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Sull'utero in affitto: riflessioni introduttive a una questione attuale

utero in affitto
utero in affitto

Sull'utero in affitto: riflessioni introduttive a una questione attuale

 

Premessa

L'ampliamento e l'approfondimento delle conoscenze favoriscono il dominio della natura. Il dominio, però, non deve essere usato a capriccio, vale a dire secondo il desiderio, qualsiasi desiderio, degli uomini. Anche il desiderio ha fini e regole dettate dalla natura delle «cose»; fini e regole che l'uomo è chiamato a rispettare. Non tutti i desideri, inoltre, sono realizzabili e anche quelli realizzabili devono essere realizzati nel rispetto dell'ordine morale e giuridico. L'ordine morale, infatti, è un ordine «naturale», il quale è il criterio oggettivo che deve guidare anche l'applicazione della scienza e l’uso della tecnica. L'ordine giuridico, il quale non nasce dalle norme (positive) ma è loro condizione, è l'ordine determinato dal diritto inteso, a sua volta, per quello che esso è, cioè come prodotto della giustizia.

Questa considerazione vale per tutti gli uomini e per tutte le loro libere scelte. Essa, quindi, vale anche per la questione – attualmente molto dibattuta – dell'utero in affitto.

 

Qualche precisazioni preliminare

A questo proposito è bene premettere, sia pure molto brevemente, alcune precisazioni. L'espressione utero in affitto è oggi usata come sinonimo di gestazione per altri, accompagnata e caratterizzata da profitto oltre che da un rimborso spese: una donna acconsente e si impegna dietro compenso a farsi impiantare un ovulo fecondato e a portare a termine la gravidanza per conto di altri, nonché a rinunciare a ogni diritto sul bambino che sarà partorito.

L'utero in affitto, quindi, è una forma di procreazione medicalmente assistita (ancorché molto particolare) e differisce da ogni altra forma di gestazione surrogata, perché prevede, fra l’altro, compenso e rimborso spese. Non è, pertanto, una gestazione «altruistica» come viene chiamata e definita da qualche ordinamento che stabilisce anche i requisiti della sua legalità, in positivo e in negativo. Per esempio, il Regno Unito ha codificato a questo proposito alcune regole (cfr. Surrogacy Arrangments Act del 1985, successivamente più volte modificato), le quali mascherano la vera natura della gestazione per altri[1]. L'ordinamento inglese, infatti, stabilisce che coloro i quali vogliono diventare genitori del bambino nato con la pratica dell'utero in affitto devono fare domanda di adozione dello stesso (il che è già riconoscimento dell'impossibilità della gestazione vera e propria per altri). I requisiti per la domanda di adozione sono tassativamente stabiliti: a) possono presentare istanza di adozione tutti, vale a dire i coniugi uniti in matrimonio con rito religioso e con rito civile, coloro che hanno costituito legalmente un'unione civile, i conviventi more uxorio, i conviventi dello stesso sesso e anche i «singles»; b) la gravidanza non deve essere stata conseguenza di un rapporto sessuale; c) il bambino deve vivere con i genitori che ne fanno richiesta fin dalla sua nascita (il che è una contraddizione in presenza della domanda di adozione[2]); d) nel momento in cui viene formulata l'istanza di adozione almeno uno dei due coniugi o uno dei richiedenti o il «single» deve essere domiciliato nel Regno Unito; e) i richiedenti (o il richiedente) devono avere almeno una connessione genetica parziale con il bambino; f) la richiesta deve essere avanzata entro i sei mesi dalla nascita del bambino; g) la gestante non è chiamata a dare il suo consenso (la sua chiamata, infatti, rappresenterebbe una violazione del contratto) e, comunque, non lo deve dare prima che siano trascorse almeno sei settimane dalla nascita (altra contraddizione rispetto alla regola secondo la quale il consenso della gestante e madre surrogata non è richiesto); h) si deve dimostrare che non c'è stato profitto (è ammesso, però, il rimborso delle spese del processo gestionale, il quale profitto vero e proprio non è).

Tutto ciò è previsto, richiesto e stabilito per la gravidanza surrogata, definita «altruistica». Non mancano – la cosa emerge ictu oculi anche da una superficiale lettura del Surrogacy Arrangments Act citato – contraddizioni (oltre a quelle già rilevate). Per esempio l'adozione richiede che il bambino nato per il quale si chiede l'adozione non sia figlio né legittimo né naturale del richiedente l'adozione: trattasi di una condizione assolutamente formalistica, poiché la fecondazione dell’ovulo trapiantato avviene con gamete di colui che la norma richiede abbia «connessione genetica» con il bambino adottato (la quale – è vero – può essere rilevata anche con solo riferimento alla madre adottiva); alla gestante surrogata vengono imposti doveri verso il bambino da essa partorito, sia pure limitati nel tempo, negandole simultaneamente ogni diritto sullo stesso.

Sono, queste, contraddizioni inevitabili una volta che si è preteso di stabilire un ordine legale sostitutivo di quello naturale. Si deve osservare, però, a questo proposito che le norme positive sono determinazione delle leggi «naturali». Esse, quindi, fanno seguito all’ordine naturale. Attribuire alle norme positive il potere di distruggere la realtà e di crearne una nuova è, propriamente parlando, delirio. Esso fu esplicitamente teorizzato dal Portalis ma viene applicato da diversi legislatori contemporanei. Si pensi, per esempio, al cosiddetto bail in, imposto da Direttive europee (si veda, a questo proposito, la Direttiva europea 2014/59/UE) e recepito da diversi ordinamenti di Stati afferenti all’Unione Europea; in Italia esso è stato recepito con i Decreti legislativi n. 385/1993, n. 58/1998 e n. 180/2015.

 

Alcune domande

L’utero in affitto è questione morale e giuridica ad un tempo. Sotto il profilo morale essa pone interrogativi cui è necessario rispondere prima di praticare o di regolamentare l’utero in affitto.

Innanzitutto va osservato che non esiste un «diritto al figlio». Meglio: il «diritto al figlio», sotto un certo profilo, esiste per le coppie che hanno contratto regolare e valido matrimonio. La finalità principale del matrimonio, infatti, è la procreazione. Nessun potere, pertanto, è legittimato a impedire il conseguimento del fine naturale del matrimonio. Né può legittimamente stabilire il numero delle (e, quindi, generalmente limitare le) nascite (come pretendono e impongono alcuni contemporanei regimi «politici», per esempio la Cina). Nemmeno la coppia regolarmente sposata, però, ha «diritto al figlio» concepito in qualsiasi modo: il desiderio, anche quello più «naturale», non è, infatti, sempre e necessariamente un diritto.

Il «diritto al figlio» non è un diritto soggettivo rivendicabile da chiunque. Non può essere rivendicato da coppie non sposate anche se, di fatto, queste possono decidere di procreare: nessuno dei conviventi, però, può pretendere che l’altro convivente consideri un dovere morale la procreazione. Non può essere rivendicato il «diritto al figlio» da parte dei conviventi dello stesso sesso, perché la loro convivenza non offre le condizioni «naturali» necessarie innanzitutto alla procreazione in sé e, poi, indispensabili per una crescita equilibrata del minore sotto ogni profilo: morale, psicologico, etc. Ancor meno può essere rivendicato dai «singles», poiché il bambino necessita della presenza, della guida, del costante aiuto e del sostegno dei genitori, dei genitori «naturali» (di un uomo e di una donna, per intenderci), non di quelli artificialmente definiti «genitore 1» e «genitore 2» o, peggio ancora, genericamente come genitori che in realtà  tali non sono. Il «diritto al figlio» non può essere invocato dall’incapace interdetto, poiché esso non può adempiere alle obbligazioni richieste a un padre o a una madre: ciò a sua tutela e soprattutto a tutela dei diritti del nascituro e del figlio minore.

Queste schematiche osservazioni pongono interrogativi «pesanti», ai quali sono chiamati a rispondere le singole persone e coloro che sono nella condizione/stato di orientare sul piano etico gli incerti, i dubbiosi, gli incapaci di penetrare (e, quindi di risolvere) le questioni morali esistenziali. Soprattutto è chiamato a rispondere a questi quesiti il legislatore, il quale deve essere consapevole che le ideologie (che sono in sé e per sé un errore teoretico) non possono e non devono trovare applicazione per mezzo dell’ordinamento giuridico statuale positivo, poiché all’errore teoretico verrebbe aggiunto un errore pratico.

Anche per quel che attiene alla procreazione la natura va eventualmente aiutata. Essa non può (e non deve) essere sostituita. La fecondazione artificiale non è moralmente legittima, sia essa omologa o eterologa[3]. Il matrimonio postula la collaborazione procreativa fra coniugi. Ci possono essere, com’è noto, cause di nullità anche per ragioni «fisiologiche» (per esempio l’impotenza «coeundi» anteriore al matrimonio o perpetua come riconosciuto dal Diritto canonico, o la mancata consumazione del matrimonio come stabilito dall’ordinamento giuridico italiano, anche con la Legge n. 898/1970 che disciplina il divorzio). La nullità, però è dichiarazione della non esistenza del matrimonio, il cui fine nei casi citati ad esempio non può essere oggettivamente conseguito. Ancora una volta viene così evidenziato che l’ordine naturale è regola per l’ordine positivo, vale a dire per l’ordine «posto». Si può dire di più. La stessa fecondazione artificiale, infatti, viene praticata seguendo, in parte, l’ordine della natura. Per conseguire lo scopo, infatti, serve il «materiale biologico» maschile e femminile. Non solo. La stessa diagnosi di infertilità postula un ordine solamente con riferimento al quale è possibile la rilevazione di difetti genetici, di disturbi ormonali, di alterazione dei parametri seminali e via dicendo. Anche a questo proposito, quindi, è l’ordine della natura (la salute) condizione per il rilevamento di un disordine (la malattia). L’osservazione ha rilievo fisiologico. Si potrebbe dire la stessa cosa, però, considerando il piano morale: ci sono regole che riguardano l’agire umano, le quali non sono solamente di costume. Non si tratta di semplici regole condivise (Habermas), ma di regole intrinseche all’atto umano. La morale, perciò, non è un’opzione né soggettiva né collettiva. Essa è scienza degli atti umani, della prassi posta in essere liberamente e responsabilmente dai soggetti, del bene e del male. Il relativismo contemporaneo riduce la morale a opzione ingiustificata e, in ultima analisi, ingiustificabile, anche se effettiva., Il nichilismo che ne consegue identifica, poi, coerentemente la morale con scelte comportamentali indifferenti, legittimate dalla «libertà negativa» ovvero dall’autodeterminazione del volere soggettivo[4] non irreggimentato in regole, considerate soffocatrici dello spirito.

Sotto il profilo giuridico la questione dell’utero in affitto pone diversi problemi.

Innanzitutto si deve osservare che il soggetto capace di agire non gode di un’assoluta libertà di disporre di sé come vuole. Soprattutto non ha la facoltà di disporre del proprio corpo quando le sue disposizioni, ove applicate, cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica o quando siano altrimenti contrarie alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume (art. 5 CC). Quindi, l’ordinamento giuridico italiano vigente non consente l’assoluta autodeterminazione della volontà della persona. Non solo in base al Codice civile in vigore ma anche sulla base di altre disposizioni normative (si veda, ad esempio, il D. P. R. n. 211/2003 in materia di sperimentazione farmacologica e clinica). La cosa che, a questo proposito, va sottolineata è data dal fatto che il Codice civile è anteriore alla Costituzione, il D. P. R. n. 211/2003 è posteriore. L’annotazione è opportuna perché la Corte costituzionale italiana ha ritenuto, applicando la sua costante (fino al 2023) giurisprudenza di gradualmente demolire la Legge n. 40/2004, approvata per regolamentare la procreazione medicalmente assistita. Basterà richiamare per provare l’affermazione tre sue Sentenze: la n. 162/2014, la n. 96/2015 e la n. 229/2015. Con la prima viene dichiarata l’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa medicalmente assistita; con la seconda la Corte costituzionale dichiara illegittima l’esclusione della possibilità di ricorrere alla PMA da parte delle coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili; con la terza dichiara costituzionalmente illegittima la previsione di reato relativa alla condotta di selezione degli embrioni. La Corte costituzionale ha sentenziato anche circa altre disposizioni della Legge n. 40/2004. La Legge n. 40/2004 ne è uscita radicalmente diversa nella sua ratio e nelle sue singole disposizioni rispetto al testo approvato dal Parlamento. Sul punto sarà opportuno ritornare.

C’è un secondo aspetto giuridico da considerare. Esso riguarda la validità del contratto di utero in affitto. Alla luce dell’appena richiamata giurisprudenza della Corte costituzionale (valida, com’è noto, erga omnes) si dovrebbe ritenere che il contratto di affitto del proprio utero sia valido. La Corte costituzionale, infatti, dichiarando l’illegittimità costituzionale di norme o di parti di disposizioni della Legge n. 40/2004, sembra essersi (almeno implicitamente) pronunciata per la legittimità del contratto di utero in affitto. Il Codice civile, al contrario, sembra disporre diversamente. Il suo articolo 1346, fra gli altri requisiti che rendono valido il contratto, stabilisce che l’oggetto del contratto medesimo debba essere lecito. L’art. 1345 CC definisce «illecito» il contratto quando le parti si sono determinate a concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune ad entrambe. L’art. 1418 elenca, poi, a sua volta le cause di nullità del contratto che, alla luce delle disposizioni degli artt. 1343 e 1420, sarebbe da considerarsi nullo ove si ravvisasse la sua contrarietà all’ordine pubblico e al buon costume. Il contratto di utero in affitto, dopo le citate pronunce della Corte costituzionale, non può essere ritenuto contrario all’ordine pubblico né può ritenersi concluso in violazione della legge dopo la dichiarata incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa stabilito dall’art. 4, c. 3, della Legge n. 40/2004. L’ordine pubblico vigente che il legislatore del 1942 considerava dipendente (in gran parte) dall’ordine etico, non è l’ordine conforme alla natura delle «cose». Esso, soprattutto dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, è identificato con l’ordine legale positivo. C’è di più. L’ordine legale positivo riconosce alla persona il diritto all’autodeterminazione assoluta della sua volontà. Quindi, difficilmente può ravvisarsi nel contratto di utero in affitto una sua violazione; al contrario, sarebbe da considerarsi una violazione dell’ordine legale il misconoscimento della possibilità di autodeterminazione assoluta della volontà del soggetto.

Resta, però, aperta la questione relativa al buon costume. Espressione, questa, molto generica, la quale ha riferimento prevalentemente sociologico; non filosofico, quindi. Secondo alcuni sarebbe clausola di flessibilità contrapposta al rigore delle norme imperative. Quello che si deve definire innanzitutto è se il contratto di utero in affitto è immorale non solamente per i suoi aspetti esteriori ma soprattutto per le sue premesse e per le implicazioni che esso comporta. Andrebbe, poi, stabilito se esso fa sorgere obbligazioni contrattuali vere e proprie o se, invece, è mera occasione di un impegno e nulla più. Inoltre, andrebbe attentamente considerato se esso  è fonte di obbligazioni di fare e di risultato oppure se esso regola accordi intersoggettivi lasciati nella loro esecuzione alle decisioni di una parte contrattuale. Si potrebbe, in questo caso, provocatoriamente dire che si tratta di un contratto/non contratto. Le conseguenze che ne deriverebbero, impostando i rapporti nel modo appena ipotizzato, sarebbero diverse e potenzialmente gravi: la gestante surrogata sarebbe tenuta alle cure del feto nel caso si presentasse la necessità? Potrebbe essa decidere di procurare l’aborto? Potrebbe cambiare parere e decidere diversamente rispetto agli accordi presi?

Il buon costume contemplato anche dall’art. 21 Cost. (sia pure con riferimento alle pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e altre manifestazioni) è nozione che ha consentito definizioni molto differenti e che, alla luce del cosiddetto principio di autodeterminazione assoluta della volontà della persona, è un ostacolo per la definizione di «pubblica moralità». Alla luce delle più recenti interpretazioni della Costituzione sembra difficile, per esempio, considerare ad esso contrario un accordo (contratto?) di prestazioni sessuali qualora esse siano eseguite in ambienti riservati, cioè né pubblici né aperti al pubblico. La Corte costituzionale si è trovata di fronte a queste e ad analoghe questioni e si è impegnata nel tentativo di elaborare una definizione di «buon costume», la quale consentisse la conciliazione fra libertà individuale assoluta (tesi del liberalismo radicale), la convivenza come teorizzata da Kant e le norme costituzionali ed ordinarie relative al buon costume in vigore (cfr., per esempio, Sentenza n. 368/1992). A parer nostro il tentativo è fallito. Non solamente perché si è affermata una prassi vieppiù liberalradicale ma anche perché la legislazione, sia pure fra contraddizioni, ha seguito una strada sempre più aperta a un percorso al temine del quale la nozione di buon costume non trova possibilità di esistenza.

Anche a proposito dell’utero in affitto e, più in generale, della PMA, nonché a proposito di procreazione in generale, si deve registrare l’affermazione di condotte ritenute legittime, praticate diffusamente, ma sostanzialmente contrarie all’ordine etico, all’ordine etico individuato come «naturale».

 

Una precisazione dirimente

È opportuna, a questo punto, una distinzione al fine di evitare di fare di ogni erba un fascio. Ci sono prestazioni contrattuali che richiedono l’uso del corpo o di parti del corpo. Si pensi, per esempio, a quello che un tempo era il contratto di baliato oppure alle prestazioni fisioterapistiche o, ancora, a taluni contratti di lavoro subordinato a proposito dei quali (soprattutto in dottrina) si discute circa la loro legittimità. Non c’è dubbio che molte (quasi tutte, in realtà) prestazioni contrattuali di lavoro subordinato implicano l’uso del corpo (si pensi, per esempio, ai camerieri, alle domestiche, agli infermieri, agli autisti, agli artigiani e via dicendo).  Ciò che viene fatto con l’uso del corpo, non è tuttavia affitto del corpo, come richiesto invece dal contratto di utero in affitto. La dignità ontica della persona non consente la riduzione in schiavitù. Nemmeno la riduzione in schiavitù temporanea e nemmeno se fatta volontariamente (per contratto). Il contratto di schiavitù, infatti, è una contradictio in adiecto anche quando si cerca di legittimarlo invocando il diritto all’autodeterminazione assoluta della volontà individuale (è, questa, una delle contraddizioni del liberalismo anche se taluni liberali – Kant, per esempio, - hanno affermato che l’uomo mai deve vendere le sue membra, neanche se ricevesse in cambio cifre di denaro enormi[5]).

Il contratto di utero in affitto richiede necessariamente, da una parte, la rinuncia a diritti e, dall’altra, il loro misconoscimento. Per quel che riguarda la «rinuncia» si è già accennato a talune condizioni imposte alla madre surrogata. Per quel che riguarda, invece, il misconoscimento di diritti va considerato che le norme positive prevedono generalmente quanto meno un «oscuramento» dell’identità della persona frutto della PMA: è stato giustamente osservato – lo ha fatto, per esempio, un noto psichiatra (Paolo Crepet)[6] -  che «mai prima di oggi nella storia dell’umanità si è rischiato di venire al mondo senza sapere da chi». L’utero in affitto (e altre pratiche manipolatrici della nascita), infatti, «rubano – dice ancora Crepet – alla persona […] la sua stessa identità», anche se un’incerta giurisprudenza ha cercato e cerca di aprire varchi a questo proposito[7], bilanciando i diritti soggettivi della madre che vuole rimanere anonima con quelli del figlio che chiede di conoscere la propria identità biologica. Non solo. Si è già accennato al fatto del mancato adempimento (perché impossibile) di obbligazioni naturali che la procreazione comporta e che la PMA oggettivamente impedisce. Il mancato adempimento è di grave pregiudizio per il nato, per la sua formazione e, persino, per il suo status giuridico che, nel caso di utero in affitto, è dettato dalla non-realtà: è impossibile, infatti, fare della madre non biologica il padre o anche la madre «naturale» come è impossibile la costruzione assolutamente convenzionale della famiglia, vale a dire dell’«ambiente» naturale deputato – lo osservò già Aristotele – alla soddisfazione (in senso nobile e largo) dei bisogni del quotidiano.

 

Due parole conclusive

Sulla questione, al fine di approfondire i temi accennati e di completare l’orizzonte etico-giuridico che li contiene, è necessario tornare.

Si possono fare, tuttavia, sin d’ora due considerazioni conclusive con riferimento alla questione dell’utero in affitto. 1) Essa non può e non deve essere considerata né alla luce delle ideologie né alla luce di posizioni «religiose». Va affrontata, piuttosto, in termini autenticamente filosofici al fine di offrirle un vero punto archimedeo valido per tutti. Le norme, infatti, devono regolamentare gli atti umani che hanno rilievo giuridico sulla base dell’ordine naturale (classico). 2) A questa considerazione si deve aggiungere che, per quel che attiene alle questioni biogiuridiche, è necessario andare oltre l’ordine positivo, quello posto con gli ordinamenti degli Stati, sia perché lo impone la realtà (ontica) sia perché il retaggio della concezione romanistica del soggetto non regge più alla luce degli sviluppi della conoscenza e dei problemi posti dalla vita sin dal suo inizio. Essa, infatti, è attualmente insufficiente per rispondere alla domanda di legittimità della sua (dell’ordine positivo) posizione sia perché non è attualmente sostenibile che la persona pone problemi giuridici solamente dopo la nascita. In altre parole è necessario chiarire affermazioni come quelle riproposte anche in anni recenti, per esempio, da Guido Alpa, secondo le quali «il diritto comincia con la vita visibile»[8].

 

Note:

[1] Nell’ordinamento giuridico del Regno Unito sono vigenti diverse norme regolatrici della PMA (e dell’utero in affitto). Fra queste va ricordato l’Human Fertilisation and Embryology Act del 1990, integrato dal successivo Human Fertilisation and Embryology Act del 2003.

[2] Questa condizione sarebbe assolutamente inutile se venisse letta – questa interpretazione, però, a noi pare assurda e radicalmente contraddittoria – come convivenza con i genitori «naturali».

[3] La fecondazione artificiale omologa consiste nella fecondazione dell’ovulo con gamete del marito. Essa, pertanto, è caratterizzata dall’inserimento del gamete nell’utero della futura gestante oppure dall’inserimento nell’utero della medesima futura gestante di un embrione ottenuto con elementi appartenenti alla coppia. L’eterologa, invece, necessita del ricorso a gamete di donatore «esterno» alla coppia. Il ricorso alla fecondazione eterologa era vietato dall’art. 4 Legge n. 40/2004. La Corte costituzionale, come si dirà a breve nel testo, ha rimosso tale divieto.

[4] Per la questione si rinvia a R. DI MARCO, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017.

[5] Cfr. I. KANT, Lezioni di etica, Roma-Bari, Laterza, 1971, p. 143.

[6] Cfr. «Il Gazzettino», Venezia, 21 giugno 2023.

[7] Si vedano, per esempio, le Sentenze della Corte costituzionale n. 278/2013 e della Corte di cassazione n. 22497/2021, nonché della medesima Corte di cassazione S.U. n. 1946/2017.

[8] Cfr. G. ALPA, Lo statuto dell’embrione tra libertà, responsabilità, divieti, in La fecondazione assistita, Milano, RCS Quotidiani s.p.a, 2005, p. 147.