaggiare ogni giorno per 29.586 anni per subire un incidente mortale al 100%. Nel 2021, in Italia, il totale degli incidenti stradali o investimenti sono 151.875, i morti 2.875 e i feriti 204.728. Le vittime sono più uomini (83,3%) che donne (16,7%), soprattutto nelle fasce di età 45-59 e 20-24 tra i primi, 70-84 e 20-24 tra le seconde. Colpisce il numero dei bambini o adolescenti: nel 2021 hanno perso la vita 28 minori sotto i 14 anni, 146 ragazzi tra i 15 e i 19 anni. Anche tra i feriti, un terzo (30,3%) riguarda i giovani tra i 15 e i 29 anni, con un calo negli anni più contenuto rispetto ad altre classi di età. L’Italia si pone un po’ sopra la media europea riguardo al tasso di mortalità (vittime per milioni di abitanti): 48,5 rispetto al 44,7 dei 27 paesi Ue. Secondo i dati Istat-Aci, tra gennaio e giugno del 2022, rispetto al 2021, gli incidenti stradali sono cresciuti (81.437, +24,7%), sono aumentati i feriti (108.996, +25,7%) e le vittime entro il trentesimo giorno (1.450, +15,3%). I principali responsabili sono l’alcol, la distrazione e l’alta velocità.
Consideriamo un’altra fascia debole: i pedoni e i trasportati. Qui non c’è una questione di genere o di età, perché ce n’è per tutti.
Secondo l’Ufficio Studi ASAPS, nell’anno solare 2019 sono stati rilevati 19.818 sinistri (54 al giorno) che hanno provocato il decesso di 534 pedoni ed è come se ogni anno sparisse un piccolo borgo della nostra Penisola. Sul totale di 3.137 morti da sinistro stradale in Italia nel 2019, i pedoni rappresentano il 17% dei deceduti in un anno, come nel 2018, perciò un decesso ogni sei sulle strade è oggi un pedone. Rispetto al 2018 vi è stato un calo del 12,7% (furono 612). Con riferimento agli anni benchmark per la sicurezza stradale 2001 e 2010, la categoria dei pedoni è però tra quelle che ha avuto i cali minori (-48,3% dal 2001 e solo un -14% dal 2010), a dimostrazione che le politiche di salvaguardia di questi utenti non sono state finora sufficienti a raggiungere gli obiettivi europei, con la necessità di urgenti correttivi da parte del legislatore. L’indice di mortalità per i pedoni, pari a 2,7 ogni 100 incidenti per investimento (era 3,2 nel 2018), è circa quattro volte superiore a quello degli occupanti di autovetture (0,7). Nel 2019 i feriti tra i pedoni sono stati 21.430, 59 al giorno (due ogni ora), in aumento di 630 unità rispetto al 2018, due in più al giorno. E tra i feriti occorre ricordare che il numero degli ultimi anni non cala e rimane costante tra i 20.000 e i quasi 22.000 nel periodo 2005-2019, mentre nel 1986 furono 18.932, con un record negativo nel 2014 con ben 21.807 feriti.
Secondo l’ultimo rapporto ISTAT, nel 2021 le vittime tra i motociclisti sono state 695, 471 tra i pedoni, 67 i ciclomotoristi, 229 tra ciclisti e utilizzatori di monopattini elettrici. Il numero maggiore in assoluto (1.192) tra gli occupanti di autovetture, 169 invece i deceduti sui mezzi pesanti (l’unica categoria che segna una crescita rispetto al 2019). L’indice di mortalità per i pedoni[2] è pari a 3,0 ogni 100 incidenti per investimento di pedone. Tra le cause più rilevanti di incidente la mancanza di precedenza al pedone (5.954 casi) e il comportamento scorretto del pedone (5.402 casi) rappresentano il 3,0% e il 2,7% delle cause di incidente. I pedoni coinvolti in incidenti o investimenti sono 17.164 mentre i feriti 16.693. A ottobre 2022, le vittime sono state 28, praticamente una al giorno, più di 200 dall’inizio dell’anno; nei fine settimana estivi si sono raggiunti picchi di 45 morti e la cosa ha riguardato fine luglio come metà ottobre: la media delle vittime resta molto alta e oscilla tra 32 e 36 tra venerdì e domenica.
Come mai questi gravi fenomeni non si sono trasformati in problemi sociali? Allora sono vittime solamente quelle che la società decide che tali sono oppure quelle che lo sono veramente?
Adesso parliamo dei trasportati, di qualunque genere: secondo i dati ISTAT, nel 2019 in Italia i deceduti come passeggeri di autovetture sono 417, di cui 243 uomini e 174 donne, mentre i feriti 55.449; nel 2021, i passeggeri deceduti ammontano a 332, di cui 196 uomini e 136 donne. Esiste il codice, certo, che regola i comportamenti stradali, ma non dice che non si può palpeggiare una donna che non vuole, è implicito che serva il suo consenso. Dov’è una campagna di tutela dei pedoni e dei trasportati? Vanno elaborate nuove strategie a livello nazionale per ridurre ulteriormente le vittime più deboli della strada, il calo del 21% da un anno all’altro non può far ridurre l’attenzione da parte del Governo, con la necessità di attivare campagne di sensibilizzazione e maggiori controlli sulle nostre strade con pattuglie e con un numero idoneo di divise che tutelino anche i pedoni, sempre a rischio anche sugli attraversamenti pedonali.
C’è poi un ulteriore prototipo di vittima spesso trascurato nel sistema giudiziario: l’imputato. Vi è una differenza tra le vittime di ingiusta detenzione (coloro che vengono sottoposti a una custodia cautelare in carcere o agli arresti domiciliari, per poi essere assolti) e chi subisce letteralmente un errore giudiziario (coloro che, dopo essere stati condannati con una sentenza definitiva, vengono assolti successivamente a un processo di revisione). Dal 1991 al 2021, in Italia, i casi in totale sono 30.231, ossia poco più di 975 all’anno. Tra questi, la maggioranza è costituita da coloro che hanno subito una custodia cautelare da persone innocenti: dal 1992 al 2021 i casi sono 30.017, ovvero poco più di 1000 ogni anno. Considerando solamente l’anno 2021, i casi di ingiusta detenzione sono stati 565 e rispetto al 2020 vi è stato un calo netto a riguardo (-185). Relativamente ai numeri degli errori giudiziari in senso stretto, dal 1991 al 2021, il totale dei casi è di 214, con una media esatta di 7 all’anno. Esaminando solo l’anno 2021, i casi di errori giudiziari sono stati 7, ossia 9 in meno rispetto l’anno precedente: è la prima volta, negli ultimi anni, che il numero totale degli errori giudiziari cala al di sotto della quota 10.
Last but not least, sono preoccupanti anche i suicidi in carcere. Seppur in leggero calo rispetto al 2020, nel 2021 il numero di suicidi tra i detenuti rimane molto alto: sono state 57 le persone in carcere ad essersi tolte la vita. Relativamente all’andamento del dato nell’ultimo decennio, si osserva come nel 2020 e nel 2021 il tasso di suicidi in carcere sia particolarmente alto: nel 2019 vi sono stati 8,7 casi di suicidi ogni 10.000 persone detenute, nel 2020 sono stati 11 i casi su 10.000 detenuti, mentre nel 2021 sono stati 10,6 casi di suicidi ogni 10.000 persone detenute. Nel 2021 sono decedute 148 persone detenute: 57 sono le persone che si sono tolte la vita mentre le restanti 91 sono indicate come morti per cause naturali; dunque, i casi di suicidi sono pari al 38,5% dei decessi totali. Secondo il documento sulla prevenzione del suicidio in carcere realizzato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il suicidio è spesso una delle cause più comuni di morte in carcere. L’OMS ha riferito come i detenuti, considerati come gruppo, abbiano tassi di suicidio maggiori rispetto alla comunità. Infatti, il tasso di suicidio in Italia nel 2019 era pari a 0,67 casi ogni 10.000 persone, ma, nello stesso anno, il tasso di suicidi in carcere era pari a 8,7 ogni 10.000 detenuti mediamente presenti. Rapportando i due tassi, in carcere i casi di suicidi siano oltre 13 volte in più rispetto alla popolazione libera. Inoltre, i due tassi hanno subito, a distanza di qualche anno, un cambio di tendenza, ma in direzione opposta: il tasso di suicidi nella popolazione libera nel 2019 ha registrato un enorme calo rispetto al 2016, al contrario il tasso di suicidi in carcere nel 2019 è cresciuto rispetto a tre anni prima. Oltretutto, l’Italia si colloca al decimo posto tra i paesi membri del Consiglio d’Europa per tasso di suicidi in carcere: nel 2020 il tasso di suicidi era pari a 11.4, superiore alla media europea annuale (7.2 casi ogni 10.000 persone detenute). L’Italia è tra i paesi europei con il più alto tasso di suicidi nella popolazione detenuta, mentre, nella popolazione libera, è tra i paesi con i tassi di suicidio più bassi. Nel 2022 i suicidi avvenuti negli istituti di pena italiani sono stati 84, uno ogni cinque giorni. Ciò significa che le persone detenute si sono tolte la vita circa 20 volte in più di quanto non avviene nella popolazione libera. Un detenuto ogni 670 presenti si è suicidato. Il primato negativo precedente era del 2009, quando ci furono 72 suicidi in totale, ma all'epoca i detenuti erano oltre 61.000, 5.000 in più di oggi. Dopo la deflazione delle presenze in seguito alla pandemia, il sovraffollamento sta tornando a livelli allarmanti: i detenuti sono quasi 57.000, ma i posti regolamentari sono 51.000 e, ad oggi, nelle carceri italiane sono presenti circa 9.000 persone in più rispetto alla capienza regolamentare.
Insomma, torniamo alle origini della vittimologia: tutti possono essere vittime, parliamo di una vittimologia olistica. Ci sono alcune predisposizioni specifiche che possono rendere una persona più vittima di altre, ma la vita, la salute, la libertà, valgono per tutti e vanno difese. Ogni volta che si può, occorre stare dalla parte delle vittime.
L'articolo è stato scritto dall'autore, Guglielmo Gulotta, con la collaborazione di Eleonora Landi