La proposta di legge in materia di morte volontaria medicalmente assistita: un vuoto normativo colmato solo in parte
La proposta di legge in materia di morte volontaria medicalmente assistita: un vuoto normativo colmato solo in parte
Introduzione
In data 10/03/2022, la Camera dei Deputati ha approvato la proposta di legge C. 3101, volta ad introdurre «Disposizioni in materia di morte volontaria medicalmente assistita», presentata per la prima volta il 10/05/2021 dall’On. Trizzino.
Il testo normativo in esame, come noto, è volto a colmare la rilevante lacuna in materia di “fine-vita”, presente da tempo nell’ordinamento italiano e segnalata al legislatore dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 242/2019. In tale occasione, pronunciandosi sul caso Cappato, vicenda che aveva provocato reazioni contrastanti nell’opinione pubblica, la Consulta aveva esortato il Parlamento a provvedere all’introduzione di una specifica disciplina, idonea ad evitare «scenari gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità».
L’approvazione del progetto di legge relativo alla morte volontaria medicalmente assistita rappresenta, in realtà, l’esito di un iter particolarmente lungo e travagliato, non scevro da aspri dibattiti che hanno animato le forze politiche rappresentate nell’arco parlamentare, nonché la dottrina e la giurisprudenza. Peraltro, l’impatto mediatico di alcune note vicende giudiziarie, quali i casi Welby ed Englaro, ha determinato l’attiva partecipazione della cittadinanza, con il fiorire di proposte referendarie tese alla legalizzazione della c.d., eutanasia, l’ultima delle quali dichiarata inammissibile dalla Corte Costituzionale il 15/02/2022.
Nel contesto politico brevemente delineato, si inserisce la legge n. 219/2017, recante «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento».
La ratio sottesa a tale provvedimento, sintomatico di una mutata sensibilità in materia di accanimento terapeutico, è quella di rendere maggiormente effettivo il diritto costituzionale di rifiutare le cure, desumibile dall’articolo 32 Costituzione. Particolarmente interessante risulta essere, per quanto qui rileva, l’introduzione del c.d., testamento biologico, strumento giuridico che consente ad ogni individuo di esprimere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di intendere e di volere, le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari. Tuttavia, nonostante abbia il pregio di valorizzare il principio di libera autodeterminazione, anche attraverso l’importanza attribuita al consenso informato, l’intervento legislativo descritto non risolve i delicati problemi posti dal rifiuto alle cure, ogni qualvolta ciò determini il decesso del paziente. Nello specifico, il silenzio del legislatore in materia di eutanasia ha reso l’ambito di operatività della disciplina in esame assai angusto, stretto «fra i due poli dell'attività sanitaria» [1]: il diritto all'autodeterminazione del paziente, da un lato, e il dovere di cura del medico, dall’altro.
Proprio in relazione a tale ultimo aspetto, non può che richiamarsi l’articolo 17 del Codice deontologico, che vieta al sanitario di operare o favorire trattamenti, anche su richiesta del malato, diretti a provocarne la morte. Se si considera, poi, che l’ordinamento sanziona penalmente l’omicidio del consenziente e l’istigazione o aiuto al suicidio, è giocoforza ritenere nullo, per illiceità della causa e contrasto con norme imperative, il biotestamento finalizzato ad autodeterminare l’eutanasia [2]. Neppure le brecce interpretative aperte dalla giurisprudenza nel tessuto costituzionale, del resto, valgono a trarre d’impaccio l’interprete, alla luce del rinvio operato dalla Consulta al legislatore, espressamente sollecitato a colmare il vuoto normativo in materia di fine-vita.
I principi di riferimento
Per queste ragioni, muovendo dalla citata sentenza n. 242/2019, il testo normativo oggi all’esame del Senato si propone di valorizzare i principi sanciti dagli artt. 2, 3, 13 e 32 Costituzione, dall’articolo 8 CEDU, nonché dagli artt. 1, 3, 4, 6 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, introducendo la possibilità, per le persone affette da patologie irreversibili o con prognosi infausta, di chiedere «assistenza medica per porre fine volontariamente e autonomamente alla propria vita, con i presupposti, alle condizioni e nei limiti previsti dalla presente legge». L’intento dei promotori dell’iniziativa legislativa è quello, dichiarato, di colmare l’ingiustificata lacuna presente nell’ordinamento, offrendo una risposta a centinaia di malati che chiedono il «rispetto della propria dignità nella morte», oggi costretti a recarsi in Paesi dove l’eutanasia o il suicidio assistito sono legali.
Grande enfasi è posta, nella relazione introduttiva, sul concetto di dignità, nozione invero ampia e difficilmente definibile, in quanto immanente al tessuto costituzionale, ma non specificata dal legislatore. Il riferimento a tale principio, per quanto condivisibile, appare tuttavia sviluppato in maniera poco opportuna, in quanto non concretamente declinato all’interno dell’articolato normativo. In particolare, risulta eccessivamente retorico il riferimento alla c.d., “vita degna”, locuzione dal significato oscuro, inevitabilmente legato alla sensibilità dell’interprete, chiamato a svolgere complesse riflessioni filosofiche ed etiche per riempire di contenuti una nozione evidentemente problematica.
Più pregnante risulta essere, invece, il rinvio all’articolo 8 CEDU, che sancisce il diritto al rispetto della vita privata e familiare, escludendo ogni ingerenza dell’autorità pubblica, qualora non prevista dalla legge e dettata da esigenze della collettività. Si tratta di un principio ripreso dall’articolo 7 della Carta di Nizza, ad avviso di chi scrive fondamentale per definire la cornice di libertà in cui si colloca l’intervento normativo de quo. In questo senso, la rilevanza penale delle condotte che agevolino la morte di una persona affetta da patologia irreversibile o con prognosi infausta, la quale desideri porre fine alla propria vita per le intollerabili sofferenze patite, rappresenterebbe un’illegittima intromissione dell’autorità pubblica nella vita privata, con inevitabile ricaduta su altre prerogative di rango costituzionale, quali il diritto all’autodeterminazione e alla libertà di coscienza.
A lume di simili osservazioni, appare certamente possibile un’esegesi “forte” dell’articolo 32 Costituzione, secondo cui nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge: ergo, poiché la norma da ultimo citata riconosce il diritto dell’individuo di rifiutare le cure, interpretazione pacificamente accolta dalla giurisprudenza, non sembra fuori luogo ipotizzare una vera e propria «libertà di lasciarsi morire» [3]. In altri termini, la disposizione in esame rappresenterebbe una fondamentale premessa per riconoscere il «principio della incoercibilità del vivere» [4], in ragione del quale la consapevole rinuncia del malato alle cure determinerebbe, per il medico, non solo la cessazione dell’obbligo di realizzare trattamenti finalizzati a mantenere in vita il paziente, ma altresì il dovere giuridico di consentire a quest’ultimo l’esercizio del proprio diritto di rifiutare le terapie di sostegno vitale, costituzionalmente garantito [5].
La soluzione esegetica prospettata trova autorevoli conferme tanto nella giurisprudenza costituzionale, quanto in quella di legittimità e merito. In particolare, ai fini della presente disamina, non è ozioso richiamare la sentenza di non luogo a procedere, pronunciata dal GUP di Roma nel caso Piergiorgio Welby, vero e proprio leading case italiano in materia di eutanasia. Nel ribadire la pari dignità dei diritti di rango costituzionale, il giudice estensore ha evidenziato la necessità di operare un bilanciamento fra il diritto alla vita e quello all’autodeterminazione in materia di cure, discendente dall’articolo 32 Costituzione In quest’ottica, «l’ambito entro il quale l’individuo può autorizzare anche condotte direttamente causative della sua morte viene stabilito direttamente dal legislatore […], quando afferma che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario» [6]. Pertanto, afferma l’organo giurisdizionale, «l’adesione o il rifiuto può riguardare soltanto una condotta che ha come contenuto competenze di carattere medico e che può essere posta in essere unicamente da un soggetto qualificato […] all’interno di un rapporto di natura contrattuale a contenuto sanitario». Conseguentemente, sul medico incomberà un preciso dovere di osservare la volontà di segno negativo del paziente, scaturente direttamente dalla previsione di cui all’articolo 32, comma 2, Costituzione.
Deve considerarsi ormai pacifica, infatti, la possibilità di ricondurre il rifiuto dei trattamenti sanitari, espressione del principio di libertà di autodeterminazione sancito dall’articolo 13 Cost, al novero dei diritti inviolabili della persona tutelati dall’articolo 2 Costituzione, non a caso richiamato dalla disposizione di apertura della proposta di legge in esame. Questa esegesi risulta corroborata, a livello internazionale, dall’articolo 5 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, ratificata nel 2001, in forza del quale: «un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero ed informato. La persona interessata può, in qualsiasi momento, ritirare il proprio consenso».
Da ultimo, con la sentenza n. 242/2019, relativa al caso Cappato, vicenda giudiziaria assurta agli onori della cronaca per il grande dibattito sviluppatosi intorno al suicidio assistito di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo, la Consulta riprende e sviluppa l’orientamento giurisprudenziale ormai prevalente in materia di fine-vita, affermando che: «il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente, nonché irragionevolmente, la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferente, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Costituzione, imponendogli in ultima analisi un’unica via per congedarsi dalla vita» [7].
Siffatta considerazione conduceva il giudice delle leggi a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 Codice Penale, laddove non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della citata L. 219/2017, ovvero con modalità equivalenti per i fatti anteriori, agevoli l’esecuzione del proposito suicidario, autonomamente e liberamente formatosi, «di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze che ella reputa intollerabile, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente» [8].
Il contenuto della proposta di legge: un vuoto normativo colmato solo in parte
Tracciato brevemente il quadro costituzionale di riferimento, è necessario esaminare nel dettaglio l’articolato normativo passato al vaglio della Camera. L’articolo 2 definisce il concetto di «morte volontaria medicalmente assistita» come «decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, all’esito del percorso disciplinato dalle norme della presente legge, taluno pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e la supervisione del Servizio sanitario nazionale». L’autonomia dell’atto rappresenta, invero, l’elemento centrale della nozione, idoneo a circoscrivere l’ambito di applicazione dell’emananda disciplina alle sole ipotesi di suicidio, sia pure assistito dal personale medico.
L’intento del legislatore, evidente, è quello di espungere l’eutanasia attiva dal novero delle condotte rilevanti ai fini della proposta di legge, opzione che trova conferma ai sensi dell’articolo 7, il quale esclude la possibilità di sanzionare penalmente, ex artt. 580 e 593 Codice Penale, il personale sanitario e quanti abbiano agevolato la persona malata nell’attivare, istruire o portare a termine la procedura di morte volontaria medicalmente assistita. La norma, quindi, scrimina unicamente le condotte che integrino aiuto al suicidio del paziente, non quelle dirette a provocarne attivamente il decesso, riconducibili alla fattispecie dell’omicidio del consenziente, punibile ai sensi dell’articolo 579 Codice Penale.
La scelta legislativa appare criticabile in un duplice senso. In primo luogo, la proposta di disciplina è ben lungi dal colmare il vuoto normativo in materia di fine vita, giacché le ipotesi maggiormente controverse, pur oggetto di rilevanti pronunce, sono estromesse dal suo ambito di applicazione. Per altro verso, essa rischia di apparire superflua, in quanto destinata a scriminare condotte che già oggi, alla luce della recente giurisprudenza costituzionale, non dovrebbero considerarsi penalmente rilevanti.
Il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari, infatti, è pacificamente desumibile dall’articolo 32, co. 2 Costituzione, alla base della sentenza n. 242/2019, sopra citata, che esclude la punibilità dell’aiuto al suicidio «prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza», ai sensi dell’articolo 1, co. 5 della legge n. 219/2017, che prefigura una vera e propria «procedura medicalizzata».
Secondo la Consulta, quindi, non potrà essere considerata penalmente rilevante la condotta di chi agevoli l’esecuzione del proposito suicidario, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze reputate intollerabili. Tale impostazione esegetica trova autorevoli conferme nella dottrina ampiamente maggioritaria, secondo cui l’intervento medico stesso incontrerebbe dei limiti alla propria doverosità: conseguentemente, poiché il rifiuto di cure costituisce esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, il sanitario ha il dovere di rispettare la volontà del paziente, anche quando egli decida di non sottoporsi a una terapia vitale [9]. In questo caso, peraltro, «non trattandosi neppure di omissione omicida, bensì di evitare un accanimento terapeutico, sarebbe perfino improprio parlare di eutanasia» [10]. Altri giuristi, invece, pervengono alla medesima conclusione per una via alternativa, muovendo dalla premessa della disponibilità della vita per mano propria, in quanto l’ordinamento riconoscerebbe, accanto al diritto di vivere, una libertà di morire, in specie esercitata mediante il rifiuto ai trattamenti [11].
Una soluzione interpretativa così lineare, tuttavia, non può rappresentare una chiave di lettura idonea per vicende maggiormente controverse, nelle quali la linea di demarcazione fra eutanasia attiva e passiva appare fumosa e incerta. In tali ipotesi, infatti, le concrete modalità di attuazione della volontà del malato di rifiutare le cure sono tali da rendere difficile l’inquadramento della fattispecie, non essendo chiara la sussunzione della medesima sub articolo 579 o 580 Codice Penale.
A titolo di esempio, basti pensare alla questione del c.d. distacco dalla macchina, la cui problematicità è tanto più evidente, ove si consideri la condotta richiesta al personale sanitario che esegua la determinazione del paziente: essa si sostanzia, da un punto di vista naturalistico, in una vera e propria azione, integrando quindi i presupposti dell’eutanasia attiva, penalmente sanzionata dall’ordinamento. Eppure, sembra difficile negare che il rifiuto del sostegno meccanico possa rappresentare species ontologicamente diversa dal rifiuto alle cure in senso stretto, configurandosi quale trattamento sanitario, certamente rilevante ex articolo 32 Costituzione Come è stato efficacemente osservato, però, questa impostazione appare logicamente debole, «poiché in diritto penale la differenza tra azione e omissione è foriera di importanti conseguenze sul piano della illiceità delle condotte: infatti, l’articolo 40, secondo comma, Codice Penale, a mente del quale non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, equipara la condotta omissiva all’azione soltanto in presenza di un obbligo giuridico di agire, caso in cui ricorre il c.d., reato commissivo mediante omissione» [12].
Occorre quindi verificare se sussista, nell’ordinamento, una disposizione che renda lecito il distacco della macchina da parte dell’operatore sanitario: alcuni giuristi ritengono di poter ravvisare tale norma proprio nell’articolo 32 Costituzione, valevole a scriminare ex articolo 51 Codice Penale una condotta tipica astrattamente riconducibile ad una norma incriminatrice [13]. L’iter argomentativo descritto appare certamente condivisibile, ma la disposizione costituzionale non sembra idonea ad escludere la punibilità di un contegno penalmente rilevante, riconducibile alla species dell’omicidio del consenziente. Il principio generale espresso nella carta fondamentale, infatti, necessita di ulteriore specificazione da parte del legislatore, chiamato a sottrarre la materia agli ondivaghi ripensamenti della giurisprudenza. Per questa ragione, il vuoto normativo in materia di fine-vita appare colmato solo parzialmente, in quanto l’articolo 7 della proposta di legge non esclude la punibilità ai sensi dell’articolo 579 Codice Penale, nel caso in cui il personale medico provochi attivamente il decesso del malato, nel rispetto della sua volontà, interrompendo i trattamenti di sostegno vitale.
Tale vulnus normativo, estremamente rilevante, appare tanto più evidente laddove si consideri l’articolo 3 del testo approvato alla Camera, concernente i presupposti e le condizioni per l’accesso alla procedura di morte volontaria medicalmente assistita. Può proporre istanza unicamente la persona maggiore di età, capace di prendere decisioni «libere e consapevoli», nonché affetta da «sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili», la quale si trovi in una delle seguenti condizioni: essere affetta da una «patologia irreversibile o a prognosi infausta»; «essere portatrice di una condizione clinica irreversibile»; essere tenuta in vita da «trattamenti di sostegno vitale o dipendente totalmente dall’assistenza di terzi»; essere assistita dalla rete per le cure palliative o avere rifiutato espressamente tale assistenza.
In primo luogo, deve evidenziarsi l’eccessiva ampiezza del novero di malattie legittimanti l’accesso alla procedura descritta dall’articolato normativo: da un lato, l’uso della congiunzione disgiuntiva, certamente frutto di corrività nella formulazione del testo, potrebbe indurre l’interprete a ritenere la disciplina applicabile anche a individui affetti da patologie irreversibili, benché a prognosi non infausta, circostanza tutt’altro che auspicabile, in quanto non sarebbe garantita la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana; dall’altro, il riferimento alle «sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili» non vale a circoscrivere significativamente l’ambito di operatività dell’articolato normativo, al contrario introducendo ulteriori elementi di criticità, laddove si consideri il carattere assolutamente soggettivo della locuzione.
In un simile contesto testuale, caratterizzato da una notevole indeterminatezza linguistica, dovuta all’uso di termini atecnici, appare pericoloso l’inserimento delle «sofferenze psicologiche» fra le condizioni per l’accesso alla procedura di morte medicalmente assistita: difficile negare, ad esempio, che un grave disturbo della personalità possa integrare i presupposti di una patologia irreversibile, in grado di determinare sofferenze psicologiche ritenute intollerabili per il malato. La disposizione in esame, pertanto, qualora interpretata in maniera strettamente ancorata alla littera legis, andrebbe certamente incontro a censura di illegittimità costituzionale, visti gli esiti eticamente discutibili cui condurrebbe una pedissequa applicazione del testo normativo.
Infine, l’ultimo dei requisiti soggettivi previsti, concernente la totale dipendenza dell’istante dall’assistenza di terzi, ovvero la sottoposizione a trattamenti di sostegno vitale, appare manifestamente incompatibile con la nozione fornita dall’articolo 2, che definisce la morte volontaria medicalmente assistita quale «atto autonomo».
In tale antinomia si palesa il reale intento del legislatore, verosimilmente quello di ricomprendere, nell’ambito di applicazione dell’emananda disciplina, anche fattispecie di difficile inquadramento, come l’ipotesi del distacco dai macchinari. In assenza di un esplicito riferimento all’articolo 579 Codice Penale, tuttavia, il contrasto esistente fra le disposizioni in esame non può essere sanato, se non mediante un artificio ermeneutico.
L’articolo 4, in particolare, prevede che la richiesta di morte volontaria medicalmente assistita sia espressa per iscritto, nelle forme del testamento olografo, oppure con qualsiasi dispositivo idoneo che consenta al malato di comunicare inequivocabilmente la propria volontà: in forza di questa disposizione, dunque, si potrebbe pensare che l’istanza, espressa nelle forme di legge, realizzi una sorta di fictio iuris, consentendo di ricondurre alla nozione di «atto autonomo» la condotta del medico finalizzata a provocare il decesso del paziente attraverso la rimozione del supporto vitale.
Trattasi, invero, di soluzione logicamente ardita, tuttavia non condivisibile, giacché il distacco del macchinario da parte del sanitario rappresenta un contegno naturalisticamente attivo, al limite scriminato dalla manifestazione di volontà del malato, ma in nessun modo riducibile ad una mera omissione. Simile impostazione esegetica, comunque, non vale ad emendare l’evidente vulnus della proposta normativa in esame, individuabile nel mancato riferimento all’articolo 579 Codice Penale: si auspica, pertanto, un intervento del legislatore, teso a individuare con chiarezza l’ambito applicativo della disciplina, attraverso un’attenta actio finium regundorum che riduca lo spazio interpretativo lasciato alla giurisprudenza, il cui copioso intervento, allo stato degli atti, è ampiamente prevedibile.
Il difficile ruolo del personale sanitario
L’articolo 5 della proposta normativa in esame, relativo alle «Modalità di applicazione», prevede che le procedure per la morte volontaria medicalmente assistita siano esercitate «nel rispetto della dignità della persona malata, in modo da non provocare ulteriori sofferenze e da evitare abusi». Si tratta di un limite generico, dalla scarsa portata precettiva, la cui individuazione risulta inevitabilmente demandata al personale sanitario, chiamato a determinare, sulla base delle proprie competenze specialistiche e delle best practices tratteggiate dalle linee guida, il metodo più idoneo a garantire una serena dipartita del paziente.
Il secondo comma della disposizione, non a caso, ritaglia un ruolo estremamente importante per il medico che abbia ricevuto la richiesta di morte volontaria, chiamato a redigere un rapporto sulle condizioni cliniche del malato, da inviare al comitato per l’etica nella clinica territorialmente competente, con l’indicazione delle ragioni che hanno determinato l’istanza. Al riguardo, occorre evidenziare come il legislatore non abbia tenuto conto della varietà di competenze in cui si articola la scienza medica, tale da esigere, sovente, l’intervento di équipe di professionisti, soprattutto per il trattamento di malattie gravi e complesse, come quelle legittimanti l’accesso alla procedura descritta dalla norma. Nella stesura della relazione, pertanto, la professionalità del solo medico che, trovandosi a contatto con il malato, ne abbia recepito la manifestazione di volontà, potrebbe rivelarsi non sufficiente, rendendo necessario il ricorso a forme di consulenza.
L’articolo 5, comma 3, inoltre, al fine di garantire l’effettiva consapevolezza della richiesta di morte, specifica che il rapporto sulle condizioni cliniche debba precisare se il paziente sia stato adeguatamente informato della prognosi, dei trattamenti sanitari ancora attuabili e di tutte le possibili alternative terapeutiche. La relazione deve indicare, altresì, se il richiedente sia a conoscenza del diritto di accedere alle cure palliative, se abbia effettivamente acceduto a tale forma di assistenza, oppure se vi abbia rifiutato.
Con riferimento al contenuto del documento in esame, è necessario osservare come il legislatore non abbia previsto alcun riferimento esplicito alle condizioni psicologiche del malato, riferimento quanto mai opportuno, alla luce della disposizione di cui all’articolo 3, che consente l’accesso alla procedura di morte volontaria alla persona affetta da patologia irreversibile determinante «sofferenze fisiche o psicologiche ritenute intollerabili».
La previsione di un vaglio circa l’assenza di disturbi psichici tali da escludere la piena capacità di intendere e di volere sarebbe stato, senza dubbio, opportuno: basti pensare all’influenza sul processo decisionale esercitata da una grave forma depressiva, spesso idonea a determinare, ex se, la nascita dell’intento suicidario. In realtà, un blando riferimento ad una qualche forma di controllo sulle condizioni psicologiche del richiedente è ravvisabile ai sensi dell’articolo 5, comma 7, laddove si afferma che «il medico presente all’applicazione delle procedure di morte volontaria medicalmente assistita è in ogni caso tenuto ad accertare previamente, avvalendosi ove occorra della collaborazione di uno psicologo, che persista la volontà espressa dal richiedente e che permangano le condizioni di cui all’articolo 3».
Tuttavia, ciò non sembra sufficiente, poiché la scelta di avvalersi del supporto di un professionista specializzato in psicologia è, comunque, lasciata al medico, che può decidere liberamente di ricorrervi laddove lo reputi necessario. Analoghe considerazioni valgono per la disposizione di cui all’articolo 6, comma 2, il quale prevede che i comitati per l’etica nella clinica siano composti da professionisti con competenze cliniche, psicologiche, sociali e bioetiche idonee a garantire il corretto assolvimento dei compiti ad essa demandati. Vista la delicatezza della materia trattata, giacché in claris non fit interpretatio, sarebbe stato senza dubbio opportuno, ad avviso di chi scrive, prevedere espressamente un’attenta analisi delle condizioni psichiche del paziente istante, svolta all’inizio della procedura da parte di un professionista indipendente e cristallizzata all’interno della relazione sulle condizioni cliniche, affidata ad una équipe medica multidisciplinare.
Da ultimo, non si può fare a meno di osservare come ampia discrezionalità sia lasciata al personale sanitario, complice anche l’imprecisione della terminologia adottata, con inevitabile influenza delle convinzioni morali del medico responsabile della procedura. De iure condendo, sarebbe stato preferibile che il legislatore delineasse un iter maggiormente procedimentalizzato, strutturato intorno a diverse relazioni fornite dagli specialisti coinvolti nella cura del paziente, ciascuno per la propria materia di competenza.
Avrebbe garantito migliori tutele, inoltre, il coinvolgimento di un vero e proprio organo giurisdizionale, tenuto a verificare la sussistenza dei presupposti previsti dalla legge, sulla base dei pareri forniti dai medici, aventi carattere meramente tecnico. La soluzione suggerita, coinvolgendo l’intera équipe curante, garantirebbe maggiore obiettività nella valutazione delle condizioni cliniche del richiedente, al tempo stesso assicurando una sicura scriminante processuale per gli operatori sanitari autorizzati dal giudice ad eseguire il trattamento eutanasico (attivo o passivo).
***
[1] Così P.F. GARZONE, A. GALATONE, Osservazioni sulla proposta di legge C. 2350 in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento, Riv. pen., 5/11, su www.foroplus.it.
[2] Così, sia pur in riferimento alla proposta di legge C. 2350, P.F. GARZONE, A. GALATONE, ibidem.
[3] Così G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto Penale, Parte Speciale. I delitti contro la persona, Zanichelli, 2017, p. 40.
[4] Ibidem.
[5] In questo senso, sempre G. FIANDACA, E. MUSCO, ibidem.
[6] GUP Roma, sent. n. 2049/2007.
[7] Corte Costituzionale, sent. n. 242/2019, www.giurCostituzioneorg.
[8] Ibidem.
[9] Così F.B. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, pp. 74 ss.; nello stesso senso F. MANTOVANI, Su omicidio del consenziente e aiuto al suicidio, in Dig. disc. pen., 1990, pp. 422 ss.
[10] G. FRANCOLINI, Eutanasia e tutela penale della persona: orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in Riv. pen., 2005, su www.foroplus.it; così anche F. MANTOVANI, op. cit.
[11] In questo senso L. STORTONI, Riflessioni in tema di eutanasia, in L. FIORAVANTI (a cura di), La tutela penale della Persona, Giuffré, Milano, 2001, p. 147; F.B. GIUNTA, Diritto di morire e diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1997, pp. 74 ss.
[12] G. FRANCOLINI, op. cit.
[13] In questo senso F.B. GIUNTA, op. cit.