La Riforma Cartabia vista da un avvocato

Sul processo penale
strada vicina, strada lontana
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Indice

1. Introduzione: la Riforma Cartabia

2. Il quadro costituzionale italiano

3. La mortificazione del diritto di difesa e della funzione del difensore

4. Risposte ad alcuni argomenti pro riforma

5. Conclusioni sulla riforma Cartabia

 

1. Introduzione: la Riforma “Cartabia

È innegabile che la c.d. Riforma Cartabia”, di cui alla Legge delega n. 134/2021, avrà un impatto rilevantissimo sull’assetto del sistema processuale penale italiano.

È oltremodo innegabile che alcuni elementi della riforma in questione siano oggettivamente apprezzabili: si riferisce all’impianto relativo ai riti speciali, al regime sanzionatorio e all’organica disciplina sulla giustizia riparativa.

È però anche doveroso, almeno per chi ha il compito di difendere i diritti, prendere atto che la figura dell’avvocato e più in generale il diritto di difesa siano stati notevolmente ridimensionati rispetto all’assetto attuale e ciò – sia consentito esprimersi chiaramente sul punto – senza alcuna giusta ragione.

L’intento politico, dichiaratamente espresso anche pubblicamente, è quello di ridurre i tempi medi dei processi penali di circa il 25% nei prossimi cinque anni.

Intento in sé lodevole e sicuramente legittimamente perseguibile.

Se non che i modi attraverso i quali raggiungere tale “risultato pratico”, che ha valenza economica, in quanto collegato ai noti finanziamenti europei del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), non erano e non sono unici, godendo il Legislatore di ampia discrezionalità in merito.

Si tratta, allora, di comprendere se talune scelte essenziali, protese inequivocabilmente alla “riduzione dei tempi processuali”, cioè ai “tempi medi” impiegati per l’adozione di una decisione giudiziale definitiva, siano o meno rispettosi di taluni principi costituzionali fondamentali.

Principi fondamentali che possono così sinteticamente essere elencati, seguendo l’ordine attribuito loro dalla Costituzione:

  1. non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge
  2. la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento
  3. la legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari
  4. la responsabilità penale è personale
  5. l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva
  6. la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge
  7. ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale
  8. il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova
  9. tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati
  10. contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge

 

2. Il quadro costituzionale italiano

Ciò che da queste disposizioni emerge è che chi è accusato di un reato non può essere punito per fatti da lui non commessi o non addebitabili e che è, in ogni caso, necessario un processo penale “da svolgersi davanti al giudice”, processo che deve rispettare pienamente il diritto di difesa, il contraddittorio, ed essere giusto (quanto meno nel senso di essere il migliore tra quelli concretamente prospettabili o almeno di non “peggiorare o deteriorare” le garanzie già riconosciute).

La decisione di condanna di primo grado, poi, di per sé non basta perché l’imputato sia considerato colpevole, cioè meritevole dell’applicazione ed esecuzione concreta della pena: la condanna, infatti, deve essere “definitiva”, il che vale a dire che deve esserci un qualcosa in più rispetto alla sentenza di condanna e questo qualcosa in più è, appunto, la sua definitività, che esprime il fatto che non vi siano più a disposizione strumenti “ordinari” di impugnazione e/o di controllo della condanna, che evidentemente costituiscono il presupposto logico per dare un significato valoriale all’espressione costituzionale in questione.

Risulta altresì che la Costituzione prevede anche la possibilità dell’errore giudiziario, che si traduce in un errore “nel merito” e non anche in un puro “errore di legalità” della decisione, che di per sé ha la copertura del ricorso per Cassazione. Dunque, anche se non imposto direttamente, è agevole dedurre che la decisione di condanna di primo grado, nel merito, non solo non è sufficiente per procedere all’esecuzione della pena ma che è anche necessario prevedere meccanismi “ordinari” di verifica della decisione di condanna in quanto tale.

D’altra parte, se si deve prevedere la possibilità di riparare all’errore giudiziario “dopo il giudicato”, a maggior ragione si deve evitare che vi siano “errori giudiziari nel merito” prima del passaggio in giudicato e questo giustifica, al di là di sottigliezze argomentative un po’ tronche, la necessità di una impugnazione “ordinaria” anche nel merito, che, anche dal punto di vista del principio di uguaglianza, permetta di verificare se la sanzione applicata (sussistendo ampia discrezionalità del giudice nella sua concreta definizione) sia in effetti congrua e non frutto di personalismi o localismi giudiziari: ed ecco l’appello così come conosciuto fino a qualche anno fa, prima che venisse ingiustamente denigrato nella sua funzione di garanzia e nella sua copertura costituzionale.

Certamente – così si potrebbe obiettare – si potrebbe immaginare un processo che, ordinariamente, di fatto escludesse o rendesse oggettivamente assai difficoltoso un sindacato nel merito della decisione di condanna di primo grado, lasciando alla fase “esecutiva” il compito di poter considerare “nuovi elementi” di innocenza o, magari, di rivalutare più compiutamente quelli “non adeguatamente considerati” dal giudice di primo grado, provvedendo nel contempo a “rimodulare” in senso favorevole al reo la sanzione applicata. Ma con ciò dovrebbe pure ammettersi che il principio della responsabilità personale in ambito penale (sopra richiamato) sarebbe meno tutelato (se non addirittura azzerato) in questa situazione.

Infatti, si ammetterebbe che sarebbe accettabile per il nostro ordinamento – al di là di ogni sottigliezza argomentativa – essere prima puniti, col ragionevole rischio che la prima decisione non sia di per sé affidabile nell’an o nel quantum, e poi verificare se in effetti si sia o meno (così tanto) colpevoli come stabilito dal giudice di primo grado.

In fondo, ed il punto pare sia spesso e caparbiamente dimenticato da molti giuristi influenzati da teorie economiche e da molti economisti desiderosi di regolare il diritto solo con logiche utilitariste, la materia penale, autorizzando l’uso legale della forza sopra una persona, deve essere definita rigorosamente: così ammettere una pena (nell’an e/o nel quantum) a chi non la merita significa applicare una pena al di fuori dei soli casi e modi stabiliti dalla legge e ciò, se non si erra, è inaccettabile per il Popolo italiano, titolare della sovranità, e in nome del quale vengono pronunciate le sentenze specie di condanna penale.

Che una sola decisione nel merito, specie se assunta da un giudice unico, non sia di per sé sufficiente, non è un principio sofistico tipico di un’avvocatura stantia e protesa a trovar cavilli pur di giustificare la lunghezza dei processi, ma rappresenta, in ambito processuale penale, la “costituzionalizzazione del dubbio”, per rievocare una espressione cara al compianto prof. Giuseppe De Luca.

Nel valutare le prove, infatti, vi è, proprio come nell’interpretare la legge, non solo un margine (certamente insopprimibile ma anche talvolta estremamente ampio) di discrezionalità, ma anche la necessità di verificare (trattandosi di accadimenti specifici verificati ex post e non conosciuti o percepiti, per definizione, direttamente dal giudicante) se in effetti quanto deciso ed ammesso come “vero” ai fini della condanna sia una conclusione convincente o, meglio, abbia un alto grado di attendibilità, proprio per evitare che si compiano “errori giudiziari” e, dunque, si applichi una pena a chi non la meriti.

Non sarebbe “giusto” (o, sarebbe certamente “meno giusto” di quanto auspicabile e concretamente possibile) un processo che preferisse accontentarsi di una decisione di primo grado, purché presa attraverso forme legali “minime” nel presupposto che, in ogni caso e nella sostanza, “il giudizio di merito di un giudice vale come quello di altro giudice o di molti altri giudici”.

Infatti, la nostra Costituzione richiede la “motivazione” delle sentenze specie di condanna, anche in punto di fatto, non solo per verificare che una decisione sia stata assunta correttamente dal punto di vista formale, ma anche per “rivalutare” il percorso argomentativo espresso dal giudice di primo grado, al fine di vagliarne concretamente ed alla luce del caso specifico la persuasività intrinseca. Persuasività che ben può essere ragionevolmente corroborata ed affermata dal fatto che altri giudici, chiamati allo scopo, abbiano in effetti “confermato” le conclusioni assunte dal giudice di primo grado.

Ma, forse è bene ricordarlo, la “rivalutazione nel merito” della condanna si giustifica anche – e verrebbe da dire seppur forzosamente: innanzi tutto – al fine di considerare compiutamente le tesi della difesa, che possono certamente risultare molte volte come capziose o irrilevanti o ripetitive, ma che in ogni caso risultano sempre necessarie da acquisire e da ascoltare per comprendere se in effetti vi sono altre alternative da vagliare e altri punti da considerare.

Ed è proprio nell’inviolabilità del diritto di difesa “argomentativa” che si annida una parte essenziale del cuore del giusto processo: il giudice penale, quand’anche il suo agire sia in sé perfetto e formalmente perfetto sia il rispetto del contraddittorio probatorio, non giudicherà mai davvero bene (e quindi il suo giudizio non potrà essere considerato propriamente “giusto”) se non avrà davvero ascoltato le tesi della difesa e, in particolare, l’arringa difensiva. Inoltre, tra i primi requisiti del “giusto processo” vi è da sempre il riconoscimento del fatto che le parti (almeno tramite i loro rappresentanti) parlino e siano davvero davanti al giudice, con ciò evidentemente escludendo la tentazione (sempre presente in verità) di rendere “regola” il contraddittorio cartolare o il “contraddittorio a distanza”, ancorché telematicamente possibile, non fosse altro perché il processo penale deve essere pubblico e la pubblicità si manifesta necessariamente nella possibilità che vi siano presenti altri soggetti nell’aula di udienza.

Certamente si potrà chiedere ai difensori di essere sintetici, di arrivare al punto, di spiegare più chiaramente cosa si voglia esprimere, ma tutto ciò non inficia affatto l’essenzialità dell’oralità argomentativa della difesa, la quale potrà essere in qualche modo ridotta o resa non indispensabile solo da una decisione specifica ma ex post del difensore o dell’imputato. In altri termini, non si possono ritenere “equivalenti” sul piano valoriale, sia del giusto processo che del rispetto del diritto di difesa, norme che impongano al giudice di “ascoltare la difesa” prima di giudicare, rispetto a quelle che ritengano ciò non necessario, salvo che la “difesa lo richieda”: e ciò per il semplice fatto che si impone un onere di allegazione e si ritiene – per definizione – come non essenziale la partecipazione e “presenza” difensiva.

Né varrebbe ritenere che il “contraddittorio cartolare” sia di per sé equivalente, sempre sul piano valoriale, a quello “completo” e, dunque, anche al “contraddittorio orale”, per il semplice fatto che quest’ultimo ben si può aggiungere a quello “cartolare” e quindi appare essere più completo e, dunque, più rispettoso dei canoni costituzionali e del “ruolo personale” degli attori processuali difensivi.

Da quanto sopra espresso, allora, emerge che ogni intervento proteso a eliminare forme processuali non indispensabili o a semplificare la procedura è certamente auspicabile, ma il tutto non può ledere significativamente i diritti della difesa, che hanno indubbia valenza costituzionale, né a fornire margini di discrezionalità giudiziali capaci di rendere evanescente l’esercizio concreto ed effettivo del diritto di difesa e del ruolo del difensore specie nella fase del gravame.

Ciò, del resto, è stato ammesso e riconosciuto anche dalla Riforma in questione, laddove si legge che i criteri dettati hanno “finalità di semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, nel rispetto delle garanzie difensive” (art. 1 comma 1).

Se non che, ad una lettura attenta della Legge 134/2021, si crede – come anticipato – che in realtà vi sia stata una ingiusta compressione delle garanzie difensive.

Data la natura dell’accusa mossa, incombe l’onere di precisare ed evidenziare da subito i punti in questione, che possono essere così sintetizzati.

 

3. La mortificazione del diritto di difesa e della funzione del difensore

Nella Legge delega si prevede espressamente, relativamente alle impugnazioni, che:

  1. il difensore dell’imputato assente possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza (art. 1 comma 7 lett. h)
  2. la celebrazione del giudizio di appello con rito camerale non partecipato, salvo che la parte appellante o, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore richiedano di partecipare all’udienza (art. 1 comma 13 lett. g)
  3. l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato (art. 1 comma 13 lett. i)
  4. la trattazione dei ricorsi davanti alla Corte di cassazione avvenga con contraddittorio scritto senza l’intervento dei difensori, salva, nei casi non contemplati dall’articolo 611 del codice di procedura penale, la richiesta delle parti di discussione orale in pubblica udienza o in camera di consiglio partecipata (art. 1 comma 13 lett. m)

Al di là della riduzione del contraddittorio in udienza (sul quale verranno effettuate ulteriori riflessioni nel proseguo del testo) è di tutta evidenza che i punti 1) e 3) sono altamente dirompenti rispetto all’attuale assetto normativo, specie per il difensore d’ufficio, che si ritroverà sostanzialmente nella necessità di “rincorrere” il difeso al fine di poter essere legittimato ad impugnare: cosa ciò significhi dal punto di vista pratico, per chi frequenta le aule, è del tutto evidente.

Si dirà: ma in tal modo non si evita forse una responsabilità deontologica per la mancata impugnazione? Sarà, ma con ciò si ammette la morte stessa del concetto della difesa d’ufficio (ma anche di fiducia), la cui partecipazione al processo è protesa alla verifica e tutela della legalità e della correttezza della decisione di condanna e non già a legittimare ogni condanna!

Ciò che il difensore penale, come figura processuale istituzionale, ha in sé e gli deve essere riconosciuto “di diritto” è proprio la possibilità di poter chiedere un sindacato sulla decisione del giudice di primo grado: se questo diritto gli viene nei fatti precluso o reso capziosamente difficoltoso, allora la disciplina in questione è lesiva del diritto di difesa, in quanto colpisce il soggetto deputato professionalmente a garantirne l’effettività. Certamente per patrocinare avanti a Corti supreme o superiori, si può richiedere una qualificazione aggiuntiva al difensore, ma ciò non attiene a nessun processo specifico ma allo status professionale del difensore, sicché si tratta di ambiti e questioni assai diverse che non possono essere confusi.

Che poi il tutto sia “limitato” al caso dell’imputato assente, non solo non cambia la questione (essendo in assoluto la regola quella della decisione di condanna emessa senza che l’imputato sia presente), ma ulteriormente mortifica il tutto. Sia perché si tratta di un escamotage linguistico, per fare apparire eccezionale ciò che invece i fatti indicano sarà verosimilmente la prassi, sia perché impone all’imputato “assente” un onere processuale rilevante e, quindi, fuor di metafora una sanzione processuale (se si vuole atipica ma innegabile) consistente nella “sopravvenuta limitazione dei poteri conferiti al proprio difensore” e quindi di una “sospensione sostanziale” del rapporto col proprio difensore, sia esso di fiducia o d’ufficio, richiedendo nei fatti una ulteriore nomina, che vada in qualche modo a ripristinare un rapporto processuale altrimenti atrofizzato oppure a costituire un nuovo rapporto fiduciario con “altro avvocato”: il tutto per il solo fatto – in sé legittimo – di non essere stato “presente” in udienza!

Nello stesso modo, con l’inserire una vaghissima e capziosissima causa di inammissibilità quale quella di cui al punto 3), non si fa altro che affidare al giudice del gravame un’amplissima discrezionalità sostanzialmente insindacabile, che può avere evidenti riflessi sull’effettività del diritto all’appello e più in generale all’impugnazione.

Un tempo l’imputato poteva semplicemente e da solo impugnare anche in Cassazione: ora l’attività essenziale del sindacato della decisione di condanna di primo o secondo grado è divenuta inutilmente complessa e cavillosa e, nell’ottica del legislatore, lo dovrà essere sempre di più.

Se non che se la semplificazione degli atti e delle loro forme è un principio condivisibile ed essenziale, che va anche a dare concretezza alla “ragionevole durata del processo”, si domanda perché mai per quanto riguarda i diritti fondamentali delle impugnazioni difensive si impongano sempre di più oneri oggettivamente non utili.

Fuor di metafora: quale mai sarebbe la “ragionevolezza” di una disciplina che imponga talune formalità per la legittimazione dell’impugnazione, formalità di cui non si era sentita l’esigenza nell’ordinamento italiano almeno negli ultimi trent’anni? Nel dubbio, deve o meno prevalere il favor impugnationis? E se l’impugnazione è una manifestazione del diritto di difesa, perché porre oneri, limiti, percorsi complessi a che si instauri legittimamente il grado richiesto? E ciò ragionevole, proprio con riferimento al “principio della ragionevole durata del processo” sopra richiamato? Si ritiene sentitamente di no!

Le sopra esposte osservazioni non possono allora che preoccupare, poiché capaci di colpire al cuore il sistema accusatorio tanto faticosamente adottato nel nostro ordinamento.

Tanto più se si considerano i seguenti ulteriori elementi relativi al giudizio di primo grado:

- l’azione penale può essere considerata, seppur da giudici superficiali o non professionali, come una sorta di “patente di attendibilità alla colpevolezza”, posto che il pubblico ministero dovrà chiedere l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna (comma 9 lett. a);

- il giudice dell’istruzione potrà agevolmente essere diverso da quello della decisione, sol che si proceda a “video-registrazione”: si prevede infatti che quando la prova dichiarativa sia stata verbalizzata tramite videoregistrazione, nel dibattimento svolto innanzi al giudice diverso o al collegio diversamente composto, nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, il giudice disporrà la riassunzione della prova solo quando lo riterrà necessario sulla base di specifiche esigenze (comma 11 lett. d): una volta dotati gli uffici giudiziari, magari, di “telefonini di ultimissima generazione”, la video-registrazione sarà una prassi consolidata facilmente gestibile da chiunque e la possibilità (se del caso, giustificata dalla “specializzazione” o “dalla divisione del lavoro” e, in ultima analisi, da esigenze di “economia processuale” individuabili – grazie anche al “nuovo ufficio del processo” - nella standardizzazione della stesura ed emissione delle sentenze) di “scindere” il giudice dell’istruttoria da quello della decisione sarà una chance assai ghiotta, con ciò permettendo il ritorno “ufficioso” di un sistema inquisitorio seppur “impuro” ma mai davvero scomparso nel nostro sistema processuale penale;

- si avrà un ampliamento della competenza del Tribunale in composizione monocratica, con la conseguente possibilità che in udienza le funzioni di pubblico ministero e di giudice saranno sempre più affidate a magistrati non togati.

 

4. Risposte ad alcuni argomenti pro riforma

Una obiezione all’impostazione qui assunta ben potrebbe poggiarsi sul fatto che in fondo, per molti aspetti (specie per quelli relativi al contraddittorio orale), la Legge delega ha semplicemente dato copertura ad una prassi già in voga da tempo.

Da tempo, infatti, si vedono prospettare in primo grado rinvii per “finte repliche” in modo da giungere, magari dopo settimane (se non mesi) dall’arringa difensiva a decisioni di condanna con lettura contestuale della motivazione.

Da tempo, si assiste in appello all’invito ai signori avvocati – tutti convocati alla medesima identica ora, per ragioni di equità ovviamente – di alzare la mano per sapere chi non intenda “discutere”, naturalmente oramai dando per letta la relazione del giudice relatore (per ragioni di economia e di galateo istituzionale), pena l’attesa di ore ed ore, con l’aggravante che, pur avendo atteso e magari discusso con apparente soddisfazione del Collegio e dei colleghi astanti, non si possa conoscere da subito la decisione ma solo nel tardo pomeriggio, avendo talune Corti d’appello assunto come proprio il modus operandi della Cassazione di “ritirarsi in camera di consiglio per decidere tutte insieme ed in un sol colpo le impugnazioni del giorno”, senza considerare che altro è la decisione nel merito che deve riguardare necessariamente ciascun caso, altro è una decisione di legittimità che potenzialmente – nei suoi principi – può naturalmente riguardare contemporaneamente anche più casi.

Se così è, non si è data copertura normativa ad una buona prassi, ma ad un lassismo certamente deprecabile tollerato da molti avvocati, tolleranza resasi necessaria come contraltare a evidenti e innegabili inefficienze nell’organizzazione delle udienze.

Che dire poi dei processi innanzi alla Suprema corte, dove l’invito alla sintesi spessissimo è fatto prima ancora che il difensore si alzi per parlare e dove, pur sussistendo richiesta di accoglimento del ricorso difensivo da parte della Procura Generale, la Corte di cassazione, de plano, sovente dichiara inammissibile l’impugnazione senza che nessuno sappia il perché, se non dopo la lettura di pagine e pagine di motivazioni che si concludono con l’immancabile e “costosissima” condanna pecuniaria a favore della Cassa delle ammende?

Si potrà però ulteriormente obiettare con tono trionfante: ma con la Riforma Cartabia, si è dato definitivo addio al “fine processo mai”! E di ciò bisogna rallegrarsi e non poco!

Che ciò sia è vero specie sulla “carta”, ma a ben vedere il decorrere del tempo, da cui deriverebbe la nuova sanzione di improcedibilità introdotta, non dipende sostanzialmente da atti difensivi.

Il tempo in questione decorre, infatti, da quando i termini difensivi per impugnare sono trascorsi ed è sospeso in caso di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, fermo restando che potrà essere ampiamente prorogato grazie ai poteri discrezionali concessi dalla legge al giudice procedente. Considerato poi che (a riforma pienamente in vigore) la partecipazione difensiva alle udienze d’impugnazione sarà considerata “giuridicamente” come “eccezionale” [fermo restando che già oggi la stessa partecipazione alle udienze nei gravami è sostanzialmente irrilevante al fine della determinazione dei tempi “medi” delle impugnazioni: non fosse altro perché non è la difesa a fissare la data dell’udienza, dipendendo dal ruolo del giudice dell’impugnazione, e perché nella (quasi) totalità dei casi la partecipazione difensiva si esaurisce in un sol giorno], ben si può capire come una efficiente gestione “informatica” del processo potrà determinare una sostanziale irrilevanza pratica della disciplina in questione, sempre che – naturalmente – i sistemi informatici ministeriali funzionino perfettamente e siano esenti da attacchi “esterni”.

Ecco che allora, anche ad ammettere che vi sarà una riduzione dei tempi medi dei processi, bisogna anche ammettere che ciò che si attuerà avrà un prezzo, che non è stato “quantificato” né in termini di perdita di garanzie, né in termini di limitazioni di diritti, né in termini di inaffidabilità del sistema penale.

Ma si obietterà da ultimo, a mo’ di colpo mortale, a quanto sin qui osservato: il sistema delle impugnazioni andava riformato, perché oggi al collasso, sicché ci troviamo in una situazione ormai ingovernabile e di fronte alla gravità della situazione, si possono limitare i diritti (anche difensivi) se ciò serve alle “esigenze generali”! Del resto, attualmente non si è forse in uno “stato d’eccezione”?

In sé, il richiamo alla “stato di necessità istituzionale”, che può in qualche modo rendere accettabile l’uccisione o il ferimento mortale di diritti dei cives, in perfetta analogia con lo “status necessitatis” proprio del diritto comune, non pare sia un grande argomento, se non per auspicare e legittimare al più presto la caducazione delle “norme eccezionali” imposte, che peraltro – per loro natura – sono “a termine” almeno negli Stati democratici e liberali.

Più di tutto, però, si dimentica che anche nello “stato d’eccezione”, vi sono spazi di discrezionalità e scelte che delineano un preciso indirizzo. La nostra Costituzione dà dei criteri non solo interpretativi ma anche “politici” per la scelta dei provvedimenti da adottare, tra i quali vi è l’inviolabilità della difesa in ogni stato e grado del procedimento.

 

5. Conclusioni sulla riforma Cartabia

Quando il “nuovo codice di procedura penale” fu adottato, si diceva che l’Italia avesse preso a prestito il “modello americano”, modello invero assai diverso dal nostro, non fosse altro che per la presenza della giuria e del “case-law”, ma che – in quanto accusatorio – aveva ed ha un dato fondamentale di riferimento. All’imputato si possono offrire mille e più soluzioni alternative al giudizio ed ogni aspetto della vicenda penale, salve pochissime limitazioni, può essere “concordato con l’accusa”: è compito della difesa e in particolare del difensore “convincere” l’accusa o concordare con essa una soluzione.

E ciò permette di definire la stragrande maggioranza dei casi “penali” pendenti, anche grazie ad una razionalizzazione dell’azione penale e a un’alta professionalità della classe forense, di cui si riconosce la necessità e l’alto valore istituzionale. Se, però, l’imputato non si dichiara colpevole, lo stesso ha diritto a tutte le massime garanzie costituzionali, nessuna esclusa, garanzie che non possono essere “ridotte” solo perché ha “osato” farsi processare

Ora tale raffronto è un dato del passato. Ora, infatti, dopo diversi decenni e numerosissime novelle normative più o meno costituzionalmente accettabili, (davvero a malincuore) si può tranquillamente affermare che l’Italia ha finalmente il suo processo accusatorio tipicamente “all’italiana”, dove l’imputato, decidendo di essere processato di fronte all’accusa mossagli, avrà (a breve ma assai giustamente secondo molti) meno diritti e meno garanzie di un tempo se, condannato, vorrà, in nome dei principi costituzionali, contestare l’ingiustizia del processo svolto nei suoi confronti e proclamare o far riconoscere la sua innocenza!

È poi oltremodo evidente che, in prospettiva, l’assetto, così come sopra descritto, potrà avere effetti “economici” anche sull’attività forense: non essendo necessaria la partecipazione alle udienze d’impugnazione, essendo ampliata la discrezionalità sulla valutazione dell’inammissibilità dell’appello, come si potranno giustificare, specie sul lungo periodo, remunerazioni per attività svolte per “impugnazioni non ammissibili”? Tale domanda diverrà sicuramente rilevante – è inutile negarlo – specie per la difesa d’ufficio e per il gratuito patrocinio qualora “l’ammissibilità dell’impugnazione” diventasse nei fatti e statisticamente “eccezionale”.

Del resto, qualcuno – un po’ maliziosamente, in verità – ha già abbozzato che forse, alla fine, la riduzione del 25% dei (tempi dei) processi passerà essenzialmente tramite il “filtro economico e numerico” degli avvocati, che tenderanno a ridursi di numero e a ridurre sempre più le loro attività allorquando si vedranno addossate responsabilità sempre maggiori a fronte di riduzioni sempre maggiori delle remunerazioni per le attività svolte, raggiungendo così una situazione di equilibrio formalmente inaspettata ma sentitamente auspicata.

Forse sarà così, forse – magari – ogni dubbio e maliziosa lettura, nella parte in questione, della Riforma Cartabia spariranno, una volta lette le disposizioni di dettaglio.

Certo è che il ruolo tipico dell’avvocato difensore, quale soggetto ritenuto davvero necessario e chiamato istituzionalmente a garantire i diritti dell’imputato e il loro rispetto nell’ambito del processo penale, non viene esaltato da questa legge ma piuttosto ridimensionato e frammentato.

Certo è che, volenti o nolenti, una nuova era è chiamata a nascere per l’avvocatura italiana, che oltre a dover essere sempre più preparata e unita, dovrà sempre di più avere consapevolezza del suo ruolo costituzionale a difesa del giusto processo, ruolo che prima o poi dovrà essere ritenuto così importante da costituire, come insegna la storia di ogni autentico sistema accusatorio, la base ove rinvenire se non tutti, almeno i migliori tra coloro che saranno in futuro chiamati a ius dicere.

Dopo tutto, nessuna vera garanzia processuale è mai nata senza gli avvocati e nessun giusto processo è mai stato senza avvocato!