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Suicidio assistito, servizio sanitario, leggi regionali: avanguardie e retroguardie

Qualche ulteriore cenno per ritornare sulla questione
Suicidio assistito
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Suicidio assistito, servizio sanitario, leggi regionali: avanguardie e retroguardie. Qualche ulteriore cenno per ritornare sulla questione

 

La recente notizia, apparsa sulla stampa[1], secondo la quale il Consiglio regionale del Veneto ha bocciato, per non avere raggiunta la maggioranza richiesta[2], il disegno (o progetto) di legge avente per oggetto la regolamentazione del servizio di assistenza all’aspirante suicida da parte delle strutture sanitarie cc.dd. pubbliche[3], ha destato scalpore e qualche perplessità, per diverse ragioni.

Si tratta, invero, – lo dico al netto di ogni facile e ingenuo entusiasmo, che mi è ben lungi – di una battuta d’arresto rispetto alla marcia forzata verso la regolamentazione e verso la disciplina legislativa del c.d. diritto all’assoluta disposizione di sé[4], fino al suicidio assistito, già affermato, più o meno espressamente, in sede costituzionale (in particolare con riguardo alla Giurisprudenza della Corte) ed europea (rinvio alla copiosa Giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia).

Altre sarebbero la littera e la ratio della Legge ordinaria italiana, in particolare della L. 219/2017, in materia di autodeterminazione terapeutica (e non solo), dalle quali un vero e proprio «diritto» al suicidio non risulterebbe immediatamente deducibile, sovrattutto considerandone il combinato disposto con l’articolato del Codice civile e del Codice penale (ma non solo: anche il più redente D.P.R. 211/2003, per esempio, in materia di esperimentazione farmacologica e clinica parrebbe deporre in senso contrario all’assoluta autodeterminazione di sé e del proprio corpo).

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La battuta d’arresto verificatasi in Veneto, tuttavia, vale a dire nella Regione lato sensu capofila rispetto al tema in parola, non è essa, e non rappresenta, la fine della marcia dei cc.dd. nuovi diritti verso la compiuta disciplina del «diritto» al suicidio, né in Veneto (probabilmente), né in altre Regioni italiane (sicuramente)[5]. Di ciò occorre prendere consapevolezza.

Si tratta, comunque, di un dato il quale deve pur sempre annotarsi e rispetto al quale alcuni «conti» andranno, o andrebbero, pur sempre regolati e sul piano politico-partitico e sul piano giuridico-legale, forse più a fondo di quanto non si sia fatto fin’ora.

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In primo luogo annoterei che la «bocciatura» in questione avrebbe dovuto e dovrebbe rimettere anche in discussione, e non solo per ragioni geografiche, quantomeno la legalità procedurale-formale del già considerato «caso Gloria»[6], sempre del Veneto, cui sarebbe da riconoscersi il primato nazionale in ordine all’uso del servizio sanitario per i fini dell’assistenza all’aspirante suicida.

Si tratta, infatti, con riguardo a questo «caso Gloria», di uno strano «analogato applicativo» degli schemi argomentativi ricavabili dalla sentenza della Corte costituzionale sul c.d. caso Cappato, il quale non avrebbe trovato nemmeno ex post, cioè in una norma sopravvenuta, quel fondamento normativo-legale il quale gli deficitava ex ante rendendolo quantomeno dubbio, molto dubbio, sotto l’angolo della c.d. legittimità formale.

Potrebbe sinteticamente dirsi, allora, che se la procedura del «caso Gloria» era eufemisticamente discutibile prima dell’iter legislativo in narrativa, l’avvio di questo e successivamente il suo «aborto» hanno tolto ogni dubbio e ogni possibilità di sanatoria. Dal naufragio del disegno di legge in parola, infatti, dovrebbe arguirsi la sostanziale carenza di legittimità della procedura allora utilizzata, non foss’altro che sotto il profilo dell’appena citato «principio di legalità» sottostante all’attività amministrativa lato sensu intesa.

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La diagnosi pare confermata da un aspetto doppiamente evocativo: invero, sotto un primo rispetto, già il fatto di presentare e di discutere in sede legislativa un disegno di legge finalizzato a introdurre nell’Ordinamento dello ius positum una data procedura, o come direbbero appunto i positivisti, un nuovo «diritto» soggettivo, in questo caso di o alla prestazione, dà conto dell’illegittimità formale della stessa, o della sua irregolarità (se non altro) procedurale, quand’essa fosse stata realizzata in assenza della norma di copertura o prima della sua entrata in vigore: prima della legge che li introduca, infatti (per il positivismo) non si ha «diritto» e non si ha procedura legale, altrimenti non servirebbe introdurli....

Sotto un secondo rispetto, poi, il fatto che questa norma di ius superveniens sia abortita nel suo stesso iter procedurale e il fatto che essa non sia venuta in essere come norma vigente, ciò impedisce anche l’effetto sanante che avrebbe potuto viceversa sortire sul piano della sistematica teorica endo-ordinamentale l’ipotesi della sua promulgazione, oltre a dare conto di una non omogenea «volontà politica» in tale senso, nemmeno a livello regionale.

Tutto depone, per tanto, contro la legalità delle pratiche e/o delle procedure adottate per apprestare assistenza pubblica all’aspirante suicida, prima o senza che la legge positiva ne abbia prevedute e disciplinate le relative fattispecie. Ciò significa che, pur tacendo su ogni aspetto legato ai più elementari sensi della giustizia sostanziale e della morale, i quali nemmeno vengono qui considerati accidentalmente, l’esito del disegno di legge in narrativa risulterebbe dare ragione alla tesi più volte sostenuta dalle pagine di quest’Osservatorio, cui è giuocoforza farsi integrale rimando.

Suscita peraltro qualche perplessità il fatto che la cosa parrebbe essere passata – come si dice – sotto silenzio e parrebbe non avere destata una certa attenzione nemmeno presso i più attenti positivisti, pei profili di diritto positivo che essa necessariamente trae in giuoco. Onde sarebbe da domandarsi, con Giovenale, quis custodiet ipsos custodes? Oltre al tema della legittimità sostanziale, infatti, v’è un indubbio problema formale di legalità e di procedura, anche intese nel più stretto senso del kelsenismo giuridico.

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Sotto un primo profilo, comunque, può dirsi che l’episodio in parola abbia effettivamente messo in crisi la dirigenza politica della Regione del Veneto. Due quotidiani, per esempio, hanno titolato evidenziando quest’aspetto e parlando, un primo, di “centrodestra spaccato” [7] e un secondo di “Zaia in minoranza”[8]. In altre parole è stata messa in evidenza una certa instabilità interna alla coalizione partitica di maggioranza, almeno relativamente al punto in questione.

Il perché di questa effettiva o apparente instabilità, tuttavia, non pare essere stato adeguatamente indagato. La cosa però va considerata, sia pure marginalmente, e sia pure senza dilungarsi in analisi che richiederebbero tempi e spazii maggiori di quelli a disposizione del presente contributo.

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Innanzitutto occorrebbe infatti vedere se l’instabilità all’interno della maggioranza regionale ci sia o non ci sia, cioè se il problema della spaccatura interna alla maggioranza sia effettivamente tale, o se piuttosto esso mascheri una certa strategia di partito volta a catalizzare (machiavellicamente) il numero più alto possibile dei consensi elettorali.

Anche quest’ultima ipotesi, invero, pur apparentemente assurda, non dovrebb’essere a priori scartata, e anzi essa darebbe viceversa conto di un certo modo d’intendere e la politica e il diritto vieppiù conforme agli stilemi proprii del liberalismo oggi imperante e dilagante.

Per esempio, considerando che il presidente (c.d. capogruppo) del Gruppo consigliare denominato «Zaia Presidente», Alberto Villanova, con riguardo al citato disegno di legge, ha affermato che esso “non è un progetto di legge del nostro programma di governo, [che] viene da fuori, [e che] per questo non abbiamo dato una linea di voto”[9], si impone la necessità di capire se il mancato raggiungimento dell’accordo, o della direttiva, sulla “linea di voto” possa effettivamente essere indice, spia, di un’autentica rottura della maggioranza, cioè di un problema interno al partito o ai partiti che la compongono; o se esso, all’opposto, dia conto di una manovra appunto elettorale, la quale ambisca ad attrarre consensi tanto dal «gruppo» dei cc.dd. pro choice, cioè da coloro i quali si dichiarano favorevoli all’assoluta disponibilità di sé stessi e del proprio corpo (liberali), ponendone peraltro gl’oneri relativi a carico del c.d. servizio pubblico (radicali); sia attirandoli dal «gruppo» opposto (?) dei cc.dd. pro life, cioè da coloro i quali sarebbero orientati verso una sostanziale indisponibilità della vita per ragioni tra le più disparate.

Entrambi i «gruppi», invero, in esito a questa spaccatura che sarebbe allora solo apparente e strumentale, si troverebbero grosso modo rappresentati dall’attuale maggioranza – da una maggioranza, come oggi si ama dire, inclusiva – e non avrebbero, almeno rispetto a queste questioni, ragioni per uscirne polemicamente: essi potrebbero infatti riconoscersi (ideologicamente) in una o nell’altra schiera d’opinione, senza necessità di abbandonare la «coalizione» e senza determinare a danno di questa una certa emorragia di voti e di consensi.

Ovviamente, né il crinale discretivo tra i cc.dd. pro choice e i cc.dd. pro life è così netto come potrebbe ictu oculi sembrare, anche perché il problema non è scegliere ciò che più aggrada, ma rispondere a un ordine oggettivo di giustizia; né il tema della manovra partitica può ridursi a quanto appena considerato, più profonde essendone, eventualmente, le strutture operative e le rationes procedurali. Nell’economia di questo contributo, tuttavia, non è possibile offrire una più perspicua disamina.

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Il problema della «coalizione eterogenea», però, è un vero problema politico, che si fa ancora più pressante e significativo trattando di questioni lato sensu biogiuridiche ed etiche. Ed è qui che si sostanzia il ganglio concettuale dell’intiera analisi.

Si tratta di un’espressione – coalizione eterogenea – logicamente contraddittoria (contraddictio in terminis), giacché l’eterogenesi dei fini impedisce la coalizione, non la caratterizza. Tale espressione, però, secondo le categorie proprie di un certo modo d’intendere il liberalismo nihilista e relativista, sotto un certo profilo, potrebbe assumere un precipuo significato e potrebbe dare conto di una peculiare ratio essendi dello stesso coalizzarsi dei partiti fra loro.

Anzi, sotto un certo profilo, la coalizione liberale sarebbe tale, cioè coalizione, proprio in forza dell’eterogenesi dei fini che la caratterizzerebbe relativamente ad alcuni temi e aspetti precipuamente considerati non-politici. Per esempio relativamente ai temi etico-biogiuridici, al tema religioso, ai temi della morale familiare e sociale et coetera. La coalizione liberale, cioè, sarebbe – se così può dirsi sinteticamente – omogenea per il pubblico, o meglio per ciò che si assume come pubblico, ed eterogenea per il privato, cioè per ciò che si assume essere privato nel senso di intimo, personale, soggettivo.

Introducendo en passant un argomento legislativo e facendo un riferimento testuale non del tutto approssimativo, potrebbe dirsi che l’eterogenesi della coalizione liberale avrebbe per oggetto i temi che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riconduce, almeno in parte, entro l’alveo concettuale dell’art. 8 C.E.D.U., e cioè della vita privata e familiare così come intesa dalla stessa Corte, e ciò, come se la politica e il diritto inerissero il di fuori, appunto il c.d. pubblico, e la morale il di dentro, cioè il c.d. privato.

 Invero, la “libertà di voto ai suoi”[10], lasciata, come scrive un quotidiano, dal Presidente Zaia, da un lato dà conto di una sorta di ovvietà formale, giacché ogni Consigliere, e in generale ogni membro di un Organo legislativo, è de iure libero di votare come egli crede (in sede costituzionale, per esempio, si parla di assenza del c.d. vincolo di mandato ex art. 67 cost.[11]); dall’altro, però, dà conto proprio della riduzione sistematica – non accidentale o casuale – del problema inerente la vita, il suicidio, la disponibilità di sé et coetera a questioni d’opinione, a orientamenti personali, non a problemi autenticamente politici e di politica del diritto intorno ai quali occorre viceversa rispondere a principii ben determinati e inopinabili. Come a dire che intorno alle cose cc.dd. private, ognuno ha la sua opinione altrettanto privata, la quale vale come ogn’altra, dovendosi l’unità della coalizione viceversa imprescindibilmente avere in rapporto alle cc.dd. cose pubbliche, cioè alle questioni che stanno al di fuori dei recinti privati o accanto a questi.

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La c.d. libertà di voto in ordine a quello che viene considerato un tema etico, allora, significa due cose connesse.

Sul piano politico significa che l’etica ne viene di fatto espunta, cioè che l’etica non rappresenta la base e il fondamento della politica, onde l’accordo etico sarebbe giuocoforza condizionante rispetto all’essere e rispetto all’operatività di una data coalizione, ma è ridotta all’ambito dell’emotivo, del personale, dell’opinabile; mentre sul piano giuridico significa che il diritto, qui circoscritto alla legislazione, non sarebbe un capitolo della morale, quanto piuttosto qualche cosa di radicalmente estraneo e di costruito ad hoc rispetto a determinate finalità operative, onde la normazione di e su un c.d. tema etico non impone l’intelligenza della sua natura, normativa e regolativa della disciplina stessa, ma solamente un compendio di scelte e opzioni del tutto personali, insindacate e insindacabili, tra le quali è giuocoforza prevalersi quella democratica dei più e dei più forti (numericamente e non solo).

La normazione di e su un tema etico, pertanto, ammesso che sulla opportunità della stessa convergano le varie maggioranze provvisorie e contingenti, non dev’essere mai prescrittiva, ma solamente ausiliatrice, agevolatoria, rispetto alle progettualità soggettive dei varii destinatarii o soggetti (rectius, capi d’imputazione), dato che ciascuno ha le sue opinioni e dato che ogni opinione vale quanto le altre, non essendo compito del diritto (o della legge) definire un crinale discretivo che discerna le giuridiche dalle anti-giuridiche, le buone dalle non-buone.

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E qui si dipana il vero nodo della questione.

Nella c.d. libertà di voto relativamente al citato «tema etico», infatti, ciò che resta «libera», nel senso di non vincolata all’ideologia di partito o di coalizione, non è la discussione sulla legittimità o meno dell’agevolazione all’aspirante suicida, né, ex ante, l’opinione inerente la legittimità del suicidio o altro; ciò che resta «libera», infatti, è solamente la decisione relativa all’opportunità c.d. politica di apparecchiare un compendio di norme atte a disciplinare il modo dell’assistenza all’aspirante suicida, quand’egli invochi l’intervento del c.d. servizio sanitario pubblico. Il discorso non è, pertanto, pro o contra la pratica del suicidio assistito, dell’eutanasia o altro, quanto piuttosto esso concerne la decisione di regolamentare o meno per legge regionale l’assistenza del servizio sanitario in tali ambiti.  

In altre parole, più schiette sicuramente, ciò che alla fine viene in discussione e ciò che alla fine rappresenta l’oggetto della veduta «libertà» dei Consiglieri di maggioranza è la sola decisione inerente la destinazione di alcune risorse, in termini di personale, strutture, finanziamenti et coetera, verso un determinato ambito, piuttosto che verso un altro. In ciò si riduce la «decisione politica» sottostante all’intiera vicenda. Infatti, come avrebbe dichiarato lo stesso Presidente Zaia in apertura della discussione “oggi non autorizziamo un bel niente […] al di là di quello che si è detto a livello nazionale, discutiamo un progetto che introduce dei tempi e il ruolo della sanità”[12], quasi a dare per iscontata la legittimità sostanziale e del suicidio e della sua agevolazione.

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È ovvio che sulla base delle considerazioni svolte il problema inerente il servizio sanitario, in questo caso, come in altri analoghi, non sia quello dell’aggettivo, che dovrebbe qualificare il sostantivo, ma piuttosto quello del sostantivo in quanto tale.

Il problema, cioè, è rappresentato dal servizio in quanto servizio: dalla sua duttilità, dalla sua ampliezza, dalla sua idoneità a rispondere alle richieste, ai desideri, alle opzioni dell’utenza et similia. Il problema della sanità e della salute non interessano e, se interessano, interessano per la dimensione prettamente soggettivistica che assumono. Servizio sanitario, pertanto, non significa servizi alla e per la salute, quanto piuttosto, geograficamente, servizio per il corpo. Come a dire che il tema del servizio sanitario è un tema concernente le prestazioni aventi per oggetto il corpo umano, indifferente essendo la dimensione teleologica delle stesse, il loro fine, e la loro natura.

La caratteristica pubblica del servizio in parola, allora, richiede «solamente» una pubblica gestione – e potrebbe dirsi anche una gestione politica, secondo l’accezione moderna del termine – delle risorse e dei mezzi a disposizione, non mai una regola inerente il fine dello stesso e dipendente dalla sua stessa natura.

 

 

[1] Cfr., per esempio, F. Dal Mas, La Regione Veneto boccia la legge sul suicidio assistito, Zaia in minoranza, in Avvenire, 16 gennaio 2024, in https://www.avvenire.it/attualita/pagine/legge-fine-vita-zaia-voto-no.

[2] La stampa riporta che sarebbero stati “25 i voti a favore (del presidente Luca Zaia, da parte della Lega e del centrosinistra, con un’astensione nel Pd). 22 i contrari (Fdi, Forza Italia, e la parte rimanente della Lega e dei consiglieri zaiani), e 3 astensioni (due della Lega)” (F. Dal Mas, La Regione Veneto boccia la legge sul suicidio assistito, Zaia in minoranza, in Avvenire, 16 gennaio 2024, cit.).

[3] Si tratta, come è noto, della p.d.l. 217 d’iniziativa popolare sulle “Procedure e tempi per l'assistenza sanitaria regionale al suicidio medicalmente assistito”.

[4] Cfr. R. Di Marco, Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017.

[5] Solo si ponga mente alla notizia secondo la quale in altre Regioni italiane sarebbe in discussione o verrà presentata per la discussione un’analoga proposta: cfr. Fine vita, in dieci Regioni la proposta presto in Aula, in Il Solo 24 Ore, 18 gennaio 2024, in https://www.ilsole24ore.com/art/fine-vita-dieci-regioni-proposta-presto-aula-AFP01PNC e non è irrealistico ipotizzarsi che molte Regioni, o perlomeno alcune, si esprimano nel senso di un’approvazione.

[6] Si fa rinvio all’edizione in linea del periodico Il Sole 24 Ore del 25 Luglio 2023. Cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/suicidio-assistito-condizioni-fissate-consulta-attesa-legge-AFzktWL.

[7] Veneto, non passa legge su fine vita, centrodestra spaccato, in Il sole 24 Ore, 16 gennaio 2024, in https://www.ilsole24ore.com/art/ddl-fine-vita-ecco-proposta-veneto-suicidio-assistito-AFEWPVMC.

[8] F. Dal Mas, La Regione Veneto boccia la legge sul suicidio assistito, Zaia in minoranza, in Avvenire, 16 gennaio 2024, cit..

[9] Veneto, non passa legge su fine vita, centrodestra spaccato, in Il sole 24 Ore, 16 gennaio 2024, cit..

[10] Veneto, non passa legge su fine vita, centrodestra spaccato, in Il sole 24 Ore, cit..

[11] Il divieto di vincolo di mandato vale principalmente per la libertà dell’eletto nei confronti degli elettori, ma vale anche per la libertà dell’eletto rispetto al Partito di appartenenza.

[12] Ivi.