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Avanzamenti scientifici circa il porre fine alla vita di persone in stato vegetativo

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Avanzamenti scientifici circa il porre fine alla vita di persone in stato vegetativo

Guglielmo Gulotta con la collaborazione di Palma Marta Monterosso
 

In Italia, nel 2008, esplose il caso Englaro, che aprì un forte dibattito etico e politico sul fine vita. Eluana Englaro era una giovane ragazza che all’età di 21 anni, il 18 gennaio 1992, fu coinvolta in un incidente stradale, a seguito del quale rimase in una condizione diagnosticata dai medici dapprima come stato vegetativo persistente, poi come stato vegetativo permanente (per sottolinearne il carattere irreversibile). Lo stato vegetativo appartiene ai disordini della coscienza e denota una condizione di vigilanza senza segni clinici di consapevolezza: i pazienti che si trovano in tale condizione potrebbero aprire gli occhi ma mostrano solo comportamenti riflessi (e dunque non intenzionali) e sono considerati inconsapevoli di se stessi e di ciò che li circonda (Kondziella et al., 2020). Proprio questa assenza di un comportamento intenzionale, e quindi della capacità di comunicare con l’ambiente esterno, rappresenta uno dei criteri, sulla base dei quali il 25 giugno 2008 la Corte d’Appello di Milano, dopo varie sentenze che lo avevano respinto, accolse il ricorso del padre per poter sospendere le terapie di sostegno alla vita della figlia. Il 9 febbraio 2009 Eluana dunque morì, a causa della sospensione, avvenuta tre giorni prima, dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali.

La ricerca diagnostica nel tema dello stato vegetativo ha preso una svolta quando nel 2006 Owen e colleghi avevano osservato, utilizzando la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI), tramite la quale è possibile osservare l’attivazione di determinate aree cerebrali durante lo svolgimento di un dato compito, che una donna di 23 anni che aveva subito una lesione cerebrale traumatica severa  con una diagnosi di stato vegetativo, mostrava una forma di coscienza nascosta, non evidente attraverso una valutazione di tipo comportamentale. Alla donna era stato chiesto di immaginare dapprima di giocare a tennis, poi di immaginare di girare per le stanze della sua casa partendo dalla porta d’ingresso. Durante i periodi in cui le veniva chiesto di giocare a tennis, attraverso l’fMRI si osservava un’attività significativa dell’area motoria supplementare, che sembra essere coinvolta principalmente nella programmazione di sequenze motorie. Quando invece le veniva chiesto di immaginare di visitare la propria casa si attivavano significativamente il giro paraippocampale, la corteccia parietale posteriore e la corteccia premotoria laterale: il giro paraippocampale svolge un ruolo importante nella codificazione e nel recupero delle memorie, la corteccia parietale posteriore, ricevendo gli input dai tre sistemi sensoriali (visivo, uditivo e somatosensoriale) che si occupano della localizzazione del corpo e degli oggetti esterni dello spazio, è coinvolta nella produzione di movimenti pianificati, mentre la corteccia premotoria svolge varie funzioni, tra cui potrebbe avere un ruolo nel controllo del comportamento, nella pianificazione dei movimenti e nel guidarli nello spazio. Le risposte della donna erano indistinguibili rispetto a quelle di soggetti sani a cui veniva chiesto di svolgere lo stesso compito, per cui è risultato evidente che la paziente, nonostante avesse ricevuto una diagnosi di stato vegetativo, manteneva l’abilità di comprendere comandi verbali e di rispondervi tramite la propria attività cerebrale.

Lo stesso esperimento è stato replicato successivamente da Monti e colleghi, nel 2010, su 54 pazienti con disordini della coscienza. Del campione studiato, 5 pazienti (4 dei quali con diagnosi di stato vegetativo) riuscirono a modulare intenzionalmente la propria attività cerebrale e 3 di questi mostrarono successivamente segni di consapevolezza anche attraverso valutazioni di tipo comportamentale. Inoltre il team di ricercatori sviluppò una tecnica per determinare se questi compiti potessero essere utilizzati per comunicare risposte “sì/no” a semplici domande, utilizzando sempre i due compiti di immaginazione: ciascuno dei due compiti di immaginazione veniva associato a una delle due risposte, dunque veniva chiesto ai partecipanti di immaginare la situazione che corrispondeva alla risposta esatta alla domanda posta (ad esempio di immaginare di giocare a tennis nel caso si volesse rispondere “sì” e di immaginare di girare per le stanze della propria casa se si volesse rispondere “no”). Uno dei 5 pazienti che aveva mostrato una sorta di consapevolezza nel primo compito, riuscì ad applicare questa tecnica per rispondere a domande “sì/no”, nonostante fosse stato sottoposto a molteplici valutazioni che lo dichiaravano in stato vegetativo.

Gli studi sono proseguiti, al punto che nel 2013 un team di ricercatori ha sviluppato un metodo per verificare se fosse possibile, per un gruppo di 3 pazienti con disordini della coscienza (di cui uno in uno stato vegetativo da ben 12 anni), riuscire a eseguire dei comandi e a rispondere a delle domande con risposta binaria (sì/no). Durante il compito di esecuzione dei comandi ai pazienti venivano fatti ascoltare degli stimoli, consistenti in una serie di 11 parole (“uno”, “due”, “tre”, “quattro”, “cinque”, “sei”, “sette”, “otto”, “nove”, “sì” e “no”), ripetute più volte in ordine diverso, e veniva chiesto loro o di riposarsi, quindi di ignorare gli stimoli auditivi, oppure di contare l’occorrenza di una data parola (“sì” o “no”), ignorando gli stimoli distrattori. Durante lo svolgimento del compito i pazienti erano sottoposti a risonanza magnetica funzionale. È emerso che i pazienti mostravano un’attività cerebrale significativa durante il compito, tale per cui si può dedurre che fossero in grado di capire ed eseguire correttamente i comandi. A due dei tre pazienti è stato chiesto di rispondere a semplici domande binarie (con risposta “sì/no”) utilizzando il metodo precedentemente appreso, lasciandoli però liberi di decidere quale parola contare e quale ignorare a seconda della risposta che volessero fornire alla data domanda, per cui se la risposta fosse stata affermativa avrebbero dovuto contare la parola “sì”, mentre se fosse stata negativa avrebbero dovuto contare l’occorrenza della parola “no”. Anche in questo caso i due soggetti hanno dimostrato di essere in grado non solo di capire i comandi, ma anche di comunicare efficacemente guidando la propria attenzione in modo da fornire risposte adeguate.

Oltre all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale, sono stati condotti studi che hanno valutato anche l’utilizzo dell’elettroencefalogramma (EEG), che permette di indagare la funzionalità del cervello attraverso l’analisi e la registrazione della sua attività elettrica, per la rilevazione di una coscienza nascosta in pazienti con disordini della coscienza. Nel 2017, Eldow e collaboratori, hanno studiato l’efficacia di questi due strumenti su un gruppo di 16 pazienti ammessi all’unità di terapia intensiva per lesione cerebrale traumatica severa, con diversi disordini della coscienza (tra cui 3 in stato vegetativo). Il disegno dello studio includeva tre compiti, che servivano per indagare la risposta corticale a stimoli linguistici e musicali e la capacità di eseguire comandi motori in pazienti senza evidenze comportamentali di espressione e comprensione linguistica. Il paradigma linguistico prevedeva l’ascolto del discorso inaugurale di John F. Kennedy, seguito dal suo corrispondente rovesciato al contrario (in modo da ottenere sia un discorso comprensibile che incomprensibile), intervallati da momenti di pausa. Il paradigma musicale prevedeva l’ascolto di una clip di “Rodeo – Four Dance Episodes” di Aaron Copland, con frequenti cambi nel tempo, per aumentare la possibilità di una risposta alla musica, e senza parole, per evitare che ci fosse un processamento linguistico. Il paradigma di immaginazione motoria, prevedeva che fosse chiesto ai pazienti di immaginare di stringere la mano destra. Ancora una volta è emersa la presenza di una coscienza nascosta, in pazienti con disordini della coscienza, non evidente ad una valutazione di tipo esclusivamente comportamentale. Tra i pazienti che non davano risposte comportamentali al linguaggio, infatti, 4 (tra cui 3 con diagnosi di stato vegetativo) hanno mostrato la presenza di una dissociazione cognitiva motoria (o coscienza nascosta). Inoltre, due dei rimanenti pazienti hanno mostrato una dissociazione della corteccia motoria superiore, con risposte corticali agli stimoli verbali e/o musicali, senza segnali di esecuzione dei comandi. Nei pazienti con evidenza comportamentale di risposta al linguaggio, risposte al linguaggio e alla musica erano osservate più frequentemente che le risposte al compito di immaginazione motoria, così come avveniva in 16 soggetti sani. Tutti i pazienti che hanno mostrato dissociazione cognitiva motoria e dissociazione della corteccia motoria di ordine superiore, sono guariti dallo stato confusionale nel giro di 6 mesi.

Lo strumento dell’elettroencefalogramma è stato confrontato con la risonanza magnetica funzionale anche in uno studio che ha coinvolto 28 soggetti con danno cerebrale severo (con diagnosi che andava da stato vegetativo a “emerso dalla coscienza minima”). Ai pazienti veniva chiesto di svolgere 4 compiti di immaginazione motoria: immaginare di giocare a tennis (oscillando la racchetta da tennis con una sola mano), aprire/chiudere la mano destra o sinistra, camminare per le stanze della propria casa e nuotare. Del gruppo di controllo, su 15 soggetti sani, 12 hanno risposto positivamente a tutti i paradigmi, 2 solo a tre paradigmi e 1 a due dei quattro paradigmi. Dallo studio sono emerse differenze sostanziali nelle caratteristiche temporali e spaziali dei segnali dell’EEG tra i pazienti, in contrasto con solo modeste variazioni in questi domini nei soggetti sani. 21 dei 28 pazienti hanno mostrato una risposta positiva ad almeno uno dei quattro paradigmi. In particolare, 9 pazienti hanno mostrato la capacità di eseguire i comandi sia attraverso l’EEG, che attraverso l’fMRI, suggerendo la presenza di una qualche forma di coscienza (Curley et al., 2018).

Lo strumento dell’elettroencefalogramma è stato utilizzato anche in uno studio longitudinale che ha seguito, dal 2014 al 2017, 104 pazienti con una lesione cerebrale acuta, curati nella stessa unità di terapia intensiva. I pazienti non rispondevano ai comandi vocali e alcuni di loro avevano intatta la capacità di localizzare stimoli dolorosi o di fissare o di tracciare stimoli visivi. Ai pazienti veniva chiesto di muovere le proprie mani, tramite comandi di questo tipo: “continua ad aprire e chiudere la mano destra” e “smettila di aprire e chiudere la mano destra”. 16 pazienti hanno mostrato un’attivazione cerebrale rilevata dall’elettroencefalogramma con una mediana di 4 giorni dall’ammissione alla terapia intensiva, mostrando quindi di possedere una coscienza nascosta. 8 di questi 16 pazienti sono migliorati a tal punto che riuscirono a seguire i comandi prima di essere dimessi (Claassen et al., 2019).

Dagli studi citati emerge come sia possibile per pazienti con disordini della coscienza, di entità variabile, la presenza di una coscienza nascosta non visibile ad un esame puramente comportamentale, ma evidente attraverso studi che utilizzano metodologie, come la risonanza magnetica funzionale e l’elettroencefalogramma, attraverso le quali è possibile osservare l’attivazione cerebrale del paziente durante lo svolgimento di determinati compiti. Nello specifico le attivazioni osservate in alcuni casi, fanno pensare non solo a una comprensione dei comandi che vengono forniti dall’esterno, ma anche alla possibilità di instaurare una vera e propria comunicazione con i pazienti, che in alcuni casi, sono stati persino in grado di fornire risposte a domande, seppur di tipo dicotomico. La presenza di una forma di coscienza nascosta, inoltre, è stata evidenziata persino in soggetti che si trovavano in uno stato di disordine della coscienza già da diversi anni. Nello specifico gli studi condotti tramite l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale e dell’elettroencefalogramma hanno dimostrato che la percentuale di pazienti non responsivi, che in realtà sono vigili e consapevoli arriva al 15 %, come dimostrano le loro capacità nel seguire i comandi rilevate dall’attivazione cerebrale durante compiti motori e di locomozione (Kondziella et al., 2022). La questione della coscienza nascosta è stata indagata al punto che sono nate due linee guida con lo scopo di dare indicazioni per poter permettere una maggiore accuratezza diagnostica rispetto ai disordini della coscienza, redatte rispettivamente nel 2018 dall’American Academy of Neurology e nel 2020 dall’European Academy of Neurology, che ha riunito 16 membri che rappresentavano 10 paesi europei. Le indicazioni prevedono che per valutare i disordini della coscienza vada effettuata una valutazione multidisciplinare e ripetuta nel tempo, utilizzando una valutazione clinica standardizzata, le tecniche basate sull’EEG e la fMRI. Inoltre, lo stato di coscienza dovrebbe essere classificato in accordo con il livello maggiore rilevato da ciascuno di questi tre approcci (Kondziella et al., 2020). Di particolare importanza rappresenta il fatto che l’AAN ha disposto che non si possa più effettuare una diagnosi di stato vegetativo permanente, perché questo termine è indicativo di un’irreversibilità che non è supportata dallo stato attuale della ricerca e ha implicazioni sulle decisioni rispetto alle cure di sostegno alla vita offerte ai pazienti (Giacino et al., 2018), come è accaduto nel caso Englaro.

I recenti avanzamenti scientifici rispetto alla diagnosi e al trattamento dei disordini della coscienza portano con sé una serie di questioni neuroetiche e giuridiche in continua espansione e sempre maggiore rilevanza. Nel loro ruolo di consulenti, i neurologi sono continuamente chiamati a valutare il livello di coscienza dei pazienti, a predire gli esiti quando la coscienza è persa o diminuita, a identificare le opportunità che favoriscono il neuro-recupero e a consigliare le famiglie su ciò che potrebbero aspettarsi e su come prepararsi nella maniera più ottimale ai possibili esiti. Sulla base di queste valutazioni e raccomandazioni vanno prese decisioni importanti sull’intensità e la durata della cura che deve essere offerta (Young et al., 2021). Ma oltre alle implicanze dal punto di vista medico, questa questione riguarda anche l’ambito forense. Se il criterio per decidere se mantenere le cure a sostegno della vita è rappresentato dalla capacità dell’individuo di comunicare con l’ambiente esterno, allora la percentuale di errori nella diagnosi pone un problema etico rilevante.

Oggi, in casi come quello della Englaro, relativamente alle decisioni conseguenti, occorrerà fare delle indagini più penetranti che tengano conto degli studi più attuali.

BIBLIOGRAFIA:

 

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