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Favoreggiamento al suicidio di Stato?

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Favoreggiamento al suicidio di Stato?

 

Il caso

È recente la notizia secondo la quale una donna, in riscontro a una sua espressa richiesta e in esito a un procedimento in parte giurisdizionale, in parte amministrativo, avrebbe ricevuta una prestazione da parte del servizio sanitario nazionale sostanziantesi nella fornitura dei mezzi e nell’assistenza necessaria alla pratica del suicidio[1].

Sempre secondo quanto riportato dalla stampa, il fatto sarebbe avvenuto in Trieste il 28 novembre scorso e le generalità della donna sarebbero state omesse, o sostituite con un nome di fantasia – Anna –, per espressa volontà della stessa (manifestata – deve ipotizzarsi – a modo di disposizione testamentaria lato sensu intesa).

Si tratta di un episodio «proceduralmente» singolare, cioè singolare (almeno) per quanto attiene alla procedura in esito alla quale esso si è verificato, e ciò almeno considerando la casistica del Friuli Venezia Giulia[2].    

La notizia in senso «giornalistico», infatti, sarebbe data dall’intervento adiuvante del servizio sanitario rispetto alla pratica suicidiaria: vero è che i mezzi per la realizzazione del proponimento (privato) e per la soddisfazione del desiderio (individuale) in parola, sarebbero stati appunto forniti da Apparati statuali lato sensu intesi; anzi, per meglio dire, da Apparati statuali, e in questo senso pubblici,  preposti, almeno nominalisticamente, ad altri (e opposti?) fini.

Il «caso», allora, è un «caso», proprio in quanto esso dà espressamente conto di una pubblica agevolazione al suicidio; vale a dire di un’agevolazione al suicidio caratterizzata dalla qualificazione pubblica dell’Ente o Istituzione che l’ha posta in essere. In termini più precipui dovrebbe dirsi caratterizzata dalla qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di servizio pubblico dei soggetti variamente coinvolti nell’attività agevolatoria in regime di concorso.

A questo proposito, per esempio, un quotidiano italiano, Il Sole 24 Ore, ha riportata la vicenda icasticamente titolando “Suicidio assistito a Trieste, per la prima volta con un farmaco e un medico del Ssn”, così a dare conto dell’aspetto di novità (relativa) testé cennato.

Sempre stando alle notizie di stampa, sembrerebbe che un antecedente al caso de quo sia rappresentato dal c.d. «caso Gloria» (anche in questo caso il nome è di fantasia), occorso nella Regione del Veneto nel luglio scorso[3]. Quest’ultimo sarebbe il primo caso (noto) in Italia di suicidio assistito… «dal» servizio sanitario nazionale, cioè di fornitura dei mezzi suicidiarii a carico di quest’ultimo, previo espletamento di un precipuo iter procedurale.

Nel precedente «caso Carboni», invece, il quale è noto come il primo caso di suicidio assistito (giugno 2022) formalmente legittimato dall’applicazione dello schema interpretativo-procedurale adottato dalla sentenza della Corte costituzionale № 242/2019 (sul c.d. caso Cappato), i mezzi necessarii alla pratica suicidiaria sarebbero stati reperiti in via autonoma (privatamente) senza ricorrere al c.d. servizio pubblico, pur dopo averne espletate le formalità relative alla pratica autorizzativa, compresa – a quanto è dato sapersi – quella concernente l’acquisizione del parere del Comitato etico marchigiano.

La vicenda merita qualche osservazione[4] la quale, a questo punto, deve considerarsi a margine rispetto alle osservazioni già proposte nelle pagine di questo Osservatorio – e non solo[5] – sia a proposito del c.d. caso Cappato[6], sia a proposito del parere del Comitato etico appena citato[7].

 

Richiamo dell’antecedente: nuovi e vecchi problemi.

La prima questione che merita di essere schiarita concerne l’addentellato formale cui fa assegnamento l’assistenza (pubblico-statuale) alle pratiche suicidiarie delle quali si è appena detto. Si tratta cioè di capire su quali basi (se non giuridiche, almeno) legali-normative il servizio sanitario abbia apprestato all’aspirante suicida i mezzi necessarii alla realizzazione del suo proponimento. Dare conto di un tanto – si badi – è imposto dal c.d. principio di legalità, il quale dovrebbe informare, sovrintendere e legittimare tutta l’attività degli apparati pubblici lato sensu intesi, e ciò anche in relazione a temi inerenti il bilancio e a temi inerenti le fattispecie (possibili) di danno erariale.

L’addentellato de quo, come già cennato, alligna nella struttura argomentativa fatta propria dalla già citata sentenza della Corte costituzionale № 242/2019 relativa al c.d. caso Cappato.

Ciò significa che il riferimento formale e la base lato sensu legittimante cui si appellano le procedure propedeutiche agevolatorie dell’altrui volontà suicidiaria allignano negli stilemi argomentativi posti dalla Corte costituzionale a motivazione della declaratoria di parziale illegittimità (costituzionale) dell’art. 580 c.p., nella parte ov’esso incrimini il reus quand’anche egli abbia agito alle condizioni fissate dalla L. 219/2017 in materia di rifiuto delle cure e, più generalmente, in materia di c.d. autodeterminazione terapeutica.

Questo, in estrema sintesi, è il riferimento. Esso, come si evince immediatamente, non è a una norma di legge e nemmeno, immediatamente, a una sentenza considerata nel suo dispositivo; piuttosto esso è alle motivazioni che hanno portato il Giudice ad assumere la decisione in parola.

La questione non è di poco momento, né essa è squisitamente formale: altro, infatti, è la legge; altro è il decisum, cioè il giudicato di una sentenza; altro è il compendio motivazionale che lo sorregge e lo fonda (almeno nell’intenzione del Giudice).

E se risulta singolare che le motivazioni di una sentenza assumano la forza di un dispositivo, ancora più singolare è che esse tengano luogo a una norma di legge…

La sentenza, infatti, nemmeno quella della Corte costituzionale che talvolta ambirebbe a sostituirsi al Legislatore, non è mai una norma in senso proprio, vale a dire una fonte del diritto formalmente intesa nell’ambito del c.d. sistema delle fonti – generale, astratta, impersonale e precostituita –, eppertanto in se idonea a disciplinare una precipua fattispecie (appunto astratta). La sentenza, infatti, si sostanzia nel giudicato e il giudicato presuppone un giudizio sul caso, non una regola generale.

Le sentenze della Corte costituzionale, invero, possono intendersi quali regole ermeneutiche valide erga omnes, cioè quali regole interpretative del Testo costituzionale, non però come regole poste con la finalità di «costituire» il c.d. diritto legale: la «legalità» del diritto costituzionale, infatti, è legata alla sua positivizzazione nell’articolato della Costituzione, la quale è (o dovrebb’essere) regola per la Corte stessa e per la sua Giurisprudenza, non «materiale» per «costruire» norme nuove, cioè «materiale» per costruire un nuovo diritto vivente, diverso e quantitativamente maggiore rispetto a quello vigente (positum).

Si tratta di grammatica del diritto positivo… positivisticamente studiato!

Per meglio dire, a scanso di equivoci, la sentenza, ogni sentenza, quantomeno in un contesto di c.d. civil law, è sì norma… ma lo è relativamente al caso particolare che essa decide sulla base degl’elementi concreti che lo connotato. Non oltre e non diversamente. Essa è norma – potrebbe dirsi più tecnicamente – rispetto al thema decidendum e inter partes, ma la vis normativa che la connota a questo solo si limita. Tant’è vero che rispetto al tema del giudicato e dei possibili effetti ultra partes dello stesso, i vecchi Manuali di diritto processuale, pur al netto di alcune considerazioni particolari, tagliavano corto, come si dice, ricordando che res inter alios acta, tertio neque prodest, neque nocet.

Il «caso» della Corte costituzionale, tuttavia, è indubbiamente peculiare ed esso lo è sia per la peculiarità dell’Organo giudicante, sia per la materia nella quale esso Organo deve giudicare, sia, in fine, per il parametro che esso stesso deve adoperare nel e pel giudizio. Non ultimo aspetto di peculiarità, poi, sarebbe anche quello concernente la dimensione prettamente incidentale del giudizio stesso, il quale, come è noto, si attiva per effetto della c.d. ordinanza di rimessione del giudice a quo, onde ne viene fissato il quesito di costituzionalità[8].

Dato l’oggetto della decisione, allora, e dato il parametro di riferimento, la sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di una legge, pronunziata dalla Corte costituzionale, oltre a valere nell’ambito del giudizio a quo e oltre a esserne in parte qua normativa, essa esplica anche un’efficacia erga omnes, e meglio sarebbe dirsi che essa esplica anche un’efficacia lato sensu innovatrice nello e dello Ordinamento giuridico positivo ove s’innesta, punto espungendone la norma incostituzionale.

Si tratta, evidentemente, di una peculiarità, e forse potrebbe dirsi di un’eccezione, la quale concerne la sola sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di una legge, e quindi il solo dispositivo che ne consegue; gl’effetti del quale, come detto, operano nell’Ordinamento e per l’Ordinamento in funzione lato sensu abrogatrice rispetto alla disposizione normativa censurata.

Le altre pronunzie della Corte costituzionale, anche assunte in esito a procedimenti relativi a lamentate ipotesi di illegittimità costituzionale di una legge non conclusisi però colla declaratoria d’incostituzionalità, al pari di ogn’altra pronunzia giurisdizionale, non dànno conto di alcuna forma di «diffusività» del loro giudizio e del loro giudicato, né di una forma di modifica intra-ordinamentale direttamente o indirettamente operante.

Interrogandosi sulle ragioni che sottostanno all’efficacia erga omnes della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di una legge, pronunziata dalla Corte costituzionale, potrebbe sinteticamente concludersi che essa è conseguenza coerente di una logica tutta interna al c.d. costituzionalismo rigido. È la c.d. rigidità della Costituzione, infatti, che esige l’effetto πάν-ordinamentale di una pronunzia dell’Organo preposto alla sua tutela, la quale accerti l’incompatibilità di una norma di legge (ordinaria) rispetto al Testo costituzionale.

Sul tema non è possibile qui soffermarsi oltre. È bene, però, annotarsi che sarebbe effettivamente incompatibile con il c.d. sistema delle fonti, e segnatamente col criterio gerarchico che le governa, la vigenza di una norma ritenuta deviante rispetto a quella superiore, e forse meglio sarebbe dirsi suprema, rappresentata dal parametro costituzionale inteso (perlomeno) nel senso kelseniano.

Essa sola è la ragione che sovrintende alla c.d. efficacia erga omnes delle pronunzie d’illegittimità costituzionale: si tratta di provvedimenti giurisdizionali i quali espungono dall’Ordinamento vigente ciò che contrasta coi suoi stessi presupposti costitutivo-fondativi.

Espungono, ho appena detto, cioè tolgono, non aggiungono…

Un tanto, allora, non consente di far discendere dalle pronunzie della Corte un effetto innovativo-positivo rispetto all’Ordinamento, vale a dire un effetto stricto sensu normativo conseguente all’introduzione di una disciplina nuova, di una nuova norma che entri nel novero delle cc.dd. fonti del diritto.

I limiti della «innovazione ordinamentale» conseguente alla declaratoria di illegittimità costituzionale di una legge, infatti, sono sol quelli che potrebbero definirsi negativi in quanto dipendenti dall’effetto abrogativo[9]: non si dànno di positivi, i quali conseguirebbero all’entrata in vigore di una disciplina differente apprestata dalla stessa pronunzia del Giudice. Se così accadesse, peraltro, si avrebbe, da parte della stessa Corte e in violazione al del suo stesso mandato istituzionale e delle sue stesse norme costitutive, la surrogazione della funzione giurisdizionale che le è propria con quella legislativa che appartiene viceversa al Parlamento.

Il problema ovviamente è più complesso di quanto qui possa compendiarsi in poche battute, e ciò poiché esso involgerebbe anche la teoria delle cc.dd. rime obbligate e quella delle norme a contenuto costituzionalmente vincolato, ove l’eventuale intervento demolitorio della Corte, quand’essa dichiarasse l’illegittimità di una legge, potrebbe comportare, quale effetto immediato e diretto della stessa disciplina costituzionale, una situazione normativa di fatto sottratta all’arbitrio del Legislatore e in parte qua novativa rispetto allo status quo ante dell’Ordinamento. Ciò, però, aprirebbe un ambito d’indagine non pertinente col tema in disamina.

Credo, tuttavia, che i termini di massima del problema siano già stati sufficientemente posti.
 

Oltre il sistema?

Quanto brevemente detto apre (almeno) a due ordini di problemi: in primis al fatto in virtù del quale l’addentellato formale cui si appellano le varie forme di assistenza pubblica al suicidio supra citate non alberga in una fonte del diritto formalmente intesa, quanto piuttosto in un compendio argomentativo fatto proprio da una pronunzia della Corte costituzionale. In secundis al fatto che il riferimento de quo, non è la sentenza nel suo dispositivo, vale a dire l’effetto abrogativo che essa ha effettivamente prodotto erga omnes, quanto piuttosto le rationes che la Corte medesima ha esplicate e poste a fondamento della decisione adottata, così come «lette» dai varii funzionarii che hanno creduto legittimo di farne una norma.

La questione sembra assai problematica e di non poco momento.

Altra, infatti, è l’applicazione di una sentenza della Corte costituzionale dichiarativa dell’illegittimità di una norma, la quale innova in questo senso l’Ordinamento, espungendone una legge incostituzionale; e altra, tutt’altra, è l’estensione per analogia di un argomento ermeneutico posto dalla Corte stessa alla base di una sua decisione, dando allo stesso un valore normativo per qualunque fattispecie concreta ne sia variamente sussumibile o si ritenga entro lo stesso sussumibile.

Come si ricorderà, infatti, la Corte, nella mentovata pronunzia, ebbe dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma sub art. 580 c.p. (rubricato “istigazione o aiuto al suicidio”), nella parte ove esso perseguiva l’agevolazione suicidiaria anche qualora fossero ricorse le condizioni previste dalla L. 219/2017 in tema di rifiuto delle cure; e con ciò la Corte ebbe operata una parziale depenalizzazione della fattispecie in parola. La Corte, però, nel dispositivo della Sentenza in parola non ebbe per ciò solo introdotti nuovi diritti, nuove procedure amministrative, nuove poste di bilancio a carico del servizio sanitario et coetera.

In particolare la Corte non ebbe introdotto nello ius positum vigente un diritto soggettivo (facultas agendi ex norma agendi) all’esercizio del suicidio; né vi ebbe introdotto un connesso diritto all’aiuto al suicidio e/o all’agevolazione del suicida: altro, infatti, è depenalizzare una fattispecie, altro è assurgerla al rango di diritto.

A fortiori, la Corte non ebbe introdotta nell’Ordinamento giuridico positivo una procedura amministrativa finalizzata all’accesso all’assistenza suicidiaria; tantomeno essa ebbe innovato in parte qua il Codice di deontologia medica, introducendovi una fattispecie derogatoria rispetto all’art. 36 a mente del quale “il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte”.

Leggendo la questione dal punto di vista penalistico e al netto di una terminologia sicuramente perfettibile, se non addirittura approssimativa, potrebbe dirsi che la declaratoria di incostituzionalità contenuta nella citata sentenza № 242/2019 ha di fatto introdotta nell’Ordinamento positivo una scriminante o esimente dell’antigiuridicità del fatto agevolatorio. Onde l’aiuto al suicidio sub art. 580 c.p. permane nella sua natura e nella sua funzione di norma incriminatrice, pur non applicandosi esso al reus quand’egli abbia agito alle condizioni e in ottemperanza ai criterii assunti dalla Corte medesima per relationem rispetto alla L. 219/2017. La conseguenza della mentovata sentenza, pertanto, sarebbe ed è sol quella di evitare la condanna penale, e probabilmente anche l’incriminazione, qualora ricorrano le circostanze de quibus.

Al di là di questo «effetto penalistico», peraltro coerente con la ratio dell’incidentalità del giudizio a quo che ebbe occasionata la sentenza in narrativa, non ritengo sia tecnicamente possibile andare, né credo che la grammatica del dritto positivo consenta di dedurre, dall’intervento della Corte, quel compendio di innovazioni ordinamentali prima citate, le quali  arrivano fino al procedimento amministrativo, passando per la disciplina deontologica della professione medica.

Tutto ciò – qui richiamo le osservazioni di Daniele Trabucco[10] – con buona pace, per esempio, anche delle varie Istituzioni regionali, le quali vorrebbero rappresentare una sorta di avanguardia legislativa in materia lato sensu sanitario-assistenziale.

 

Servizii… di Stato, Stato dei servizii, Stato senza servizio.

Al di là, allora, di un’assoluta e patente carenza dei più elementari presupposti legali – in diritto amministrativo si parlerebbe, coeteris paribus, di vizio per incompetenza (forse anche per violazione di legge) –, l’assistenza suicidiaria a carico del servizio sanitario nazionale dà conto di un ulteriore problema: esso concerne la natura giuridica dell’assistenza medesima in relazione al servizio stesso, e la sua coerenza rispetto alle finalità normativamente assegnategli.

Da un punto di vista logico, invero, pare assurdo che il servizio sanitario offra o possa offrire mezzi funzionali alla soppressione della vita umana: si tratta, già a un primo sguardo, di una contraddictio in adiecto. Vero è che se il servizio sanitario ha per oggetto e per fine la sanità e la salute (quest’ultima è espressamente contemplata, per esempio, anche dalla nuova nomenclatura del Ministero competente), essa non solo non si persegue, ma addirittura si offende coll’apprestare mezzi funzionali alla soppressione della vita, coll’agevolare le pratiche suicidiarie, coll’apprestane mezzi e provvidenze.

A quest’ultimo proposito val bene ricordare che l’art. 1 co. II della L. 833/197, istitutiva, appunto, del servizio sanitario nazionale, recita che “il  servizio  sanitario nazionale è costituito dal complesso delle funzioni,  delle  strutture,  dei servizi e delle attività destinati alla promozione, al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica  di  tutta  la  popolazione”.

Che poi lo stesso «concetto» di salute, la sua definizione, siano a loro volta problematici, e che essi richiedano ulteriori considerazioni, ciò è pur vero, dando conto di un problema… nel problema.

Anche senza grossi sforzi interpretativi, comunque, sembra del tutto immediato arguirsi che il fine e la ratio essendi del servizio in parola non albergano nella realizzazione di desideri e/o nella fornitura di mezzi funzionali al perseguimento di progettualità qualsiasi. Tantomeno essi albergano nella realizzazione di desideri e/o nella fornitura di mezzi i quali siano in patente contrasto con la vita umana.

Né può opinarsi in senso contrario facendo ricorso alla definizione, pur assai discutibile, del concetto di salute data dall’Organizzazione mondiale della Sanità, secondo la quale essa coinciderebbe con il “complet bien-etre physique, mental et social[11] della persona.

Altro è il bene e altro è il benessere; questo è vero! Ed è pur vero che riducendo il benessere a una sensazione la quale prescinda dall’essere e segnatamente dall’essere-bene, cioè dall’essere secondo l’ordine (oggettivo) della fisiologia, si può financo pervenire a una forma di perseguimento del benessere, la quale, in realtà, nuoccia al bene – già ne ho parlato[12] –, ma anche facendo assegnamento su questo «modello salute», il quale è comunque errato per eccesso e per difetto, dovrebbe riconoscersi che esso stesso presuppone l’essere dell’individuo e non la sua negazione, la vita di lui e non la sua morte.

Anche la ricerca, il perseguimento, la tutela, il mantenimento e il recupero del suo “complet bien-etre physique, mental et social”, dunque, mai possono perseguirsi fornendo alla persona mezzi e assistenza finalizzati ad agevolarne il suicidio, il quale non si sostanzia, infatti, né nel bene di lei (in sé oggettivo), né in una anche malintesa sensazione di benessere (soggettivo-emozionale), quanto piuttosto nella sua negazione fisica.

Non occorrerebbe proseguire oltre, tanto è palese l’incongruenza.

A volere essere perspicui potrebbe addirittura farsi riferimento anche al c.d. danno erariale: invero, la distrazione di fondi del servizio sanitario nazionale per fini alieni a quelli sottostanti alla sua stessa costituzione normativa ed espressi apertis verbis dalla legge istitutiva, per non dire contrarii e opposti alla stessa, dovrebb’essere motivo di indagine ed eventualmente di censura, sotto questo profilo, da parte della Corte dei conti, e ciò a mente dell’art. 1 L. 20/1994 ss.mm.ii.. Anche da un punto di vista contabile, infatti, non pare cosa di poco momento che i funzionarii del servizio sanitario nazionale, preposto e istituito per la “promozione, [… il] mantenimento [e il] recupero della salute” delle persone, usino delle sue risorse (che peraltro si dicono scarse) e di suoi appannaggi (che peraltro si dicono insufficienti) allo scopo opposto di agevolare l’altrui proposito suicidiario. 

Se ci domandassimo, però, conclusivamente, quali siano le ragioni in virtù delle quali oggi si sia arrivati a tanto, credo che le risposte si troverebbero nella coerente applicazione dell’ideologia liberal-radicale, in virtù della quale, infatti, essendo caduti anche gli aspetti istituzionali legati al c.d. Stato forte, ha voluto trasformare lo Stato e le sue Istituzioni in fornitori acritici di servizii, di servizii di qualunque tipo, i quali consentano la più amplia realizzazione possibile delle progettualità individuali e così il libero sviluppo della personalità, ridotta a fascio vitalistico di istinti e di desiderii.

In un prossimo contributo ne vedremo le contraddizioni e gli sviluppi.


[1] Si fa rinvio all’edizione in linea del periodico Il Sole 24 Ore del 12 Dicembre 2023. Cfr.  https://www.ilsole24ore.com/art/suicidio-assistito-trieste-la-prima-volta-un-farmaco-e-medico-ssn-AFLAQV1B.

[2] La questione sostanziale è molto più complessa: essa, infatti, imporrebbe di considerare in termini generali il tema dell’eutanasia e, ancora prima, quello inerente la giuridicità sostanziale del suicidio. Invero, al di là del fatto che ci sia o meno un aiuto, delle condizioni e/o delle qualità soggettive dell’aiutante, dei mezzi impiegati e di altri aspetti, pur meritevoli di considerazione, tra i quali certamente vi può rientrare anche lo stato di salute della persona interessata, il vero e più radicale problema è dato dalla possibilità di concepire il suicidio come diritto e segnatamente come diritto di disporre della propria vita… ad libitum. Ammesso questo «diritto», infatti, ogn’altro discorso inerente il quomodo del suo esercizio, diretto o indiretto, mediato o immediato, assume un significato tutt’affatto ancillare. Dico ancillare in senso proprio, poiché esso dipenderebbe da quest’assunzione a priori alla quale dovrebbe asservirsi. Ammettere il diritto al suicidio, per esempio, impone di ammetterne l’agevolazione, quantomeno di consentirla, essendo illogico negare legittimità e liceità a una condotta agevolatoria rispetto all’esercizio di un diritto; allo stesso modo l’assunzione de qua impone di ammettere il mezzo suicidiario come legittimo in sé, e probabilmente anche la scelta incondizionata  di questo et coetera. Negato, però, il diritto al suicidio… ogn’altro discorso sul tema perde viceversa di significato: accessorium sequitur suum principalem, insegnavano, un tempo, i Manuali giuridici. E invero se si neghi la legittimità sostanziale del suicidio e se al contrario lo si consideri – come esso effettivamente è – una iniuria, in ispecie una iniuria contro sé stessi (il tema della sanzione non rileva, essendo, essa, sempre e comunque esterna rispetto al diritto e precisamente servente allo stesso), immediatamente consegue sul piano logico la destituzione di ogni fondamento giuridico tanto alle fattispecie agevolatorie, quanto alla opzione inerente il mezzo, quanto al tema delle condizioni soggettive et similia. Se poi si vogliano introdurre discriminazioni, distinzioni, tra suicidio e suicidio – come alcuno fa per l’eutanasia, parlandone al plurale – e ciò sulla base della diversità del mezzo impiegato, per esempio, sulla base del momento storico nel quale il fatto è avvenuto, sulla base delle condizioni fisiche della persona interessata, sulla base delle procedure seguite et coetera ciò non ha nulla di giuridico e, probabilmente nemmeno di logico, giacché sposta l’asse concettuale del discorso se non sul piano di interessi lato sensu operativi, forse anche economici, indubbiamente su quello, del tutto inconferente, degli sterili sentimentalismi.

[3] Si fa rinvio all’edizione in linea del periodico Il Sole 24 Ore del 25 Luglio 2023. Cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/suicidio-assistito-condizioni-fissate-consulta-attesa-legge-AFzktWL.

[4] Si rinvia per un’amplia trattazione sul tema dell’eutanasia a un’Opera collettanea che ne evidenzia i profili di problematicità sia dal punto di vista etico e teologico, sia dal punto di vista storico, sia dal punto di vista normativo-giuridico. Cfr. D. Castellano (a cura di), Eutanasia: un diritto?, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015.

[5] Cfr. R. Di Marco, Diritto e “nuovi” diritti. L’ordine del diritto e il problema del suo fondamento attraverso la lettura di alcune questioni biogiuridiche, Torino, Giappichelli, 2021.

[6] Cfr. R. Di Marco, Ancora su taluni rilevanti problemi giuridici del «Caso Cappato», in

 https://www.filodiritto.com/ancora-su-taluni-rilevanti-problemi-giuridici-del-caso-cappato.

[7] Sul tema si rinvia alla nota apparsa in questo Osservatorio a firma di Danilo Castellano. Cfr. D. Castellano, Suicidio di stato: una discutibile ordinanza propedeutica?, in https://www.filodiritto.com/suicidio-di-stato-una-discutibile-ordinanza-propedeutica.

[8] Dico il quesito di costituzionalità con un certo almeno auspicato rigore terminologico e concettuale: il quesito di costituzionalità dal quale trae origine il giudizio della Corte, infatti, non pone sul tavolo del Giudice il tema, assai più amplio, della costituzionalità della legge; esso, cioè, non esaurisce il tema della legittimità costituzionale di quella, né, coerentemente, esso esclude che altri quesiti possano porsi o essere sollevati in relazione a distinti parametri e a distinti profili di problematicità o di censura. Dunque il quesito di costituzionalità, allo stesso modo di qualsiasi altro petitum, limita l’ambito del giudizio alla censura sollevata, eppertanto lo limita al vaglio che ha per oggetto la coerenza della norma in questione rispetto al parametro o ai parametri costituzionali effettivamente invocati, pei profili di specifico interesse che essi evidenziano, e in relazione al diretto rilievo che essi stessi assumono nell’ambito del c.d. giudizio a quo.

[9] Solo per chi abbia una particolare sensibilità al tema, mi limito a richiamare qui, senz’altri riferimenti bibliografici, la lezione di Livio Paladin, per esempio, sul referendum abrogativo: anch’esso, infatti, qualora dia esito favorevole ai promotori (qualora vinca il sì, per capirci) e raggiunga il quorum, innova l’Ordinamento nel senso che ne espunge la legge sottoposta al vaglio degli elettori.

[10] Cfr. D. Trabucco, Il “diritto” di morire: il pericolo primato della volontà sulla ragione, in https://www.informazionecattolica.it/2023/11/12/il-diritto-di-morire-il-pericoloso-primato-della-volonta-sulla-ragione/.

[11] Protocollo relativo alla costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, stipulato a Nuova York il 22 luglio 1946, allegato al D. Lgs del Capo provvisorio dello Stato 1068/1947, il quale, come abbiamo annotato, ne dà, per l’Ordinamento giuridico italiano, “piena ed intera esecuzione” ex art. 1.

[12] Cfr. R. Di Marco, Le paradoxe du bien-être contre le bien. Analyse de la sentence de la Cour suprême du Royaume-Uni relative au cas d’Alfie evans, in Catholica, Paris, Catholica, 2018, 140, pp. 88 – 96.