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Dalla protezione della vita alla promozione della morte

Perugino, natività, collegio del cambio, Perugia
Perugino, natività, collegio del cambio, Perugia

1. Il titolo è provocatorio. Esso è tratto dalla Prefazione scritta da Jérôme Trionphe, avvocato del Foro parigino, al libro Fin de vie di Serge Abad-Gallardo, pubblicato a Parigi da Téqui nel 2018. Il titolo va, comunque, spiegato.

Non si tratta, infatti, di promuovere la morte come bene in sé, ma di promuovere il «diritto», rectius di porre positivamente (quindi di «riconoscere» a livello ordinamentale) il «diritto» di darsi la morte. La «promozione» riguarda, quindi, propriamente un (ritenuto) bene del soggetto, non una «cosa» oggettiva, non una res.

La morte procurata o autoprocuratasi sarebbe, pertanto, un «bene» in quanto manifestazione e risultato di un altro «bene»: del «diritto» all’assoluta autodeterminazione della volontà soggettiva, vale a dire della sovranità del soggetto.

Non si tratta nemmeno dell’elogio della trasgressione, come è stato scritto. La trasgressione, in quanto trasgressione, potrebbe essere sì l’affermazione della volontà del soggetto. Essa, però, segnerebbe una «violazione» di un ordine: senza l’esistenza dell’ordine (o, almeno, di un ordine) sarebbe impossibile parlare di trasgressione.

No. Il discorso è diverso e più radicale. Si tratta, infatti, di riconoscere il «diritto» a disporre di sé assolutamente, senza interferenze di volontà «altre». Il che postula la non esistenza dell’ordine naturale. Meglio: postula l’esistenza di un ordine naturale come sua inesistenza. Il ribaltamento dell’ordine naturale, legato alla creazione (o, comunque, semplicemente «dato»), della morale tradizionale (ove «tradizionale» significa ebraico-cristiana ma anche classico-pagana), del diritto come esercizio di doveri, è evidente e radicale.

 

2. Il problema non è di oggi e non è circoscritto entro alcune regioni culturali. Lo dimostra anche un relativamente recente lavoro collettaneo (AA. VV., Eutanasia: un diritto?, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015).

Quello che oggi («oggi» è categoria temporale larga e sta a significare da almeno mezzo secolo a questa parte) è evidente è la ripresa di una campagna strategicamente organizzata e tatticamente condotta per l’affermazione del cosiddetto «diritto a morire» quando e come il soggetto vuole.

Si tratta del tentativo di affermare il primato della libertà (propriamente parlando, della «libertà negativa») sulla stessa vita: la libertà sarebbe il valore supremo che va formalmente riconosciuto sul piano giuridico positivo.

Intendiamoci: non si tratta della libertà responsabile, dell’esercizio del libero arbitrio, del riconoscimento di una caratteristica naturale del soggetto. Si tratta, piuttosto, della libertà come assoluta possibilità di fare quello che si vuole, liberi non solamente da regole ma (possibilmente) anche dall’istinto (che, per gli animali, è regola generalmente passivamente rispettata).

 

3. Si deve osservare che si è andati «oltre» la rivendicazione e la pretesa dell’assoluta autodeterminazione della volontà soggettiva.

I casi, per esempio, di Terri Schiavo negli Stati Uniti d’America e di Eluana Englaro in Italia dimostrano che l’autodeterminazione della volontà del soggetto è stata «riconosciuta» per … procura, di una insolita, sbalorditiva procura (che, giuridicamente, procura non è): nel caso di Terri Schiavo sulla base della richiesta del marito; nel caso di Eluana Englaro sulla base della richiesta del padre/tutore.

Soprattutto nel caso di Eluana Englaro si è cercato – è vero – di provare che la richiesta del padre/tutore corrispondeva alla di lei volontà. Resta, tuttavia, un forte dubbio, poiché la costruzione della presunta effettiva volontà del soggetto sulla base di dichiarazioni rilasciate lontanamente nel tempo e in circostanze di forte emotività non sono un solido fondamento (questo – è bene precisarlo – sarebbe, comunque, inidoneo a rappresentare un punto di appoggio per una decisione a favore dell’eutanasia) per dimostrare la libertà del soggetto e la legittimità della sua decisione.

 

4. Il presunto diritto all’assoluta autodeterminazione della volontà del soggetto ha portato a rivendicare la promozione della morte o, in sua sostituzione, il risarcimento per l’esistenza, che è ristoro economico per il definito danno per la vita. Il che costituisce una specie di baratto (sia pure improprio), quello che giuridicamente potrebbe chiamarsi permuta anche se nel caso de quo una parte è condannata al risarcimento e, pertanto, essa non è parte contrattuale.

Generalmente il risarcimento è stato riconosciuto o per gravidanza definita «ingiusta» (gravidanza conseguente a insuccesso di un intervento medico richiesto a fini di sterilizzazione o di aborto[1]) o per nascita «ingiusta» (nascita con malformazioni di cui il medico non ha informato i genitori nella fase pre-natale[2]).

Clamore, però, ha suscitato la Sentenza della Corte di Cassazione francese (la «Sentenza Perruche»[3]) che riconosce il diritto a non nascere al nato malformato. Non venne, infatti, riconosciuto solamente il diritto al risarcimento ai genitori per mancata informazione sullo status di salute del concepito e per la lesione del «diritto» all’aborto della gestante, ma si stabilì che la nascita in sé rappresentava un pregiudizio, svilendo il valore della vita e la dignità (ontologica) della persona umana.

Il principio stabilito rappresenta una rivoluzione giuridica, poiché chiunque, anche il nato sano, potrebbe rivendicare il risarcimento da nascita sia per la condizione soggettiva o familiare in cui è venuto a trovarsi sia per essere semplicemente nato[4]. Tanto che il legislatore francese è corso ai ripari stabilendo che «Nul ne peut se prévaloir d’un préjudice du seul fait de sa naissance» (art L. 114-5,1° al Code act. Soc.).

La questione dell’autodeterminazione in generale è stata approfondita in un recente convegno internazionale svoltosi a Bogotà in Colombia. In particolare sotto questi profili è stata considerata da una relazione raccolta nel Capitolo II del volume La autodeterminación: problemas juridícos y políticos (appena uscito a Madrid presso Marcial Pons nel 2020 e curato da Miguel Ayuso). Prima ancora era stata analizzata nei suoi presupposti giusfilosofici ed ordinamentali in un lavoro di Rudi Di Marco (Autodeterminazione e diritto, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2017). Qui non è possibile approfondirla.

 

5. I rilievi fatti e le osservazioni che precedono dimostrano che la giurisprudenza è molto più avanzata della normativa. L’affermazione può sembrare paradossale. Forse anche incomprensibile, poiché la giurisprudenza ha il compito (soprattutto secondo le dottrine giuspositivistiche) di offrire sentenze nel rispetto della normativa in vigore, in assoluta conformità alle leggi.

Anche chi si attarda a sostenere, accogliendo la tesi ottocentesca secondo la quale il giudice è la «bouche de la loi», non può ignorare che, soprattutto negli ultimi decenni, si è imposta la teoria giuridica ermeneutica. Secondo questa teoria la norma, in ultima analisi, non è una disposizione ma il materiale per costruire la disposizione. Il giudice – si sostiene – «dice» ancora ciò che prescrive la norma, ma la norma è da lui interpretata: nell’interpretazione sta la sua disposizione. Pertanto le sentenze diventano «costitutive» delle stesse norme.

Pur partendo dalle medesime norme, si può arrivare a sentenze che applicano disposizioni diverse, ponendo grossi problemi alle Corti di legittimità anche esse, talvolta, «oscillanti» come è dimostrato, per esempio, dall’invocato riconoscimento del diritto a morire e del diritto a non nascere. Le sentenze, alla luce di questa Weltanschauung, sono le leggi. Il diritto, cioè, sta nelle sentenze, non nelle norme. Soprattutto sui temi «eticamente sensibili» sono ormai «i giudici a dettare le leggi», come dicono e scrivono apertamente alcuni attenti osservatori, non necessariamente giuristi.

 

6. Ha fatto notizia nei mesi scorsi il riconoscimento del «diritto al suicidio assistito» da parte della Corte costituzionale tedesca (26 febbraio 2020). Ha fatto notizia anche la depenalizzazione dell’eutanasia tramite assistenza medica dell’Assemblea della Repubblica del Portogallo (20 febbraio 2020), che si «adegua», così, al Belgio, al Lussemburgo e ai Paesi Bassi[5].

Fece, giustamente, notizia anche la proposta di legge organica di regolamentazione dell’eutanasia, presentata in Spagna dal Gruppo parlamentare socialista nel 2019. Trattasi di una proposta non ancora approvata. Essa, però, è significativa per diversi motivi. Innanzitutto perché presentata da un Gruppo parlamentare che sostiene il Governo, del quale, anzi, esprime attualmente il Presidente. È significativa, poi e soprattutto, per le motivazioni esplicitamente invocate per la sua approvazione; motivazioni che investono questioni giuridiche generali, rilevanti per la legittimazione delle condotte umane e per la concezione del «diritto soggettivo». Ci soffermeremo su due sole, rinviando (eventualmente) l’analisi dell’articolato a un momento successivo alla sua approvazione.

La prima motivazione portata è relativa alla «domanda sociale». La proposta, infatti, afferma che è necessario dare una risposta «giuridica» alla domanda che emerge nella società (spagnola) contemporanea. Testualmente la proposta sostiene che «la presente ley pretende dar una respuesta juridica, sistemática, equilibrada y garantista, a una demanda sostenida de la sociedad actual como es la eutanasia».

Dunque, le leggi devono rispondere alle richieste sociali. Non nel senso che sono chiamate a regolamentare secondo diritto le nuove questioni, bensì nel senso che tutto ciò che la società chiede (talvolta, perché prima praticato) deve trovare riconoscimento nell’ordinamento e da parte dell’ordinamento giuridico positivo.

La legge non sarebbe norma che disciplina le condotte, prescrivendo e vietando, ma regola che «rispecchia» (passivamente e avalutativamente) le condotte impostesi nel costume. È, questa, una tesi di matrice schmittiana, secondo la quale la società è regola per l’ordinamento (persino per la Costituzione), non l’ordinamento (e la Costituzione) regola per la società.

In Italia essa è stata accolta e applicata dalla Corte costituzionale nel lontano 1968, allorché essa fu chiamata a giudicare la legittimità costituzionale dell’art. 559 CP (che puniva l’adulterio). Con una prima Sentenza (la n. 64/1961) la Corte costituzionale lo ritenne costituzionalmente legittimo; con una successiva Sentenza (la n. 126/1968) lo dichiarò costituzionalmente illegittimo. Sulla base di quale motivazione? Perché – disse allora la Corte costituzionale – era intervenuto un «mutamento della vita sociale», la società cioè era cambiata, i costumi praticati erano diversi. E ciò solamente rispetto a sette anni prima.

Questa metodologia la quale porta a «leggere» la Costituzione (la Costituzione rimasta immodificata) in modo opposto, in modo radicalmente opposto, pone una delicata questione: i diritti, anche quelli definiti fondamentali, sono veramente garantiti? Prima ancora sono da considerarsi effettivamente diritti?[6].

La seconda motivazione cui riserviamo breve attenzione è rappresentata dall’invocazione dello Stato di diritto meramente procedurale, cioè da quello Stato nel quale nulla si può contro la legge (positiva) ma tutto si può con la legge.

La proposta di legge di cui stiamo parlando, infatti, al fine di favorire la sua approvazione, sottolinea come essa preveda un regime legale specifico per la pratica dell’eutanasia, stabilendo presupposti per il suo esercizio e modalità per la condotta eutanasica. Il problema non è, pertanto, se l’eutanasia è un diritto in sé. Essa tale diventa secondo la proposta di legge del Gruppo parlamentare socialista spagnolo se vengono stabilite procedure per il suo esercizio.

La proposta accoglie la (quanto meno superficiale) dottrina della CEDU (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo). In particolare richiama espressamente la Sentenza di questa Corte del 14 maggio 2013 (caso Gross contro Svizzera).

È postulatoria l’affermazione della proposta di legge de quo, secondo la quale la legalizzazione e la regolamentazione dell’eutanasia poggiano sulla compatibilità di principî essenziali che stanno a fondamento dei diritti umani, recepiti dalla Costituzione spagnola in vigore, la quale è l’ultima delle Costituzioni «fatte in serie» secondo la felice definizione di Boris Mirkine Guetzévitch.

È postulatoria perché non chiarisce che cosa si debba intendere per diritto. Lo lascia intendere, è vero: diritto sarebbe quello posto dall’ordinamento giuridico positivo, senza ricorso a «metafisiche» giuridiche. Insomma il diritto soggettivo altro non sarebbe che la «facultas agendi» basata sulla «norma agendi». Esso, pertanto, sarebbe una facoltà riconosciuta al soggetto dalle norme, le cui prescrizioni non debbono essere oggetto di analisi e di valutazioni problematiche.

 

7. La proposta di legge organica relativa alla regolamentazione dell’eutanasia, depositata dal Gruppo parlamentare socialista alla Camera dei Deputati del Regno di Spagna, accoglie, dunque, la definizione di «diritto soggettivo» propria della dottrina giuspositivistica. Si propone, però, di andare oltre il vecchio modo di intendere il medesimo diritto. Esso, infatti, non dovrebbe essere né mera imposizione né sola concessione dello Stato.

Lo Stato – è vero – è chiamato a riconoscerlo e il suo riconoscimento è condicio sine qua non del suo esercizio. Lo Stato, però, dovrebbe limitarsi a dare «veste giuridica» (almeno formalmente giuridica) a una pretesa soggettiva. I diritti umani, come storicamente affermatisi, e il vecchio giuspositivismo troverebbero in questo modo una sintesi. È la sintesi cercata in Italia dal vecchio Partito d’Azione, che si propose la conciliazione di liberalismo e socialismo.

La promozione della morte di cui parla il titolo di questa Nota non è, pertanto, sua imposizione (come alcuni per ragioni polemiche erroneamente affermano). Almeno questo non è de iure, anche se non si può escludere assolutamente che in taluni casi lo sia de facto. Quello che conta per la Modernità giuridica, infatti, è la promozione della «libertà negativa» del soggetto, considerata il valore supremo dalla cultura di origine lato sensu protestante.

È una questione da considerare attentamente per le sue coerenti conseguenze in campo etico e, in particolare, per le sue implicazioni biogiuridiche.

 

[1] La giurisprudenza è, a questo proposito, abbondante. Si citano come esempio solamente tre Sentenze: la Sentenza del Tribunale di Cagliari (23 febbraio 1995), la quale ordinò l’erogazione dei costi di mantenimento per i primi ventitré anni di una bambina nata perfettamente sana ma la cui nascita era avvenuta per il fallimento di un intervento abortivo; la Sentenza del Tribunale di Milano (10 luglio 1997), che pur negando il risarcimento quale mantenimento liquidò una somma che equivale al mantenimento; la Sentenza del Tribunale di Genova (28 settembre 2002) che, per un aborto non riuscito, liquidò una somma che esplicitamente venne equiparata al risarcimento per danno da mantenimento.

[2] Si cita, a questo proposito, una sola ma significativa (e contraddittoria) Sentenza, quella della Corte Suprema di Cassazione relativa a un contenzioso instaurato innanzi al Tribunale di Pordenone e successivamente innanzi alla Corte d’Appello di Trieste da parte di genitori di una bambina nata con malformazioni di cui lamentavano di non essere stati informati tempestivamente dal medico (Sentenza n. 16123/2006). I genitori chiesero il risarcimento non avendo avuto quelle informazioni che avrebbero loro consentito di praticare l’aborto. Insomma, le malformazioni sarebbero più gravi rispetto alla soppressione della vita dell’innocente. Sul piano legal-positivo la rivendicazione trova fondamento. Sul piano della legittimità giuridica la questione si complica. Ancora più complicata (anche se secondo la dottrina assolutamente giuspositivistica «corretta») è l’affermazione della Suprema Corte secondo la quale il vulnus ai diritti dei minori (nel caso de quo attori al pari dei genitori) non può trovare soluzione in assenza di una normativa che lo consenta.

[3] Sentenza 20 novembre 2000.

[4] Osserviamo che questa rivendicazione può essere usata strumentalmente e pretestuosamente per escludere altri dal godimento di diritti loro spettanti. Per esempio per escludere dall’eredità altri aventi diritto: il risarcimento per essere nati può, infatti, assumere un valore pari o superiore al valore dell’asse ereditario. I genitori, condannati a risarcire il figlio per avergli dato la vita e che versassero nella condizione di non poter ottemperare in altro modo alla Sentenza, potrebbero vedere pignorati i loro beni e la successione, che si aprisse, rappresenterebbe un’eredità passiva per chiunque, escluso il figlio che vanta un credito non (ancora) onorato.

[5] Anche se per l’entrata in vigore della norma approvata dal Parlamento portoghese è necessario attendere le decisioni del Presidente della Repubblica che ha «potere di veto» (in questo caso la Legge deve essere confermata dall’Assemblea con maggioranza assoluta dei Deputati) o può chiedere il pronunciamento della Corte costituzionale (e, nel caso in cui la pronuncia sia favorevole, il Presidente della Repubblica è tenuto alla promulgazione della norma approvata).

[6] Il giuspositivismo, sia quello strettamente normativo (alla Kelsen, per intenderci) sia quello sociologico (alla Schmitt, per capirci), non riconosce diritti in sé e per sé. Esso, infatti, fa ricorso o alla volontà/potere dello Stato o alla volontà/potere della società. Basterà un esempio per chiarire la questione. Il normativismo ha affermato che il diritto di proprietà è sacro e inviolabile (dottrina illuministica, codificata da Napoleone I). Successivamente esso è stato ritenuto tale solamente se conforme alla legge (quindi solamente se, nei modi e nei limiti stabiliti ad nutum dallo Stato). Cadute le visioni «forti» dello Stato moderno, è stato stabilito che il diritto di proprietà è tale ed è godibile se esso non contrasta con la legge. Talvolta gli è stata attribuita una finalità sociale. Non solamente come principio costituzionale ma anche stabilendo sottili distinzioni fra proprietà senza aggettivi e proprietà personale. La giurisprudenza della CEDU in materia di diritti dell’uomo/proprietà ha sollevato ulteriori questioni soprattutto in relazioni a confische della proprietà in assenza di condanna penale (Sud Fondi contro Italia del 20 gennaio 2001 e Varvara contro Italia del 29 ottobre 2013). Della questione si sono occupate sia la Corte Suprema di Cassazione sia la Corte costituzionale. Quest’ultima ha giudicato la questione soprattutto con la Sentenza n. 49/2015. La norma, quindi, avrebbe il potere di creare, conservare, modificare, trasformare il diritto di proprietà. Esso, a ben riflettere, non avrebbe esistenza in sé. Dipenderebbe dalla norma positiva. Analoga è la posizione e la pretesa del normativismo sociologico, il quale farebbe dipendere i diritti dal costume, dalla società. Basterebbe pensare, per esempio, al diritto alla vita, in particolare alla vita del nascituro, esposto al prevalente «diritto» della gestante all’aborto procurato, sia pure regolamentato. I diritti, pertanto, non possono essere legittimamente definiti inviolabili (a meno che l’inviolabilità non riguardi solamente l’ordine pubblico), fondamentali (a meno che non si usi l’aggettivo con significato nominalistico), indisponibili (la loro indisponibilità non dipenderebbe, infatti, dalla loro natura, ma da una decisione e da una definizione del legislatore).