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Disegno di legge “Zan”: elementi di riflessione

Marina di Ravenna
Ph. Ermes Galli / Marina di Ravenna

Indice:

1. Introduzione sul disegno di legge Zan

2. Analisi del disegno di legge di legge Zan

3. Articolo 1: sul concetto di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” ed “identità di genere”

4. Articolo 2: sul concetto di “discriminazione” e di “violenza”

5. Articolo 3: sulla circostanza aggravante generale

6. Articolo 4: sul pluralismo delle idee

7. Conclusione sul disegno di legge Zan

 

1. Introduzione sul disegno di legge Zan

Nel dibattito attuale, con toni ed argomenti più o meno strutturati e pacifici, si pone la questione, oggetto della proposta c.d. di legge “Zan” (disegno di legge n. 2005 allo stato pendente presso il Senato della Repubblica), sulla necessità tutela penale particolare e specifica contro atti di discriminazione e di violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere.

Per la verità il ddl in questione prende in considerazione anche i motivi fondati sulla disabilità, ma, invero, tale profilo non pone particolari problemi politici o giuridici.

L’analisi seguente prenderà in considerazione innanzi tutto il testo così come da ultimo proposto, poiché è indubbio che una discussione di carattere generale non ancorata al dato concreto risulta del tutto inutile e fuorviante.

Discutere, infatti, in via generale se un atto di violenza motivato in ragione del sesso o dell’orientamento sessuale della vittima sia ammissibile, id est lecito, per l’ordinamento italiano, è inutile e fuorviante, poiché una simile violenza in questione sarebbe di per sé ingiustificata.

Né può porsi di per sé in serio dubbio la legittimità dell’inserimento di una aggravante di carattere generale o specifica sul punto, che – se del caso – abbia una disciplina ad hoc rispetto a quella ordinaria in tema di bilanciamento, sempre che naturalmente detta disciplina non travalichi i canoni della ragionevolezza e venga strutturata avendo riguardo ai tradizionali canoni di garanzia del diritto penale.

Il punto principale allora è, più propriamente, se sia legittimo (ed in che termini) per il legislatore italiano far conseguire una sanzione “base” assai più grave rispetto a quella ordinariamente prevista per gli atti di violenza fondati sui motivi sopra detti.

La risposta potrebbe essere – a prima vista – assai semplice, poiché il tutto – così si potrebbe argomentare – rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore, così come la disciplina delle circostanze aggravanti sopra riferita.

Se non che – ed il punto è estremamente importante – in realtà quando si “crea” una nuova fattispecie di reato o – il che è lo stesso – si dà un’autonoma valenza di reato a fatti che prima rientravano nella descrizione di una circostanza aggravante, non vi è solo un mutamento “formale” di disciplina sanzionatoria, ma – più propriamente – una modifica sostanziale della disciplina, poiché ciò che prima era un elemento accessorio diventa – per definizione – essenziale, acquisendo così una rilevanza che prima non aveva all’interno del sistema penale e, più in generale, all’interno dell’ordinamento giuridico di riferimento.

Questo vale anche quando da una fattispecie “generale” si delinea una nuova fattispecie “speciale”, che considera elementi aggiuntivi rispetto a quelli previsti dalla norma previgente. Anche in questo caso, infatti, dati o elementi che sicuramente potevano avere un’importanza sotto il profilo dell’analisi della dinamica del fatto e della sua gravità concreta, assurgono ad elementi essenziali e, quindi, sostanziali di una fattispecie penale che, per ciò solo, possiede un’autonomia valoriale propria all’interno del sistema che prima non sussisteva.

Nessuno dubita che il legislatore possa, anche nel corso del tempo, ritenere taluni fatti oggi più gravi, così modificandone il regime. Ma proprio quando il “fatto”, in concreto, è il “medesimo” di quello in precedenza considerato dalla legge penale, la modifica in peius della disciplina penale deve essere ragionevole e giustificabile proprio perché la discrezionalità legislativa in materia non è sinonimo di arbitrio, né di irrazionalità punitiva, né di strumento politico o elettorale. Nello stesso modo, la possibilità di sanzionare penalmente atti in precedenza non rilevanti per il diritto penale non è preclusa, però ciò non autorizza alcuna assoluta discrezionalità in capo al legislatore.

Che ciò sia deriva semplicemente dall’ovvia considerazione che la pena collegata alla realizzazione di una particolare fattispecie deve trovare una ragione che non sia semplicemente formale, poiché con la pena – forse è bene ricordarlo – si limitano diritti fondamentali dei cittadini e pertanto la “necessità” di una nuova pena o di un nuovo reato deve essere adeguatamente fondata sull’incapacità del sistema attuale di far fronte alle esigenze che sottostanno alle modifiche penali che si vogliono introdurre.

Non sempre è agevole distinguere quando vi sia irragionevolezza e, pertanto, un’opzione, protesa a concedere una presunzione in favore delle scelte effettuate dal legislatore, è in sé ragionevole.

Ma è oltremodo evidente che quando la “riforma sanzionatoria” è chiaramente collegata all’introduzione di altre norme di più ampio respiro, che mirano non soltanto a tutelare valori specifici già presenti nella collettività ma anche a strutturarne una più ampia e diffusa accettazione, promuovendone la condivisione sociale, allora la questione è assai più delicata.

Infatti, in questo caso l’intervento penale è chiaramente strumentale anche per sostenere l’intento “culturale” sottostante, che, volenti o nolenti, può non essere legittimamente condiviso soprattutto in una società liberale e democratica, la quale ha certamente determinati valori e principi fondamentali comuni sulla quale basarsi e “fondare” costituzionalmente il consorzio civile, ma proprio per questo non si può ammettere che tutti i valori e principi presenti (in tutto o in parte) nella società in un dato momento storico hanno o possono avere una pari dignità ed un pari sostegno, poiché – in fondo – esiste e non può non esservi una gerarchia di valori e, dunque, una maggiore o minore importanza degli stessi, gerarchia che – nell’evo contemporaneo – trova innanzi tutto nella Costituzione il primo ed elettivo riferimento.

Si dirà: ma questo ragionamento non può valere, implicitamente, per ogni fattispecie di reato? La risposta è negativa.

Infatti, altro è punire chi, con proprie condotte, modifica o lede le sfere di libertà o la dignità di altre persone, altro è ritenere che talune scelte o situazioni o condizioni personali, che hanno determinato il “movente psicologico” del reato, siano di per sé diritti soggettivi o rappresentino alti valori sociali di per sé da sostenere fortemente da parte dell’ordinamento giuridico.

Del resto, e per definizione, la norma penale è tassativa: pertanto la specifica ed autonoma punizione di un fatto compiuto per determinati motivi “seleziona e condiziona” la rilevanza penale del fatto alla sussistenza di tali motivi, che però hanno rilevanza giuridica se ed in quanto il fatto specifico venga compiuto, che per l’effetto è e rimane il perno della fattispecie penale, non fosse altro perché il nostro sistema punitivo deve necessariamente essere connesso a fatti e non a motivi.

Ciò significa anche che di per sé la norma penale, che autonomamente punisce un fatto (di per sé già sanzionabile) quando commesso per determinati motivi (già di per sé valutabili in sede sanzionatoria o di concreta gravità del fatto o in virtù di circostanze aggravanti esistenti), non importa logicamente e giuridicamente la necessità di adottare una nuova e specifica scelta culturale né una modificazione culturale nella società in favore di quelle situazioni o condizioni che sono avversate dall’autore del reato.

Tale conclusione non muta neppure se, per ipotesi, si volesse far riferimento all’adempimento di eventuali obblighi di natura internazionale. Infatti, la normativa internazionale, salvo casi rarissimi, non definisce l’impianto sanzionatorio ma solo ciò che dovrebbe essere considerato come “reato”, ove non già previsto dall’ordinamento interno. Anche eventuali definizioni, magari malamente espresse, non possono di per sé giustificare aggravamenti sanzionatori o mutamenti significativi dell’intero sistema nazionale, quando i fini perseguiti dal trattato sono sostanzialmente già perseguiti alla luce dell’ordinamento esistente.

Ecco perché – detto per inciso – non convince affatto la tesi, pure propugnata da più parti, che l’adozione di una specifica fattispecie penale connessa a reati connessi ai motivi in questione sia “imposta” dalla Convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica ed in particolare dall’articolo 4.3 della stessa laddove si legge che le misure destinate a tutelare i diritti delle vittime, deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sulla razza, sul colore, sulla lingua, sulla religione, sulle opinioni politiche o di qualsiasi altro tipo, sull’origine nazionale o sociale, sull’appartenenza a una minoranza nazionale, sul censo, sulla nascita, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere, sull’età, sulle condizioni di salute, sulla disabilità, sullo status matrimoniale, sullo status di migrante o di rifugiato o su qualunque altra condizione.

Infatti, se così fosse, si dovrebbero considerare e mettere sullo stesso piano tutte le categorie elencate dalla Convenzione in questione e non solo quelle relative al sesso, al genere, all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Più di tutto, però, dovrebbe ammettersi che una simile tutela “imposta” dovrebbe aversi solo verso le forme di violenza e di discriminazione contro le donne (articolo 2.1 della Convenzione) poiché la Convenzione stessa (pur utilizzando il termine “genere”, “identità di genere” e di “orientamento sessuale”) si riferisce in via principale e privilegiata alle “donne”, cioè agli esseri umani di sesso femminile, e si estende ad altre “vittime” non donne solo nel caso di “violenza domestica” (articolo 3 della Convenzione).

Senza considerare che la definizione di “genere” offerta dalla Convenzione è oltremodo assai diversa da quella proposta dal ddl Zan, come si avrà modo di analizzare, poiché si afferma che per “genere” si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini.

In definitiva, quanto sopra significa che, come già evidenziato all’inizio, non si possono trarre conclusioni generali da valutazioni estremamente generiche, poiché, in fondo, l’analisi delle norme parte e deve partire dalle disposizioni così come vengono scritte e proposte. Se pertanto da una simile analisi emergono determinati punti critici ciò non è per legittimare comportamenti opposti a quelli che si vorrebbero censurare con le nuove disposizioni penali, ma piuttosto per evitare eventuali arbitri punitivi, incertezze applicative, distorsioni nell’uso del diritto penale e soprattutto limitazioni a diritti di rilevanza costituzionale.

Ma ciò detto, conviene procedere nel merito dell’analisi del “ddl Zan”.

 

2. Analisi del ddl Zan

I punti equivoci e problematici della proposta Zan sono molti e ciascun articolo meriterebbe ampia ed approfondita considerazione.

Se non che una qualche selezione va fatta, non fosse altro perché vi sono aspetti indubbiamente più importanti di altri, quanto meno nel senso che la problematicità di una disposizione ben può dipendere da quella di un’altra.

Ciò detto ci si soffermerà più ampiamente in merito alle definizioni offerte in tema di “genere”, “orientamento sessuale” ed “identità di genere” di cui all’articolo 1, al concetto di “discriminazione" e alla tutela del pluralismo delle idee.

Gli articoli da 5 a 10, infatti, sono sostanzialmente una conseguenza delle impostazioni assunte dai primi articoli di legge proposti.

 

3. Articolo 1: sul concetto di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” ed “identità di genere”

Il “sesso” di una persona è definito come quello “biologico” (implicitamente deve leggersi: maschile o femminile) o quello “anagrafico”.

Di per sé questa definizione non pare ponga particolati problemi, poiché il riferimento al “sesso anagrafico” potrebbe semplicemente essere inteso come quello “maschile o femminile” riconosciuto dall’ordinamento, se del caso anche a seguito di rettificazione del sesso biologico.

Se non che, alla luce delle disposizioni seguenti, ben si può leggere tale definizione come la possibilità per una stessa persona di avere contemporaneamente “due” sessi: quello biologico e quello anagrafico.

Inoltre, tale definizione pare assurgere come categoria a sé stante quella del “sesso anagrafico”, che non solo può essere diverso da quello femminile o maschile ma anche da qualunque categoria connessa al sesso biologico. Naturalmente alla luce dell’ordinamento vigente un sesso anagrafico, che non sia o maschile o femminile, è difficilmente ipotizzabile, ma nulla di per sé impedirebbe, modificandosi l’ordinamento sullo stato, che una simile modifica non abbia di per sé effetti sull’intera disciplina in questione.

Naturalmente nessuna questione vi sarebbe se per “sesso” di una persona si intendesse “il sesso maschile o femminile riconosciuto alla persona dall’ordinamento giuridico”.

Il “genere” è definito come “qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso”.

Nella definizione l’aspettativa sociale in questione non è definita né definibile con criteri adeguati od oggettivi, tanto più che la sua concreta rilevanza è in realtà annullata dal fatto che il genere è determinato sostanzialmente dalla sola manifestazione esteriore, posto che questa può essere conforme o meno a tale aspettativa.

Pertanto, tale definizione mira a rendere irrilevante “l’aspettativa sociale connessa al sesso”, risultando essenziale solo la manifestazione “sessuale” esteriore che la persona vuole darsi.

Ma in tal modo – ragionando per assurdo – il genere è collegato “alle mere esteriorità” della singola persona, che possono anche non essere in alcun modo relative al suo sesso o al suo orientamento sessuale, ben potendo trovare una giustificazione in “aspettative di nicchia” (come mode o tendenze culturali passate o nuove) oppure, più semplicemente, in manifestazioni (se del caso non necessariamente provocatorie) della propria personalità.

Né può affermarsi che il volubile “vestirsi da uomo o da donna” o il semplice “rappresentarsi come uomo o donna”, secondo i canoni della cultura sociale prevalente, possa di per sé determinare il “genere” sessuale della persona, poiché la manifestazione sociale del genere – anche a volerne dare una connotazione puramente “sociale” – ricomprende non solamente i dati esteriori od estetici della persona, ma coinvolge anche ed essenzialmente (parafrasando la convenzione di Istanbul sopra richiamata) “ruoli, comportamenti, attività”, che una determinata società considera “appropriati per donne e uomini”.

Detto in termini più chiari, anche volendo in ipotesi accettare che tutto (o gran parte di) quello che la società considera come proprio per gli uomini o per le donne non è necessariamente o “naturalmente” connesso al sesso biologico, è pur vero che tale attribuzione sociale presuppone una previa definizione del sesso della persona. Pertanto, non si può disancorare il “genere” dal sesso della persona, come invece la definizione in questione fa.

Né si può accettare che il genere non dipenda da fattori oggettivi, cioè non sostanzialmente connessi alla volontà della persona.

Inoltre, non si può non notare come nella definizione in questione non vi sia alcun dato temporale rilevante: la manifestazione esteriore che determina il genere, infatti, potrebbe essere anche ristretta in poche ore o giorni o settimane, posto che non si richiede che sia in qualche modo permanente o che si protragga per un lasso di tempo significativo.

Ne consegue – tenuto altresì conto che tale definizione rientra in fattispecie penali di nuova formulazione – che tale definizione è del tutto irragionevole, poiché equipara situazioni del tutto differenti e fonda il genere di una persona su elementi del tutto vaghi e meramente soggettivi.

Infine, non può sfuggire – come già segnalato - che la definizione di genere offerta dal ddl Zan è ben diversa da una indicazione, che volesse davvero far riferimento alla Convenzione di Istanbul, disponendo, per esempio, che per “genere femminile o maschile” si intendono i ruoli, i comportamenti e le attività che si ritengono socialmente appropriati per le persone di sesso femminile o maschile.

La sopra esposta irrazionalità della definizione di “genere” formulata nel ddl Zan, si riverbera sulla definizione di “identità di genere” proposta, poiché mira a collegare l’identità di genere a percezioni e manifestazioni di sé in relazione al genere (come sopra definito), “anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”.

Ecco che allora non solo il “genere” ma anche “l’identità di genere” viene scollegata dal sesso, rilevando principalmente le manifestazioni esteriori.

Ma se così è, la stessa definizione di “sesso” o, meglio, la necessità di una formale attribuzione sessuale viene meno, poiché – come pure rileva dalla definizione in questione – qualunque sia il sesso riconosciuto o attribuito, di per sé non rileva e ben può in ipotesi ritenersi riduttivo (ben potendo, in questa prospettiva, la medesima persona sentirsi “e uomo e donna”) rispetto alle percezioni del sé ed alle manifestazioni che ne vengano date.

Se non che – ed a maggior ragione – si può avere un diverso rapporto di contraddizione: una persona (di sesso biologico maschile, per esempio) può risultare di “genere femminile” in ragione della manifestazione esteriore per un periodo e poi di “genere maschile” per un altro periodo, ed avere una identità di genere che può, per un periodo essere conforme al sesso biologico, o al genere manifestato e/o contrastare con l’uno o con l’altro.

Anche qui, dunque, la definizione offerta è estremamente vaga e non oggettiva e mira a equiparare situazioni che sono oggettivamente molto diverse e a far dipendere l’identità di genere esclusivamente sulle decisioni della singola persona, chiedendole peraltro che ciò venga in qualche modo manifestato esteriormente, cosa che – onestamente – appare di per sé ulteriormente irrazionale, poiché in tale manifestazione il soggetto dovrebbe considerare ciò che gli altri ritengono essere corretto rispetto all’identificazione sessuale percepita dalla persona, con ciò indirettamente annullando la definizione di “genere” sopra analizzata, che invece scollega la manifestazione esteriore alla conformità o al contrasto con le aspettative sociali connesse al sesso.

Né può negarsi come nel nostro ordinamento la rettifica del sesso non può basarsi sopra mere manifestazioni del sé ma debba essere comunque connessa e collegata a procedure legalmente definite.

Del resto, quanto proposto dal ddl Zan è ben diverso da una definizione di “identità di genere” incentrata su “la percezione della propria identità sessuale femminile o maschile, che si manifesta come non conforme al genere corrispondente al proprio sesso, e che è riconosciuta attraverso un percorso di transizione sessuale disciplinato dalla legge”.  

Per quanto riguarda “l’orientamento sessuale”, la definizione in parola non si collega (come per le altre definizioni sopra analizzate) a elementi di stabilità temporale.

Per cui, a stretto rigore, non ha senso considerare un orientamento sessuale neppure prevalente.

Ciò comporta che tale orientamento sessuale ben può essere mutevole, ma anche difficile da definire nel caso concreto e per un determinato periodo, poiché è ben possibile, per esempio, che una stessa persona, attratta da uomini e donne, in concreto abbia rapporti solo con uomini o donne, in ragione della particolare situazione in cui lo stesso versi.

Ma ciò detto, emerge anche che viene considerata equivalente l’attrazione sessuale alla semplice attrazione affettiva, di difficilissima definizione oggettiva, poiché il concetto di affetto è estremamente ampio e ben può ricomprendere elementi e dati che non hanno a che fare direttamente con la sfera sessuale o l’identità sessuale, come per esempio si ha nei casi degli affetti familiari, di amicizia e di molte altre relazioni personali.

Inoltre, volendo considerare solo l’aspetto sessuale della definizione, questa comprende anche l’attrazione sessuale rivolta ai propri figli ed ai propri familiari stretti, ai soggetti minori di età e comunque di qualunque condizione personale, e dunque anche di persone che sono soggette a particolari vincoli di fedeltà con altri soggetti, come nel caso dei coniugi, o di persone che hanno emesso voti o impegni di castità, e/o a propri colleghi e/o collaboratori e/o datori di lavoro e/o dipendenti.

In relazione all’ipotesi incestuosa, è bene evidenziare che la stessa non è esclusa in ragione della punibilità dell’incesto ex articolo 564 Codice Penale: infatti, la punibilità in parola dipende dalla sussistenza in concreto del pubblico scandalo, che ben può non esserci o non verificarsi.

Si potrebbe però obiettare che in merito alla relazione con i minori sicuramente vi sarebbe il limite degli anni 14 o 16 ex articolo 609quater Codice Penale. Si potrebbero inoltre richiamare le diverse disposizioni contro la pedopornografia.

Se non che tali disposizioni puniscono l’atto sessuale compiuto con il minore (o l’uso e/o la produzione dell’immagine pedopornografica) o quello commesso con il componente della propria famiglia, ma non anche l’attrazione sessuale in sé verso gli stessi, che per effetto della disposizione di legge proposta potrebbe trovare una qualche dignità di tutela.

Senza considerare che l’orientamento sessuale in parola ben può essere considerato come “di coppia allargata” o di “gruppo”: nella definizione, infatti, si riferisce “di persone” per cui l’attrazione sessuale ben può rivolgersi a più persone contemporaneamente.

Per cui rientrerebbero nella definizione di “orientamento sessuale” tutelato dalla legge, sia gli orientamenti verso più uomini e più donne, ma anche quelli protesi a soggetti che per i quali l’ordinamento riconosce una tutela particolare o comunque rafforzata.

Anche per questa definizione, quindi, emergono i profili di vaghezza e di equiparazione di situazioni del tutto eterogenee, che non si crede possano essere accettate sic et simpliciter.

In sostanza, una sua rimodulazione e specificazione risulta essere indispensabile.

 

4. Articolo 2: sul concetto di “discriminazione” e di “violenza”

I rilievi critici sopra espressi in merito alle definizioni proposte, emergono in tutta la loro portata pratica, allorché vegano inseriti nella disciplina penale di tutela proposta.

Si propone, in particolare, una modifica dell’articolo 604bis Codice Penale lett. a) e b) di modo che venga punito chiunque istighi a commettere o commetta:

  • atti di discriminazione fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere.
  • in qualsiasi modo, violenza o atti di provocazione alla violenza fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere.

 

Discriminazione

“Discriminare” significa applicare una decisione che si fonda o è motivata sopra una differenza o un carattere distintivo valutati negativamente dall’agente, al di là di quelle che possono essere le aspettative sociali in merito.

Di per sé la discriminazione può attenere a sfere giuridiche, morali, personali o puramente discrezionali.

Poiché si è in ambito penale, non ogni discriminazione può essere sanzionata ed inoltre, per evitare astrattezze che si traducono in arbitrarietà applicativa, è indispensabile ancorare il concetto in questione a elementi facilmente verificabili, evitando nello stesso tempo di utilizzare il concetto di discriminazione in senso “dinamico”, cioè come strumento per modificare - nel silenzio della legge - il diritto oggettivo ed i diritti soggettivi esistenti per scopi “repressivi” o comunque impropri.

Tale ultimo aspetto è fondamentale in ottica penale, poiché il reato deve punire fatti “che si verificano prima dell’entrata in vigore della legge penale” (articolo 25 cost.) e non può essere ammesso che la legge penale sia utilizzata per sanzionare a posteriori condotte non punibili quando furono poste in essere.

Ciò detto e venendo all’attuale formulazione, quando si avrebbe “discriminazione”?

Sino ad oggi un riferimento è stato fatto, rinviando alla definizione di cui all’articolo 5 della Convenzione di New York del 1965 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, in base al rilievo che la disciplina dei fatti regolati dall’articolo 604 bis Codice Penale si rifacesse a detta convenzione: modificando l’articolo in parola, ciò non è più sostenibile e pertanto in linea teorica ogni atto di discriminazione potrebbe rilevare, con evidente deficit sul piano della tassatività penale.

Se così è, la discriminazione di cui si tratta deve essere definita nel suo contenuto.

D’altra parte, il termine in questione (discriminare) ha una valenza negativa ed in genere si applica, in ambito giuridico, quando si nega ad una persona o a più persone l’esercizio di diritti solo perché aventi una caratteristica particolare.

Si crede che l’oggetto della discriminazione debba rimanere fortemente ancorato alla sfera del diritto positivo.

Non è, del resto, accettabile che si puniscano con sanzione penale comportamenti rilevanti solo sul piano morale o sociale.

Né avrebbe senso domandarsi – anche solo in astratto - se sia punibile chi neghi il saluto o non frequenti luoghi e locali o non legga libri perché le sue scelte sono contrarie alle scelte sessuali di questa o quella persona.

Poiché il caso della violenza è contemplato dalla lett. b) dell’articolo 604 bis Codice Penale, la discriminazione può evidentemente essere rivolta certamente a impedire (in tutto o in parte) l’accesso ad un diritto riconosciuto oppure all’esercizio di un interesse legittimo.

In altri termini, si discrimina non quando si applicano differenze, che la legge riconosce o che sono legittimamente presenti nella società, ma quando - in assenza di distinzione legale - si impedisce di fatto l’applicazione della legge in ragione di criteri non legalmente contemplati.

Per contro, la discriminazione “legittima” (cioè la distinzione operata per legge o secondo quanto prescritto dalla legge), che altro non è che l’applicazione del criterio eguaglianza sostanziale e di ragionevolezza, non può essere censurata in ragione del divieto di cui si tratta.

Per questo motivo, per esempio, non vi può essere discriminazione quando la scelta del comportamento attuato si fondi sopra un diritto dell’agente riconosciuto dall’ordinamento giuridico.

Nello stesso modo, non può aver senso punire chi rifiuti l’esercizio di un diritto, ancorché motivato per le ragioni di cui si tratta, allorché tale diritto non spetti alla persona in questione: la motivazione “personale” in questione non rileva sotto il profilo giuridico e, dal punto di vista del diritto penale contemporaneo, una simile punibilità si giustificherebbe – al di là di mere questioni formali - solamente per censurare un’opinione o un modo di pensare di per sé irrilevante, giuridicamente, sotto il profilo della negazione del diritto di cui si tratta.

Particolarmente importante sarebbe, dunque, far riferimento ad una disciplina, per esempio, quale quella francese, dove all’articolo 225-2 del codice penale, si chiarisce che la discriminazione può consistere:

- nel rifiutare di fornire un bene o un servizio;

- nell’ostacolare il normale esercizio di un’attività economica;

- nel rifiutare di assumere, nel sanzionare o nel licenziare una persona;

- nel subordinare la prestazione di un bene o di un servizio, l’offerta di un impiego, una domanda di tirocinio o un periodo di formazione a particolari condizioni relative al sesso o alla sfera sessuale della persona.

Naturalmente, è possibile che determinate distinzioni legali vengano col tempo ritenute non più accettabili e quindi che muti l’ordinamento sul punto, ma tale modifica - quando avverrà - potrà avere effetti solo per l’avvenire.

È anche possibile che la norma invocata per “giustificare” la discriminazione “legittima" sia in contrasto con la costituzione: in tal caso, ciò che sarà oggetto di sindacato atterrà alla legittimità della norma in questione e la sua caducazione non potrà che avere effetti - sul piano della repressione - all’esito della dichiarazione di incostituzionalità (o dell’eventuale disapplicazione in ragione del diritto comunitario).

In ogni caso, la discriminazione deve sussistere (nell’ambito di cui si tratta) quando ciò che ha spinto all’atto discriminatorio è stato fondato in maniera preponderante sopra i criteri che si ritengono non accettabili.

Diversamente, la punibilità non sarebbe ragionevole, poiché se l’asserita discriminazione fosse attuata facendo leva innanzi tutto sopra elementi non contemplati dalla norma penale, allora si punirebbe più che l’atto discriminatorio, l’opinione dell’agente non conforme ai desiderata della pretesa vittima.

D’altra parte, il motivo “illecito” in questione, non può essere integrato da qualsiasi sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, ma solo da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, tenendo conto che la "discriminazione” in parola non può che essere che <<quella fondata sulla qualità personale del soggetto, non - invece - sui suoi comportamenti, … tenendo conto del contesto in cui si colloca la singola condotta, in modo da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione, e da valorizzare perciò l’esigenza di accertare la concreta pericolosità del fatto>> (giurisprudenza pacifica fondata sull’attuale formulazione dell’articolo 604bis Codice Penale, vedi da ultimo: Cass. Pen. Sez. 6 sentenza n. 33414/2020).

 In sostanza, si deve evitare che la norma penale venga utilizzata non per proteggere diritti ma per ottenere indebitamente benefici in punto di fatto o per modificare, sotto minaccia di denuncia, comportamenti ed opinioni che di per sé non recano alcun danno effettivo o che hanno una soglia di lesività estremamente eseguita e tale da non meritare l’intervento penale.

Tutto quanto sopra porta allora ad evitare di far rifermento, nel contesto de quo, al concetto astratto di “discriminazione”, ma di concretizzarlo rendendo chiaro ed accettabile il precetto penale.

Da ultimo si osserva che il concetto di “discriminazione”, di cui all’articolo 604 bis Codice Penale, ha un significato diverso se riferito ai motivi razziali, etnici, nazionali e religiosi o sul sesso della vittima o sulla sua disabilità, rispetto a quanto sarebbe riferibile al “genere”, “all’identità di genere” e “all’orientamento sessuale”.

Infatti, questi ultimi concetti, essendo di per sé vaghi – come sopra riferito – e considerando diverse fattispecie tra loro differenti, non possono di per sé giustificare una analoga protezione, che come ben noto va ben al di là della fattispecie penale in questione (sul punto si veda anche la parte relativa all’articolo 5 del ddl Zan).

Il riferimento non va semplicemente a chi ha un’attrazione sessuale verso minori o i propri figli, ma innanzi tutto verso chi di per sé ritiene possibile modificare il proprio genere o il proprio orientamento sessuale in ragione di motivazioni semplicemente personali o di soddisfazione personale.

Si tenga poi presente che – soprattutto con riferimento all’orientamento sessuale – diventa difficilissimo che questo venga percepito chiaramente se non è stato in qualche modo manifestato e non è in qualche modo comprovabile, salvo costituire un inammissibile onere a discolpa da parte di chi sia in ipotesi accusato della commissione di simili reati.

Né si può ammettere che vi sia un diritto soggettivo in senso proprio proteso al riconoscimento sociale della propria identità di genere o del proprio orientamento sessuale, ove questi elementi non siano in qualche modo dotati di sufficiente stabilità e oggettività.

D’altra parte, il rapporto omosessuale in sé (come ogni altro comportamento ricadente nella sfera sessuale) non è un diritto soggettivo, posto che comunque nessuno può essere obbligato a “obblighi di natura sessuale” (anche tra coniugi).

Si comprende allora come un certo margine di oggettività sulla determinazione dei concetti in questione non possa aversi neppure allorché sia certa l’appartenenza (diretta o indiretta) a gruppi LGBT. Infatti, di per sé l’appartenenza ad una simile associazione non implica alcuna scelta particolare o qualificazione sotto il profilo della sfera sessuale. Tanto più che non si vede perché mai non si debba tutelare la persona, che abbia subito un torto, perché ritenuta (anche erroneamente) o qualificata come omosessuale, lesbica o transessuale. Né un tesserino ufficiale potrebbe aiutare se non ridicolizzando la persona stessa, fermo restando che nell’ottica LGBT si possono assumere vesti infinite o, meglio, indefinite, con conseguente difficoltà di identificazione e classificazione penale. Se poi la categoria di riferimento dipende sostanzialmente dalle scelte personali della vittima, diventa alquanto difficile far dipendere la punibilità da classificazioni oggettivamente molte volte evanescenti.

 

Violenza

Prima di passare al successivo articolo del ddl Zan, conviene ricordare in merito alla violenza che la stessa non deve esplicitarsi esclusivamente verso le persone ma ben può esplicarsi contro le cose ed i beni del patrimonio della vittima.

Se non che è noto come il concetto di violenza contro le persone è piuttosto ampio in ambito penale, posto che generalmente si intende per violenza tutto ciò che non è minaccia ma che nel contempo è idoneo alla costrizione e priva l’aggredito della capacità di formazione e attuazione del volere.

Mentre quello di violenza contro le cose è ben definito dal codice penale (articolo 392 comma 2 e 3 Codice Penale) posto che si ha violenza sulle cose allorché:

- la cosa viene danneggiata o trasformata, o ne è mutata la destinazione;

- un programma informatico viene alterato, modificato o cancellato in tutto o in parte ovvero viene impedito o turbato il funzionamento di un sistema informatico o telematico.

Pertanto, rientrerebbero nella sfera di applicazione dell’articolo 604 bis Codice Penale, così come lo si vorrebbe riformulare, anche i danneggiamenti o distruzioni o alterazioni di cose mobili (per esempio: giornali, riviste, strumenti vari) più o meno utilizzabili per la libido solitaria (o in comune), ed anche gli impedimenti, le manipolazioni o interferenze sull’uso di sistemi informatici o telematici, che possano impedire od ostacolare l’accesso a siti internet o a immagini … diciamo così … protesi a sollecitare virtualmente o fisicamente ogni libido.

Da quanto sopra, si comprende ulteriormente come (data la gravità della fattispecie penale) sia indispensabile rimodulare il concetto di violenza, quanto meno sulle cose, procedendo a meglio selezionare i beni che davvero meriterebbero adeguata tutela nell’ambito de qua.

 

5. Articolo 3: sulla circostanza aggravante generale

Sul punto si rinvia all’ambiguità dei termini di “sesso”, “genere”, “orientamento sessuale” ed “identità di genere” sopra evidenziati.

 

6. Articolo 4: sul pluralismo delle idee

Così come formulato l’articolo 4 della proposta è molto vago ed ambiguo, specie alla luce di quanto sopra esposto.

Mancano, infatti, chiari riferimenti in merito all’orientamento sessuale dei genitori verso i propri figli ed i membri della propria famiglia, alla educazione sessuale dei figli da parte dei loro genitori ed alla tutela delle scelte sessuali protese a tutelare la fedeltà coniugale e al conseguente valore costituzionale della famiglia naturale fondata sul matrimonio. Né viene data alcuna indicazione sull’educazione scolastica, se non nel senso di organizzare nelle scuole “cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile”, tra l’altro, per contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere (articolo 7 comma 3 del ddl Zan).

Inoltre, il chiaro riferimento all’assenza di pericolosità in merito al compimento di atti discriminatori o violenti, importa di fatto una verifica ex post delle opinioni e dei convincimenti espressi.

Infatti, ogni qual volta in seguito ad opinioni espresse, anche in maniera adeguata e propria, avvengano discriminazioni, nel senso vago voluto dalla proposta di legge, o episodi di violenza, che pure incidentalmente si rifacciano alle opinione espresse, si pone un problema di “prudenza” e di “riservatezza” nel parlare, senza considerare eventuali ipotesi di corresponsabilità in tema di responsabilità penale o civile, fosse anche solo colposa, atteso che la norma in questione pone un delicatissimo onere di cautela e di prudenza nella materia de qua.

Per scrupolo, conviene poi osservare che l’inciso “purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti” è solo apparentemente conforme alla giurisprudenza vigente, secondo la quale, come già notato sarebbe censurabile solo il sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori o violenti.

Infatti, di per sé – allo stato della legislazione vigente – la libera manifestazione del pensiero è censurabile se ed in quanto concretamente determini il pericolo di discriminazione o di violenza: ne consegue che la mancanza di prova certa sul punto impedisce la punibilità.

Invece, prevedendo – così come formulato l’articolo 4 in questione – che sono salve la libertà di espressione e le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee purché non idonee a determinare il concreto pericolo di cui si tratta, nei fatti può porre un onere di allegazione diabolico proteso a dimostrare la non pericolosità in concreto delle opinioni espresse ed in qualche modo collegate al tema del sesso, dell’orientamento sessuale, del genere, e dell’identità sessuale.

Non può non derivarne, dunque, una evidente compressione del diritto di espressione e della libertà di pensiero.

 

7. Conclusione sul ddl Zan

A conclusione della pur breve disamina del ddl Zan, si può certamente concludere che la proposta così come formulata ha in sé notevoli criticità.

Non può inoltre negarsi che non vi è neppure piena equiparazione valoriale tra sesso, genere, orientamento sessuale ed identità di genere, poiché solo questi ultimi due hanno una particolare considerazione nel sistema anche extrapenale (vedi artt. 7,8,9 e 10).

Inoltre, vi è una chiara dissonanza rispetto a quanto ad oggi previsto per le discriminazioni e violenze fondate su motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: del resto, non pare vi sia la previsione di una giornata nazionale per contrastare tali discriminazioni e violenze.

Ma più di tutto manca una disciplina protesa ad evitare chiaramente margini di ambiguità interpretativa ed applicativa che potrebbero avere sul medio e lungo periodo effetti del tutto inaccettabili.

Tuttavia, oltre in sede di analisi preliminare non si può andare, poiché il tutto esulerebbe dalle competenze in senso tecnico spettanti in questa sede.

Auspicarsi, dunque, che il ddl Zan, così come proposto, non venga approvato è comunque legittima aspirazione e ragionevole speranza.

Se così non sarà, non potrà neppure negarsi che un’eventuale nuova legge vivrà all’interno del sistema giuridico esistente, che – per definizione – ha in sé il carattere della non immutabilità e dunque della sua perfettibilità.

Non pare, dunque, neppure peregrino paventare la possibilità di abrogazioni o modificazioni rispetto ad una legge futura: ma si tratterebbe allo stato di pensieri astratti e poco aderenti alla realtà presente.

Più di tutto però si può e deve pretendere che ogni decisione politica in merito avvenga considerando ciò che concretamente viene proposto e ciò che concretamente si vuole modificare rispetto all’attuale assetto e domandarsi se in effetti una simile soluzione sia oggi davvero la migliore di quelle onestamente e coscienziosamente possibili in difesa della dignità di ogni uomo e di ogni donna.