Referendum sull’eutanasia: riflessioni critiche
Evviva: finalmente si potrà morire dolcemente!
Ecco l’entusiastico ma raccapricciante annuncio con il quale i promotori del referendum abrogativo dell’articolo 579 codice penale hanno comunicato di aver già raggiunto la soglia delle firme prevista dalla Costituzione: tutto ormai sembra pronto per l’ingresso dell’eutanasia, fatte salve le consuete formalità di rito.
Non è solo la notizia in sé, che mi ha turbato e non poco, ma la proclamazione che limitando la punizione dell’omicidio del consenziente ai soli casi di “consenso mal formato” si potrà dare ampia tutela e dignità alla persona umana e garantire la sua libertà.
Sinceramente una simile affermazione pecca di incoerenza e manca di serietà.
Non si tratta, infatti, di ammettere la sovranità della coscienza individuale sulla propria vita, né di prendere mestamente atto che chi non crede nell’Aldilà può non considerare la vita umana (propria ed altrui) come bene inviolabile e non disponibile.
Del resto, parlare di sacralità della vita a chi ridicolizza (nei gesti o nelle intenzioni) anche solo l’idea di un Dio che si fa uomo, onestamente è un po’ pretenzioso.
Ma ritenere che attraverso il referendum proposto, si innalzi il vessillo della libertà e della dignità umana di chi si farà togliere la vita, è oltremodo ingenuo e capzioso.
Ingenuo: perché in fin dei conti, si tratta di legittimare l’omicidio del consenziente. Quindi, oltre alla libertà del morente, viene in gioco e innanzi tutto anche quella del soggetto che provocherà la morte.
E poiché “questo consenso ad essere uccisi”, nel testo dell’articolo 579 Codice Penale risultante dalle abrogazioni proposte, può prescindere dalla condizione di grave malattia o di situazione di estrema sofferenza, che con rapacità mediale viene spesso invocata a sostegno del referendum, è evidente che l’accordo omicida può fondarsi non solo sulla pietà, ma anche – e “più concretamente” – su rapporti in qualche modo economici e, dunque, sulla convenienza dell’uccisore, più che sulla dignità del morente.
Ed ecco che così si svela la capziosità del tutto: non già si sarà liberi di “morire”, ma di uccidere sol che il morente sia d’accordo e così rendere in prospettiva tale attività un mestiere a carico della spesa pubblica o privata.
Un tempo i boia si coprivano il volto: un gesto ipocrita, forse, ma significativo almeno del fatto che non ci si potesse vantare pubblicamente di tale mestiere, dato che la “morte coscientemente data”, ancorché meritata e quindi in qualche modo voluta dalla “vittima”, non potesse mai derivare da una vera “persona umana”, cioè da un essere dal volto umano.
Oggi, invece, ci si può vantare “a viso aperto”, purché con fare educato ed accattivante, su tutti i media delle proprie capacità omicide e della predisposizione ad uccidere chiunque voglia morire … e magari per ciò solo meritare d’essere citato come esempio e concorrere alle maggiori cariche pubbliche.
Si dirà: tutto ciò è solo una mistificazione! Nessuno vorrà farsi uccidere “a capriccio o per capriccio” neppure satanico o religioso. Dunque, si tratta di dare finalmente pace a chi soffre!
Sarà … ma mi domando come ed in che modo questo magnifico consenso a morire dovrà essere formato e provato (basterà un cenno col capo, una dichiarazione vocale, una lettera, una ripresa o servirà una dichiarazione notarile o rilasciata avanti più testimoni unitamente a un certificato contestuale dimostrante la capacità di intendere e di volere del dichiarante?) e se dovrà valere solo poco prima dell’azione omicida o potrà essere formalizzato anche a “futura memoria”.
E cosa mai accadrà se la morte non sarà (o potrà essere) eseguita secondo le modalità, se del caso, appositamente previste dalla vittima o, per contro, vi sarà ripensamento di uno dei partecipanti all’accordo omicida, specie se sarà inarrestabile il decorso causale o gravissime ed irreversibili le lesioni nel mentre provocate?
Ed ancor di più mi domando se anche questa “facoltà di uccidere chiunque voglia morire” possa essere sostenuta socialmente e resa oggetto di insegnamento per i cittadini di domani.
Nessuno banalizza la tragicità di alcune situazioni e nessuno (anche tra i cristiani) può seriamente ritenere che in alcune dolorosissime circostanze la morte del sofferente non sia mai una soluzione auspicabile.
Ma è proprio per la tragicità della materia e la delicatezza del contesto, che non si può mai permettere che tutto ciò diventi oggetto di manipolazioni politiche oltre che mediatiche.
Che la pena sia sempre necessaria in tutte le ipotesi di omicidio del consenziente, non è un’affermazione giuridicamente esatta, posto che essa (la pena) nell’an, nel quantum e nel quomodo è sempre stabilita dalla legge e, dunque, da una decisione politica.
Ma ritenere a priori che l’omicidio di chi ha prestato “correttamente e coscientemente” il proprio consenso sia in sé giusto, è una pura assurdità.
Non si tratta, infatti, di punire o vietare il consenso alla propria morte (ciò, del resto, non è vietato e punito neppure ora!), ma di stabilire se si possa in sé punire chiunque uccida un uomo sol perché quest’ultimo ha acconsentito alla sua morte.
Di per sé, il “mero consenso” non può mai essere sufficiente a giustificare la morte della vittima, poiché – anche a voler ammettere l’esistenza di situazioni limite – sarà comunque necessaria, per definizione, la presenza di ulteriori elementi “di contorno”, che a questo fine saranno essenziali, per “rendere accettabile” la morte di un uomo.
Il fatto è che con la punizione di chi uccide un altro uomo, si ha come riferimento, certamente la vita di chi è morto, ma anche l’imperitura esigenza di impedire che un uomo possa provocare la morte di un suo simile (forse è il caso di ricordare che l’uccidere, al di là delle forme poste in essere, è e rimane un atto di violenza) senza una solida, chiara e definita ragione fondata concretamente sulla necessità di proteggere la società o il soggetto omicida.
Da tempo immemore, infatti, la violenza o la guerra (come un tempo si diceva nel gergo di Ugo Grozio) è ammessa giuridicamente solo come atto di difesa, come estremo elemento per impedire che si provochino danni irreparabili ad altri in ragione di comportamenti altrui.
Ammettere la legittimità della morte di chi non ha fatto nulla di male, significa non già esaltare la dignità della vittima, ma ridurre a “cosa” il suo essere persona: quasi che una mesta parola, magari detta tra lacrime e grida strazianti, possa far venir meno la natura umana e il diritto fondamentale di tutti di essere protetti contro le violenze.
Insomma, di regola il consenso potrà legittimare un trattamento sanzionatorio più mite rispetto al caso in cui si uccida un uomo “senza il suo consenso” o con un “consenso viziato”, ma non anche legittimare del tutto l’azione omicida.
A ciò si obietterà: ma vi sono casi, nei quali in qualche modo la coscienza può spingere a gesti estremi. Può il diritto davvero non considerare questi casi “particolarissimi”?
Se mi si domanda come uscire da questa impasse, posso solo evidenziare che ben può sussistere un “reato” anche se in concreto il fatto non sia punibile.
A posteriori e, dunque, tramite un accertamento giudiziale si può comprendere, per esempio, se nel caso concreto vi sia stato davvero un sentimento di pietà ed una situazione di estrema necessità della vittima, del tutto incapace di potersi dare da sé la morte e senza possibilità di poter migliorare la propria drammatica e dolorosa situazione di salute, e soprattutto se tutto ciò che è stato fatto ha carattere di eccezionalità specie per la persona, che ha provocato la morte, tale da escludere la meritevolezza in concreto, sia dal punto di vista sociale che giuridico, di una pena, se del caso, previa audizione delle persone care alla persona deceduta.
Ma come ben si comprende, qui non vi sarebbe alcun consenso che scuserebbe: più semplicemente, il contesto e la personalità dei soggetti coinvolti potrebbero impedire l’applicazione di una pena concretamente non necessaria ed oggettivamente sproporzionata.
Come si vede, dunque, la questione è molto più complessa ed anche assai più articolata rispetto a quanto proposto dai referendari.
Non è vero, dunque, che la legittimazione dell’eutanasia sia la sola alternativa allo stato delle cose oggi vigenti: ben si può operare attraverso un sapiente e delicato intervento legislativo ad hoc, che salvaguardi l’indisponibilità della vita umana ma che si faccia anche carico della sofferenza e della fragilità umana.
Si replicherà: ma vi sono politici oggi capaci di far ciò e di farlo bene?
Non è una domanda a cui possa qui dare una risposta, essendo quest’ultima tutta un’altra storia.
Posso solo dire che da un’eventuale mediocrità della classe dirigente, non può derivare né logicamente né giuridicamente la legittimazione dell’omicidio di chi, per qualunque ragione, voglia morire.
Diversamente, alla morte (supposta) della politica si accompagnerebbe la morte (certa) dell’umanità e del suo senso.