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Famiglia e genitorialità: prime note sul caso della Grecia

Coppie gay e adozione
Coppie gay e adozione

Famiglia e genitorialità: prime note sul caso della Grecia

 

Il contributo di questo mese avrebbe dovuto essere dedicato al c.d. «caso Salis», vale a dire al caso che la stampa – e non solo – ha recentemente presentato all’opinione pubblica come scandalo ungherese nella violazione dei diritti umani. Il caso – come è noto – ha avuto un certo risalto a causa di alcune fotografie le quali hanno ritratto l’imputato in un procedimento penale, condotto a processo, in aula, con polsi e caviglie stretti in ceppi, come un tempo si sarebbe detto, cioè ammanettati.

Ovviamente l’attenzione si è fatta maggiore dato che l’imputato in questione era una donna, tra l’altro, giovane, italiana, attivista – parrebbe – di movimenti vicini alla c.d. sinistra. Meno attenzione si è avuta per il volto sorridente e sereno dell’imputato e per il fatto che i mezzi di contenzione in realtà, non solo consentivano una certa, evidente, possibilità di movimento degli arti, ma presentavano addirittura imbottiture e protezioni atte a evitare danni o lacerazioni al corpo…

Sarebbe stato opportuno svolgere qualche riflessione, in fatto e in diritto, anche per evitare che al coro, molto vasto, dei «dissensi», per lo più emozionali, venga contrapposta qualche argomentazione logica, morale e giuridica e qualche rilievo in fatto, nei limiti del possibile, data la difficoltà obiettiva a reperire gl’atti di causa. Particolarmente interessante sarebbe stato affrontare, sia pure brevemente, la questione dei diritti e dei diritti umani nel procedimento e nel processo penale e quella inerente la c.d. presunzione d’innocenza, che già Vincenzo Manzini, per esempio, considerava assunto “paradossale e contraddittorio”, come si evince dal suo Manuale.

Lo si farà prossimamente.

Un altro caso, infatti, ha richiesto, o meglio suggerito, un più urgente intervento. Si tratta della recentissima notizia secondo la quale la Grecia avrebbe – come titola, per esempio, un quotidiano nazionale – “legalizza[to] il matrimonio e l’adozione di minori per [le] coppie gay”[1]. Ecco, questo richiede di svolgere alcune brevi considerazioni, anche tenendo conto delle due circostanze che la stampa si è premurata di segnalare, quasi a sottolineare una contraddizione o un’eterogenesi dei fini interne allo stesso contesto politico-giuridico-culturale della Grecia: il primo concerne l’aspetto religioso del Paese, definito cristiano ortodosso, almeno sociologicamente; il secondo concerne l’area politico-partitica del Governo, essendo questa nuova legge entrata in vigore appunto sotto gl’auspicii di “un primo ministro conservatore, Kyriakos Mitsotakis, del partito di centro destra Nuova Democrazia”[2], come sintetizza, per esempio, un noto periodico in linea.

Questi i fatti dai quali è giuocoforza iniziare a riflettere, pur nella consapevolezza che le leggi in parola andrebbero studiate, anche in relazione all’Ordinamento nel quale s’innestano, in modo assai più approfondito di quanto possa farsi spigolando qualche informazione dalle notizie della stampa. La notizia, comunque, è tale e, come tale, suggerisce qualche commento.

 Due (almeno) le questioni da analizzarsi: la prima – giuridica in senso stretto – concerne il tema della famiglia, del matrimonio e della genitorialità; la seconda – politica – involge il paradosso del c.d. conservatorismo. In entrambi i casi ci si dovrà limitare ad alcuni cenni soltanto per ragioni di brevità ed efficacia.

Solo annoto, prima di entrare in medias res – l’antecedente spagnuolo rappresentato dalla ley organica 13/2005, la quale, intervenendo con una novellazione diretta del Código civil vigente, ha disposto l’aggiunta di un secondo comma all’art. 44, a mente del quale “el matrimonio tendrá los mismos requisitos y efectos cuando ambos contrayentes sean del mismo o de diferente sexo”, così introducendo il c.d. matrimonio omosessuale anche nella cattolicissima Spagna… Il caso della Grecia, pertanto, non è isolato, né dal punto di vista delle modifiche (recte, degli stravolgimenti) al c.d. Ordinamento giuridico positivo dello Stato, né dal punto di vista del sentimento religioso, lato sensu inteso sotto il profilo sociologico, che in un modo o nell’altro caratterizza il Paese (almeno storicamente). Forse cambiano gli orientamenti partitici delle maggioranze parlamentari che tali novellazioni hanno apportato, ma in fondo si tratta di differenze interne alla medesima ideologia liberale, non di diversità sostanziali.

La prima questione cui è opportuno soffermarsi, pur in forma molto sintetica, inerisce la natura giuridica del matrimonio quale atto, quale atto giuridico, propriamente parlando; vale a dire quale atto umano foriero di conseguenze giuridiche e regolato (in quanto lecito) dal diritto, quindi, in questo senso, «ordinato». Infatti, come scrive per esempio Alberto Trabucchi, “è l’esistenza di un atto giuridicamente valido a base della vita del rapporto coniugale”[3].

Il problema dell’ordine, della validità e, se si vuole, della giuridicità cui fa riferimento Trabucchi, però, non può essere dato per iscontato: esso, infatti, impone di considerane l’addentellato sostanziale. Altro, infatti, è l’ordine del diritto, l’ordine trascendente il quale rappresenta la condizione dell’Ordinamento, onde l’atto che ne sia informato è in sé veramente giuridico, legittimo, valido; e altro, tutt’altro, è l’ordine del e nel Sistema normativo di riferimento, inteso, quest’ultimo, quale «prodotto» positivistico, onde l’atto che ne sia informato è in questo caso «solo» legale, ovverosia «solo» coerente con lo spettro delle fonti normative cui esso afferisce ratione materiae, mutuandone, sul piano sostanziale, validità o invalidità a seconda dei casi e del loro contenuto.

Sotto il primo profilo, allora, l’ordine è quello della legittimità o giuridicità sostanziali, ed esso è criterio discretivo tra il giuridico e l’antigiuridico, così per l’Ordinamento, come per l’atto; sotto il secondo profilo, viceversa, l’ordine, o meglio il cosiddetto ordine, è quello della legalità formale, per esempio intesa kelseniamnamente, onde ogni Ordinamento sarebbe fonte e causa del «suo» ordine, eppertanto non dovrebbe rispondere ad alcun ordine oggettivo, dato in sé, naturale, così come non dovrebbe risponderne l’atto, allo stesso bastando il riferimento positivistico alla c.d. norma di copertura, vale a dire – tecnicamente – la possibilità (logica) della sua sussunzione entro gl’estremi della fattispecie astratta di riferimento.

Ciò significa che il «concetto» di “atto giuridicamente valido”, cui Trabucchi va riferendosi, sarebbe a sua volta problematico e da problematizzarsi: esso, infatti, apre a prospettive opposte a seconda che la validità nella quale fa assegnamento sia quella formale, del sistema, quella legalistica, e ogni sistema ne ha la sua…; o a seconda che essa sia, piuttosto, quella sostanziale che l’Ordinamento sì prescrive, se e quando prescrive, ma non crea essendone piuttosto condicio sine qua non.

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È facile intendere, allora, che un conto è parlarsi dell’atto matrimoniale, del matrimonio, il quale, nella sua essenza, sia giuridico e legittimo in sé, vale a dire rispondente ai principii proprii del suo ordine naturale, e come tale disciplinato dall’Ordinamento giuridico che ne recepisce e prescrive il proprium; e un conto assai diverso, anzi opposto, è parlarsi dell’atto matrimoniale il quale non abbia nessuna fondazione ulteriore rispetto a quella della mera legalità, e il quale l’Ordinamento pretenda e rivendichi di disciplinare ad libitum, cioè secondo opzioni e rationes operative del tutto convenzionali e arbitrarie.

In questo secondo caso è perfettamente inutile discutersi, anche perché ne mancherebbe la sostanza: basta infatti che un impiegato di concetto (forse sarebbe sufficiente un applicato) addetto alla segreteria dell’Ufficio dello stato civile, si dedichi con un po’ di impegno alla lettura delle norme in materia e provveda per la loro applicazione meccanica, oltre non può e non deve andarsi, se il presupposto sia appunto quello del potere sovrano che, come già disse Portalis, attraverso la legge può creare ciò che non c’è o distruggere ciò che c’è. Onde il problema del matrimonio si riduce all’applicazione della norma che lo disciplina: lex imperat, non docet.

In questo secondo caso, però, sarebbe, a rigore, perfettamente inutile discutersi anche di rivendicazioni e iattanze lato sensu politiche, le quali mirino a modificare l’Ordinamento e a introdurvi nuove fattispecie, nuovi diritti, come oggi si dice con grande enfasi. Se la questione è quella della legalità, la legalità non si discute. Di fatti, per fare entrare dalla finestra ciò che la porta terrebbe fuori, si fa appello a una dinamicità e provvisorietà intrinseca all’Ordinamento, figlia, in ultima istanza, delle teorie inerenti il c.d. Stato di diritto, nel quale, allora, giusta il rispetto delle procedure vigenti, “non c’è legge che non possa essere modificata purché si osservino le formalità previste”[4], come sintetizza molto bene un giurista spagnolo, Miguel Ayuso Torres. Qui le procedure tengono luogo al fondamento: esse lo surrogano, perché il riferimento ultimo per la legalità del legale, cioè per la legalità di ciò che vige, è il rispetto formalistico dell’iter normativamente previsto per la sua stessa vigenza. Tanto basta.

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Il primo problema, comunque, dal quale può essere utile iniziare a riflettere, e che qui giova considerarsi sinteticamente, inerisce alla fisionomia giuridica del matrimonio, sotto un certo profilo alla sua natura di atto giuridico, dovendosi dire se essa sia contrattuale, negoziale o appartenente a un tertium genus. Direi che il tema in parola, in certa parte almeno, può risultare d’un qualche interesse anche limitandosi a considerazioni sul piano del diritto positivo, sia pure apportandovi i dovuti correttivi.

            Ebbene, la natura contrattuale del matrimonio, il suo essere contratto, è da escludersi per diverse ragioni, sotto il primo ed essenziale profilo. L’appena citato Alberto Trabucchi fa riferimento a due elementi: da un lato “all’atteggiamento delle parti [vale a dire dei nubendi], al cui accordo è lasciata soltanto la facoltà di aderire” o di non aderire, posto che si tratta di un rapporto essenzialmente definito in modo inderogabile dalla legge; da un altro lato allo “intervento dell’ufficiale celebrante il quale non si limita a documentare la volontà degli interessati [come fa, per esempio, il notaro rogando un atto pubblico], ma partecipa attivamente, quale rappresentante dell’autorità, all’atto di costituzione del nucleo familiare”[5], cosa che negl’altri atti pubblici viceversa, secondo Trabucchi, non si verificherebbe in quanto il pubblico ufficiale avrebbe una sola funzione lato sensu fidefacente.

Un tanto destituirebbe di fondamento la tesi che qualifica il matrimonio come contratto, già stando a due aspetti della sua disciplina codicistica.

Il contratto, infatti, è viceversa dato dall’accordo libero delle volontà delle parti, le quali, proprio per mezzo del contratto che stipulano, costituiscono, regolano o estinguono il loro rapporto (ex art. 1321 c.c.), determinandone liberamente il contenuto, nell’esercizio della c.d. libertà contrattuale. Ciò significa – come pure è stato autorevolmente detto – non solo che “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contatto [… quand’esso sia tipico], ma [altresì che] l’autonomia […] non si arresta alla libertà di fissare le specifiche condizioni […]: le parti [infatti] non devono necessariamente scegliere […] uno degli schemi contrattuali previsti [… dal Legislatore], ma possono anche concludere contratti […] ‹atipici› o ‹innominati›”[6] liberamente, o, meglio, autonomamente definendone il contenuto. Restano salvi, ovviamente, i limiti imposti dalla natura stessa del contratto quale atto giudico. Per esempio resta salvo il perseguimento di “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”, come recita l’art. 1322 co. II c.c.; la liceità della causa, ex art. 1343 c.c.; la possibilità, la liceità, la determinazione o la determinabilità dell’oggetto sub art. 1346 c.c. et coetera.

Inoltre – qui entro nel secondo rilievo di Trabucchi – il contratto resta l’accordo delle parti che lo stipulano, per come esse stesse intendono disciplinare il loro rapporto, quand’anche sia prevista ad substantiam una particolare forma – per esempio l’atto pubblico – la quale esiga l’intervento di un terzo pubblico ufficiale. Da quest’intervento, infatti, non si mutua alcun elemento integrativo delle disposizioni e della regolamentazione contrattuali, che restano quelle volute dalle parti. Anche in questo caso la forma resta… forma, cioè essa investe il modo del contratto, cioè il modo della sua estrinsecazione e non il suo contenuto. Il pubblico ufficiale chiamato a rogare un contratto, infatti, si limita al rogito, cioè alla ricezione delle reciproche volontà, alla loro formalizzazione in termini giuridici, a un vaglio circa la loro legittimità e legalità, all’adempimento di eventuali oneri di carattere fiscale (anche quale sostituto d’imposta), oltre che alle formalità legate alla registrazione del contratto stesso o, comunque, alla sua pubblicità. Non va oltre. Nel caso del matrimonio, invece – così sostiene Alberto Trabucchi – il celebrante “partecipa attivamente […] all’atto di costituzione del nucleo familiare”, cioè egli non si limiterebbe a formalizzare la volontà delle parti nel senso appena veduto, ma concorrerebbe proprio a dare luogo alla costituzione del rapporto, al di là della semplice pubblicità.

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Ebbene, il primo argomento trabucchiano è «forte», essendo vero che la regolamentazione del matrimonio, a differenza di quella del contratto – come è pure stato da altri rilevato – è “indisponibile, essendo esclusa la liceità di qualsiasi disciplina convenzionale, in deroga o in aggiunta al regime legale”[7]. Il matrimonio, infatti, non tollera interventi modificativo-conformativi, pur mutualmente voluti dalle parti per il loro rapporto, i quali ne alterino la struttura, sia sotto il profilo del c.d. matrimonium in fieri, sia sotto il profilo del c.d. matrimonium in facto. Sotto questo rispetto può dirsi che il contratto si negozia, mentre il matrimonio si fa. Pertanto la fissità, la stretta tipicità della disciplina matrimoniale, lo sottraggono dal novero dei contratti, per loro natura viceversa elastici, plastici. La cosa certamente è definita dal diritto positivo, ma essa ha un fondamento oggettivo, naturale, come si vedrà in appresso.

Il secondo aspetto fatto palese da Trabucchi, invece, dà agio ad alcune perplessità, essendo quantomeno difficile comprendere in che cosa consista la partecipazione attiva dell’ufficiale dello stato civile “all’atto di costituzione del nucleo familiare”, cioè in che cosa consista il crinale discretivo tra la ricezione e la formalizzazione ab externo della volontà dei nubendi, da parte dell’Ufficiale dello stato civile, e la sua attiva partecipazione all’atto costitutivo della famiglia, a meno che quest’ultima non la si riduca alla dichiarazione dello status di marito e moglie con la quale il celebrante conchiude la celebrazione, cosa che la ridurrebbe a uno sterile formalismo.

In altri termini pare quantomeno difficile, e tutt’affatto astratto, discernere l’intervento del pubblico ufficiale in sede contrattuale, da quello dell’Ufficiale di stato civile in sede matrimoniale, anche perché la struttura «rigida» dell’atto matrimoniale, che ne impedisce la qualificazione contrattuale, a fortiori impedisce interventi da parte del pubblico ufficiale ai fini della costituzione della famiglia, la quale, se mai, avviene ope legis, in virtù della stessa celebrazione rituale del matrimonio e in ispecie in virtù del legittimo consenso dei nubendi. L’ufficiale dello stato civile, invero, è richiesto e comandato solamente di espletare le formalità del rito e di verificarne i presupposti, e ciò – mutatis mutandis – al pari del notaro o comunque del pubblico ufficiale, per gli atti del quale viene rogato un contratto sotto forma di atto pubblico.

A ogni buon conto e al netto di quanto testé osservato, più perspicua sembra essere, in subiecta materia, la tesi richiamata da Gazzoni, la quale nega la natura contrattuale al matrimonio sovrattutto in quanto “gli sposi non costituiscono, né regolano un rapporto giuridico patrimoniale”[8], laddove, viceversa, il requisito della patrimonialità è condicio sine qua non per aversi il contratto già a mente dell’immediato tenore letterale dell’art. 1321 c.c..

E invero ciò che impedisce di qualificare il matrimonio come contratto è proprio quest’aspetto legato alla natura, all’essenza, della sua stessa causa: essa non è patrimoniale, non involge la disciplina dei rapporti patrimoniali, anche se il matrimonio stesso è pur gravido di effetti… patrimoniali. La ragione, la causa del matrimonio, infatti, è la costituzione della famiglia, non la disposizione di beni o interessi d’ordine patrimoniale. Sotto questo profilo potrebbe dirsi che al matrimonio si accede, mentre con il contratto si dispone.

Sul tema della causa, comunque, tornerò in appresso. Per ora basterà considerarsi i due argomenti, il primo formale, di Trabucchi, il secondo sostanziale-causale di Gazzoni, giusta i quali sarebbe destituita di fondamento la tesi contrattuale del matrimonio. La qualcosa significa che è destituita di fondamento – legibus sic stantibus – la tesi della natura contrattuale, e meglio dovrei dire dispositiva, della famiglia, la quale, infatti, non è come essa sia voluta dai coniugi per sé stessi, non è sottoposta all’egida delle loro volontà, ma è… come disciplinata dalla Legge e, prima ancora, fuori da un contesto di gretto positivismo, secondo l’ordine naturale suo proprio.

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Sgomberato il campo dall’ingombrante figura del contratto, resta da dirsi quale natura effettivamente abbia il matrimonio, che appunto contratto non è, almeno tecnicamente parlando.

Rimango alla grammatica del diritto privato, ché andare oltre richiederebbe disamine e riflessioni assai complesse. La tesi più tralaticiamente affermatasi e accreditatasi è quella del negozio giuridico, nei gangli concettuali del quale effettivamente il matrimonio parrebbe rientrarvi pienamente. I negozii giuridici, infatti, come per esempio scrive il già citato Trabucchi, sono “manifestazioni di volontà rivolte a uno scopo pratico che consiste nella costituzione, modificazione o estinzione di una situazione meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico”[9], e il matrimonio, effettivamente, consta di una mutua manifestazione di volontà, costitutiva di una situazione – quella familiare – che l’ordinamento considera meritevole di tutela, tanto da disciplinarla espressamente.

Nulla quaestio!

La definizione e la figura del negozio giuridico è – come tutti sanno – dottrinale e non legislativo-positiva, tanto che essa provoca qualche disagio ai puristi del positivismo, i quali, cercando tra i righi della legislazione dov’essa sia disciplinata, non la trovano e per certi versi non se ne dànno ragione.

La figura del negozio giuridico, tuttavia, ha attraversato pressoché indenne le forche caudine delle varie stagioni positivistiche ed essa gode una certa considerazione anche nell’ambito dello stesso positivismo giuridico, che di fatto se ne serve. Le ragioni di questa «sopravvivenza» possono essere diverse, e non è il caso di soffermarvisi. Una, tuttavia, vale su tutte: il fatto che la disciplina, la struttura e l’ordine del negozio giuridico mutuano grandemente quelli che il Codice civile dà con riguardo al contratto, tanto che quella del negozio giuridico è categoria più amplia, species, rispetto al genus del contratto stricto sensu inteso, onde l’addentellato normativo non manca.

Restano al di fuori dalla struttura del negozio giuridico, e limitati alla disciplina del contratto, il requisito dell’accordo intersubiettivo, giacché il negozio, in quanto tale, può essere anche unilaterale, mentre il contratto no; e il riferimento al requisito della patrimonialità, in quanto il negozio può disciplinare interessi anche non patrimoniali, mentre il contratto a questi si riferisce. Vi si ritrovano comuni, invece, il riferimento alla manifestazione di volontà, necessaria per aversi negozio giuridico, ma nella quale rientra indubbiamente anche il consenso delle parti in sede contrattuale; il riferimento alla costituzione, alla modificazione e all’estinzione della “situazione giuridica”, la quale può indubbiamente essere data anche dal contratto; e infine il riferimento a una situazione meritevole di tutela, il quale riprende pedissequamente il già citato limite alla c.d. libertà contrattuale sub art. 1322 co. II c.c., come a dire, in questo caso, che per aversi negozio giuridico valido ed efficace – al pari del contratto c.d. atipico –, occorre che la situazione giuridica dallo stesso posta in essere e regolata risulti lato senso sussumibile in categorie concettuali già apprezzate dall’Ordinamento vigente e dalle sue rationes di fondo.

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La questione parrebbe risolta, ma a questo proposito è ancora da chiedersi, con riguardo al matrimonio, e sgomberato il campo dalla tesi contrattualistica, se sia effettivamente e propriamente corretto parlarsi “di negozio giuridico bilaterale”[10], come anche Gazzoni, per esempio, ammette sia prevalente in Dottrina, o se, piuttosto – questa l’opinione dell’Autore testé citato – siasi in presenza di un atto tipico a sé stante, né contratto, né negozio, giacché “il legislatore ha dettato una disciplina apposita [… onde] si tratta della disciplina (tout court) di un atto tipico che proprio per la sua peculiarità pretende una apposita regolamentazione”[11]. Come a dire che il matrimonio, non essendo contratto… è matrimonio sic et simpliciter, atto tipico a sé, insuscettibile di essere inquadrato entro categorie lato sensu generali.

L’individuazione di questo tertium genus deriverebbe – se così può dirsi – da una «diffidenza» di Gazzoni verso la stessa «categoria» del negozio giuridico, il quale, infatti, secondo l’Autore, solo servirebbe a fini di teoria generale (del negozio), vale a dire per “accomunare [sotto una comune figura giuridica] manifestazioni di volontà dei privati del tutto eterogenee dal punto di vista della ragion d’essere e della funzione svolta”[12].

L’impostazione di fondo, qui, è apertamente positivistica, anzi legalistica, nel senso che essa fatica ad ammettere non solo la fondazione del diritto positivo in principii che gli sono anteriori, ma addirittura la sua concettualizzazione e riduzione a sistema, ogni istituto, ogni norma, ogni disciplina dovendosi leggere, intendere, studiare e applicare nei soli limiti e per i soli effetti delle norme positive che la concernono. Il problema, però, non è solo questo – ideologico, in fondo –, esso investe il tema della causa.

E infatti se si guarda alla causa, è palese che il negozio giuridico matrimoniale nulla abbia a che fare con gli altri negozii, peculiarissima essendo la sua funzione e la sua ragione d’essere, punto condensantesi nella costituzione della famiglia, cioè nella costituzione di un istituto comunitario, di una comunità propriamente detta, che ha in un tempo una dimensione giuridica e politica e che trascende il rapporto intersubiettivo dei e tra i coniugi.

Più che dispositivo di diritti, invero, il matrimonio è atto costitutivo. È ovvio – si badi – che esso postuli una scelta e un’opzione libera dei nubendi, ma la scelta e l’opzione de quibus, piuttosto che limitarsi a disporre di diritti personali e personalissimi, costituiscono, dandone effettivamente luogo sul piano giuridico, un’istituzione e una comunità in un tempo, la quale trascende i rapporti interpersonali dei coniugi e la quale involge, direttamente o indirettamente, anche i componenti le rispettive famiglie di origine. Per esempio l’atto del matrimonio, il negozio giuridico matrimoniale posto in essere dai nubendi, è foriero, almeno potenzialmente, di obbligazioni anche per persone diverse dai coniugi stessi; al di là delle questioni successorie, infatti, basterà ricordarsi l’obbligazione alimentare sub art. 433 c.c., la quale ricade o può ricadere anche sui generi e sulle nuore, anche sul suocero e sulla suocera, come è espressamente detto ai punti 4) e 5) della norma citata. Ciò deroga al generale principio dei negozii e dei contratti secondo il quale res inter alios acta, tertio neque prodest, neque nocet.

La famiglia che si costituisce col matrimonio e in virtù di questo, infatti, è, da un lato, base e nucleo essenziale della società civile – cosa sulla quale non mi posso soffermare –, dall’altro scaturigine ed essenza di tutti i rapporti inerenti il c.d. diritto di famiglia e del diritto di famiglia in quanto tale, compreso quello successorio, magna pars del quale, peraltro, non avrebbe né senso, né struttura qualora si prescindesse dal matrimonio: cadrebbero, di fatto, quantomeno le norme inerenti i vincoli di affinità e coniugio.

Fino a questo punto la riflessione parrebbe deporre a favore della tesi di Gazzoni, tanto peculiare e per certi versi eccezionale, rispetto al novero degl’altri negozii giuridici, è il matrimonio e la sua causa. Una tale conclusione, tuttavia, risulterebbe fuorviante ed essa rischierebbe, come si dice, di provare troppo… Il problema, infatti, non è nella peculiarità e nella specialità della causa, quanto piuttosto nell’essere della causa stessa.

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Mi spiego.

Se si guardasse alla peculiarità e alle specificità della causa, non solo il matrimonio richiederebbe una categorizzazione a sé, ma probabilmente la richiederebbero magna pars dei negozii giuridici, compresi i contratti, e anzi, la stessa categoria del contratto dovrebbe revocarsi in dubbio, quantomeno per la sua onnicomprensività, ciascuno di questi avendo causa propria e proprie specificità, spesso diversissime e opposte rispetto ad altri. Per esempio i contratti che producono l’effetto traslativo di un diritto (la compra-vendita), recano una causa diametralmente opposta a quelli che viceversa istituiscono o costituiscono diritti di uso (la locazione); i contratti a titolo oneroso – altro esempio – stanno agli antipodi causali rispetto a quelli a titolo gratuito et coetera.

Ciò che mette capo alla questione, allora, non è il quomodo della causa, ma il suo an, vale a dire il principio di causalità che informa il negozio giuridico in quanto tale, il fatto, in altre parole, che esso abbia e persegua un “proprio scopo immanente, [… una] ragione e funzione economico-sociale”[13] – come scrive per esempio Trabucchi –, la quale sia informata a un principio di diritto e la quale sia giuridicamente giustificata, cioè – per riprendere la citazione codicistica di prima – “meritevole di tutela” perché e in quanto «apprezzata e apprezzabile» dal diritto (che, per i positivisti, si riduce alle rationes dell’Ordinamento).

E il principio di causalità, vale a dire il principio secondo il quale il negozio giuridico, per essere tale, ha una “ragione e funzione economico-sociale”, reca seco e impone la sua stessa obiettivazione, cioè la sua valutazione e sussistenza sul piano dell’obiettività giuridica: la causa, infatti, – riprendo ancora la lezione di Trabucchi – “non si deve confondere con lo scopo individuale, con l’impulso che induce il soggetto al negozio, cioè con il motivo”[14]. E invero… la causa è interna al negozio, il motivo esterno. Altra, cioè, è la funzione economico-sociale del contratto, quindi del negozio, col quale, per esempio, Primus acquista da Secundus il diritto di proprietà su un bene, cosa che invera la causa del loro contratto di compra-vendita, e altre sono le ragioni che muovono Primus all’acquisto e Secundus alla vendita. Di queste ragioni intime, per così dire, il diritto non si interessa… e non si interessa –si badi – non in virtù d’una scelta ideologica, quanto piuttosto perché esse non sono giuridiche, mai; non sono obiettive, mai; non sono obiettivabili; mai. Esse possono attendere ad aspetti sentimentali – si può comperare qualche cosa, per esempio, perché essa ricorda la memoria di un lontano parente –; a necessità economiche – si può vendere un bene per recuperare denari che mancano –; a valutazioni d’opportunità; a scelte che investono la spera degli affetti o altro. I motivi non si contano e – mi sia permessa una battuta – per questo non contano.

Concluderei sul punto chiosando che il diritto investe, regola, disciplina l’obiettività del rapporto intersubiettivo, lasciando alle arti belle, alla psicologia, all’introspezione di indagarne, celebrarne, valutarne gl’aspetti soggettivi e intimi.

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Se le considerazioni svolte finora risultino di una qualche chiarezza e utilità, i presupposti di quanto andrò a osservare dovrebbero essere già apparecchiati, onde non sarà difficile trarne le conseguenze.

Entro subito in medias res con una domanda secca e… politicamente scorretta, come oggi si tenderebbe a dire: quale è la causa del matrimonio? Cioè a dire, quale è la ragione e la funzione economico-sociale intrinseca al negozio giuridico costitutivo della famiglia?

La risposta potrebbe occupare un’intiera biblioteca e, probabilmente, vi sarebbe ancora qualche obiezione da confutarsi e qualche aspetto da indagarsi. Con questa consapevolezza vado al «dunque» e tautologicamente – ma la tautologia è in questo caso consapevole – affermo che causa del matrimonio, cioè, sua funzione economico-sociale è… la costituzione del nucleo familiare, della comunità familiare, la quale come già Cicerone per esempio osservò, è “seminarium reipublicae[15].

Credo che nessuno abbia a obbiettarmi qualche cosa in merito a questa risposta: chiunque parli di matrimonio, ne parla come atto costituivo della famiglia; chiunque lo rivendichi come diritto, lo rivendica per costituire la «sua» famiglia, cioè per averne la copertura e un riconoscimento sul piano del diritto. Diversamente non avrebbe senso la discussione, la rivendicazione et coetera.

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Ecco il punto: la copertura giuridica, cioè il riconoscimento lato sensu inteso da parte dell’Ordinamento!  E qui occorre distinguere diversi profili.

In primo luogo la questione in parola è, in un tempo, di diritto positivo e di diritto naturale, anche se le ragioni che la fondano sono molto diverse.

Quale questione di diritto naturale essa investe il profilo dello ius quia iustum, o meglio dello iustum ergo iussum, vale a dire che essa investe il profilo della positivizzazione del diritto naturale, della sua vigenza, della sua «fruibilità» legale, istituzionale, amministrativa, come diritto che la persona ha in quanto persona e che l’Ordinamento positivo violerebbe, anche solo omettendone la giusta previsione e disciplina. Non può dirsi in se giuridico, per esempio, un Ordinamento il quale non consideri e non contempli la disciplina del (vero) matrimonio, ciò negando il diritto che le persone hanno – coeteris paribus – di contrarlo. Lo stesso discorso può farsi anche per altri diritti, per esempio la proprietà, ma non è il caso di soffermarvisi perché si appesantirebbe troppo la trattazione.

Sotto il rispetto del diritto positivo, invece, la questione si pone pur sempre, ma si pone in termini  assai diversi e forse opposti, quasi a svuotarsi di significato: l’Ordinamento positivo, infatti, qui è sempre e necessariamente «giuridico» perché esso è fonte in sé e per sé del proprio «diritto», e, in realtà, di tutto il «diritto». Dunque l’Ordinamento positivo non riconosce e non può riconoscere diritti o situazioni giuridiche, fattispecie legali, che non promanino da sé, che gli siano imposti sotto pena di una qualche violazione et similia. Ciò significa che l’an e il quomodo della disciplina del matrimonio, come per qualsiasi altra fattispecie legale, sono e restano rimessi alla sola legge positiva. In un contesto lato sensu positivistico, pertanto, il problema del diritto di e al matrimonio, quale diritto di e alla costituzione della famiglia, come anche il problema del proprium legale di questa, solo possono porsi, eventualmente, sotto il profilo della coerenza interna, dei combinati disposti tra norme, del rispetto, da parte delle cc.dd. fonti di rango inferiore delle disposizioni contenute in quelle di rango superiore et similia. Il problema, cioè, ammesso che sussista come tale, è e resta «interno» all’Ordinamento e ne involge piuttosto l’operatività che i costitutivi.

Ciò vuole dire che nell’ordine del positivismo giuridico, nell’ordine cioè della c.d. teoria delle fonti normative, il tema che si pone nel caso in istudio relativo alla copertura giuridica – come ho prima detto – è tuttalpiù quello inerente la c.d. dinamica del diritto e dell’Ordinamento, vale a dire la sua struttura necessariamente aperta e in fieri. Aperta a sé stessa, ovviamente…[16], vale a dire aperta allo sviluppo delle sue proprie rationes. Se si vuole il tema è quello relativo ai processi interni all’Ordinamento e funzionali alla sua modifica e alla sua riforma.

Quello della costante evoluzione dell’Ordinamento verso il compimento più pieno di sé stesso, e dell’introduzione di fattispecie sempre nuove che meglio ne applichino le rationes, è pertanto un tema prettamente positivistico e moderno, il quale è andato accentuandosi, infondo, con il costituzionalismo e con le sue varie declinazioni.

Per i profili che rilevano in questa sede, infatti, la disciplina positivistica del matrimonio e della famiglia, dovendosi essa ricavare dalle sole normae positae, e da queste dipendendo, solamente può formare oggetto di riforma e/o di modifica nella direzione di una maggiore e migliore coerenza di questa a ciò che l’Ordinamento assume ex se come fine e principio. Infatti – come ha osservato per esempio Santi Romano – lo Stato può “prefiggersi qualsiasi fine, ma non c’è nessun fine che [… esso debba] necessariamente prefiggersi”[17]. Dunque il problema della copertura giuridica cui prima cennavo, se in un contesto giusnaturalistico esso è capitale e fondativo perché attiene al riconoscimento di un diritto oggettivo e naturale, in un contesto positivistico, di fonti del diritto, esso può solo porsi sotto l’angolo di una maggiore o minore coerenza delle norme rispetto ai loro postulati lato sensu costituzionali, ai fini – come direbbe Santi Romano – che l’Ordinamento medesimo si dà e si prefigge.

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In un contesto giusnaturalistico, al contrario, la dimensione del “diritto naturale vigente”[18] – come lo chiama Cotta, per esempio – è la dimensione ordinaria e normale, essa è la condizione stessa dell’Ordinamento come Ordinamento giuridico, cioè come Ordinamento ordinato secondo il principio del giure. I problemi di politica del diritto inerenti al c.d. giusto legale[19], questioni che effettivamente possono essere de iure condendo, concernono l’adeguamento dei varii principii di diritto naturale alle circostanze attuali, da considerarsi sotto varii profili (economico, culturale, sociale et coetera), non già l’introduzione di cc.dd. nuovi diritti o l’abrogazione di vecchi. Il diritto classicamente inteso, infatti – come ho cercato altrove di dimostrare[20] – non conosce e anzi rifiuta le categorie della novità e della vetustà: vero è che il diritto non è né vecchio, né nuovo. Esso, se è diritto in sé, è giusto in quanto partecipativo dell’idea di giustizia, viceversa esso è iniuria. Può essere riconosciuto e applicato, o meno, questo è vero; può subire «modulazioni» specifiche sotto il profilo che prima ho chiamato del giusto legale, con espressione mutuata da Aristotele, anche vero, ma esso non può essere mai prodotto ex nihilo, mai creato per soddisfare determinati desiderii, mai adoperato per trasformare il desiderio stesso in facoltà esercitabile sotto l’egida dell’Ordinamento. E siccome non è né prodotto, né producibile, esso non è mai nuovo, non è mai vecchio e – se mi è concessa la battuta – non passa di moda e non scade mai…

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            Il tema della copertura giuridica del matrimonio, cioè il suo riconoscimento lato sensu inteso da parte dell’Ordinamento, e la sua disciplina legale, pertanto, come anche il connesso tema della «fisionomia normativa» della famiglia, hanno senso di essere posti, quali autentici problemi fondativi, solo nell’ambito di un approccio giusnaturalistico, dove il termine ultimo di analisi non sia la c.d. fonte del diritto variamente vigente, ma la giustizia sostanziale.

Quando i temi in parola si pongono in contesti positivistici, viceversa, essi si pongono, o sotto l’angolo teorico della loro analisi, rectius sotto l’angolo teorico dell’analisi delle norme che li concernono, o – ed è questo il punto che qui maggiormente rileva – come pretese o istanze di coerenza, di adeguamento dello ius positum alle opzioni e ai fini che l’Ordinamento ha fatti proprii in sede di cc.dd. norme fondamentali, costituzionali, primarie et similia. E per inciso è da dirsi che qualora le rivendicazioni in parola fossero invece estranee ai fini e alle opzioni de quibus, esse, da un lato non avrebbero nessuna «dignità» e nessun rilievo «tecnico» sul piano della stessa normazione (ordinaria), a ciò ostando proprio la chiusura dell’Ordinamento cui prima cennavasi, e dall’altro esse uscirebbero dalla dimensione del legale, del costituito, propriamente detto, per accedere a quella del politico lato sensu inteso, e meglio dovrei dire del costituente, cui infatti compete(-rebbe) di definire le rationes dell’Ordinamento[21] in quanto sistema geometrico.

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Il tema della famiglia e del matrimonio, allora, mette capo a una questione di non secondario interesse: vero è che esso non involge solamente gli aspetti legati alla libertà nei e dei rapporti intersubiettivi, per la quale non occorre né famiglia, né matrimonio, bastando l’eventuale abrogazione delle norme, in ispecie penali, che vietassero alcune condotte di vita e alcune tipologie di rapporti. No! Il tema della famiglia e del matrimonio è, come dicevo prima, politico e di politica del diritto, oltrecché giuridico, ovviamente, in quanto esso invoca una copertura istituzionale e, per così dire, una istituzionalizzazione da parte dello stesso Ordinamento positivo.

Il tema della famiglia, quindi, va ben oltre quello della libertà di, ed esso pone quello che ho prima chiamato della istituzionalizzazione, cioè della giuridicizzazione; invero – come magistralmente scrisse Dario Composta – “il consenso [… degli sposi, che è essenziale per aversi il negozio giuridico, e dunque per aversi il compendio di obbligazioni che deriva], non fa parte degli scopi personalistici, ma ha come oggetto l’istituzione: esso ha quindi valore pubblico oggettivo”[22].

Come a dire che il vincolo coniugale trascende la struttura del rapporto fra marito e moglie, fra gli sposi, e dà vita all’istituzione familiare, la quale attrae alla sfera politica e sociale, il negozio di diritto privato che pur la costituisce. Il matrimonio, infatti, costituisce e regola il rapporto fra gli sposi e ne istituisce la famiglia, onde hanno a derivare conseguenza sul piano giuridico, sul piano politico, sul piano sociale, le quali escono dalla sfera della soggettività e intimità del marito e della moglie.

Per esempio, l’istituzione della famiglia dà luogo ai varii rapporti di parentela e affinità che ne conseguono; qualifica(-va?) il rapporto di figliazione come legittimo; fa conseguire determinati effetti sul piano successorio; consente o preclude, a seconda dei casi, l’accesso a specifici regimi fiscali e patrimoniali; è condizione per accedere a precipue figure previdenziali; importa determinate discipline inerenti i registri dello stato civile; è presupposto per alcune fattispecie di reato (l’art. 564 c.p. in materia di incesto, per esempio, dà rilievo anche al rapporto di affinità che, come è noto, non è «di sangue») o, al contrario, ne impedisce la sussunzione (l’art. 649 c.p., in materia di non punibilità, nemmeno a querela, per i reati contro il patrimonio, manda esenti da pena anche gli “affini in linea retta”, sub num. 2) co. I); assume rilievo in sede processuale rispetto all’assunzione dell’ufficio di testimonio (ex art. 199 c.p.p. il quale parla di “prossimi congiunti”, tra i quali, a mente dell’art. 307 c.p. vi rientrano anche “gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti”) et coetera.

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Ovviamente l’stanza di istituzionalizzazione o giuridicizzazione (rectius, legalizzazione) può avere per oggetto diritti, diritti propriamente detti, diritti della persona, come è quello di costituire col matrimonio la famiglia naturale, o pretese infondate, finanche l’iniquità. Ed è ovvio che l’Ordinamento positivisticamente inteso possa legalizzare e «riconoscere» tanto lo ius, quanto l’iniuria: esso è sovrano per definizione e per assunzione a priori.

La questione, però, non può essere così semplicisticamente risolta: Roma locuta, causa finita. Occorre problematizzarla. L’introduzione nel sistema dello ius positum di norme inique non è infatti indifferente nemmeno a fini cc.dd. pratici e la regolamentazione positiva degli istituti, anche di quelli che l’Ordinamento pretende di creare ex nihilo, impone un certo ordine di logica, una certa coerenza almeno teorica, sotto pena di dare luogo a una eterogenesi dei fini difficilmente gestibile anche sul piano operativo e foriera di contraddizioni insanabili, pertanto… foriera della dissoluzione dello stesso Sistema.

Vediamo d’intenderci con alcune note conclusive.

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Qui allora si mette a tema la questione delle questioni, e infondo l’ubi consistam di tutto il discorso: che cosa è la famiglia? Il che vale quanto domandarsi: quale è la causa in senso proprio del matrimonio che la costituisce e istituisce?

Ritorna il problema della causa, cui in principio ho dedicato qualche rigo e con una certa ragione espositiva.

A questo punto sarebbe da dividersi la definizione metafisica, da quella legalistica; veritativa e fondativa la prima, meramente teorica la seconda. La prima, infatti, fa assegnamento sulla natura stessa della famiglia, sulla sua oggettività, sull’ordine che le è innato e connaturale. A questo riguardo soccorre, per esempio, la nota e chiarissima sintesi di Modestino che affera “nuptiae sunt coniunctio maris et feminae, consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio[23], onde la causa del matrimonio, e il senso della famiglia, starebbero nella costituzione di un’unione naturalmente aperta alla procreazione, dunque, necessariamente tra un uomo e una donna; caratterizzata dalla stabilità e dalla indissolubilità del vincolo, perché diversamente non si distinguerebbe dal fidanzamento o da relazioni estemporanee, né potrebbe, sovrattutto, assolvere alle funzioni sue proprie; nonché dall’ordine giuridico che ne informa i rapporti, vale a dire dalla regola oggettiva che promana dalla sua stessa natura. Ovviamente in Modestino c’è anche il riferimento, non fideistico ma metafisico, come direbbe Bontadini, allo ius divinum, ma ometto volutamente di trattarne, poiché dovrei svolgere un’analisi e una riflessione che in questa sede non sono opportune.

Mantenendo, però, il discorso su questa linea – la quale è l’unica capace di fondarlo veramente, come molte volte oramai ho avuto modo di dire e di dimostrare – il discorso stesso risulterebbe vieppiù «incomprensibile» presso i positivisti, dunque esso verrebbe meno all’opportunità di instaurarne un dialogo e un confronto innanzitutto sul piano tecnico, a ciò ostandovi una certa preclusione ideologica del positivismo stesso, «ossessione» del quale – come è noto – è il riferimento normativo testuale, la fonte vigente, non certo la metafisica. Rimanendo «fermi» al discorso sul diritto naturale, tuttavia – discorso che ribadisco essere essenziale e prioritario – nemmeno si potrebbero far emergere, almeno immediatamente, problemi i quali sussistono già sul piano della teoria del Sistema positivo, che infatti va esaminato criticamente. In particolare il discorso che ne pretermetta l’analisi, a causa della deficienza fondativa, non consentirebbe per esempio di comprendere in virtù di quali ragioni il c.d. matrimonio omosessuale, come anche, mutatis mutandis, le cc.dd. unioni civili sub L.76/2016 (c.d. Legge Cirinnà), rappresentino una stortura logica e una contraddizione anche all’interno dell’Ordinamento positivo che li ha «accolti» sotto l’egida dei cc.dd. nuovi diritti, positivisticamente letto e alla luce di una seria analisi della c.d. teoria generale.

Credo allora che possa risultare di una certa utilità ed efficacia il tema della causa, cui supra ho fatto cenno indugiando sul contratto, sull’atto e sul negozio: essa, infatti, connota l’obiettività del negozio giuridico rispetto alla sua funzione; dà conto della ragione in virtù della quale il negozio medesimo è meritevole di copertura e di disciplina giuridica; ne è l’anima. Bianca, per esempio, pur con riguardo al contratto, ma possiamo qui estendere l’osservazione, rileva che “ il riferimento alla causa impone di intendere l’atto di autonomia privata nella sua realtà di strumento di finalità pratiche e di valutarlo giuridicamente tenendo conto di tale realtà. La causa [infatti] costituisce fondamento della rilevanza giuridica”[24].

Il matrimonio propriamente detto, per esempio, ha causa nella costituzione della famiglia, vale a dire nella costituzione del nucleo essenziale e primario della società e della comunità politica, ove solo è possibile un’apertura alla procreazione, al mantenimento e all’educazione ordinata della prole da parte dei genitori. Danilo Castellano, per esempio, ha giustamente osservato, a questo proposito, che la causa del matrimonio, quale atto costitutivo della famiglia, “è rappresentata dalla procreazione ed educazione dei figli […], la quale richiede una diuturna oblazione dei coniugi non solo per ‹conservare› le ‹proprie› creature, ma anche per aiutarle a divenire quello che esse sono per natura”[25]. Non solo: la famiglia è anche la «coppia», ciò l’unione di due parti, il marito e la moglie, che rispetto alla loro famiglia si completano a vicenda nella costituzione di un’entità, la quale, sotto un certo profilo, le assorbe pur nel rispetto delle rispettive individualità (una caro si direbbe con riferimento teologico). La famiglia, infatti, non è solo coppia, ma “è una comunità. Molto di più, dunque, di una semplice società”[26], dove è il solo accordo a determinarne gl’elementi costitutivi, e dove il pactum può avere qualunque contenuto, anche immorale, anche criminale (in Dottrina penalistica si parla(va) di pactum sceleris, per esempio), anche eversivo et coetera. La famiglia naturale, ancora, innerva i cc.dd. legami di sangue che vincolano naturaliter le persone che si identificano rispetto a capi e stirpi comuni; essa soccorre – come scrive Aristotele – ai bisogni quotidiani; è rimedio alla concupiscenza, come insegna(va) la Dottrina cattolica, in quanto aiuta i coniugi a un contegno ordinato e all’ordinata direzione dei naturali impulsi, et coetera.

Come si nota – ma mi sono limitato a un’esemplificazione[27] – ciò che cementa la causa del vincolo e del rapporto matrimoniale è rappresentato dalla sua oggettività, estraneo essendo ogni e qualunque riferimento alla dimensione sentimentale. E anche scorrendo l’articolato del Codice civile dedicato al matrimonio: “condizioni necessarie per contrarre matrimonio” (artt. 84 e ss. c.c.); “nullità del matrimonio” (artt. 117 e ss. c.c.); “scioglimento del matrimonio e […] separazione dei coniugi” (artt. 149 e ss. c.c.), et coetera, nessun riferimento è fatto al sentimento o ai sentimenti.

Intendiamoci: non nego che il sentimento sia, possa essere impulso e motore al e del matrimonio, anzi, ritengo sia auspicabile questo. Dico, però, che esso non rientra, in quanto sentimento, emotività, πάϑος, fra i suoi costituivi causali, tecnicamente considerando sub specie iuris il negozio, l’atto e il rapporto matrimoniale. Di talché il matrimonio è valido ed efficace, anche se il sentimento manchi, o anche se al posto dei sentimenti, o del sentimento, si ponessero calcoli economici, interessi familiari, valutazioni di opportunità sociale, la stessa ragion di Stato che molto spesso ha «imposti» marimonii fra esponenti di Case reali et coetera. Posto l’atto di libera determinazione dei nubendi, cioè posta la loro scelta incoercibile di convolare a nozze, come si dice, e dati i presupposti oggettivi che sono esigiti dall’atto, la validità dell’atto e del rapporto che ne consegue, così come le obbligazioni che ne derivano, non dipendono mai dal sentimento reciproco del marito e della moglie, il sentimento e i sentimenti, infatti, come la loro surrogazione con calcoli di altro tipo, restano necessariamente relegati nell’ambito dei cc.dd. motivi, cioè dei moventi personali e soggettivi che appunto muovono la persona a compiere un atto giuridicamente valido (legalmente valido, per i positivisti) e foriero di giuridiche conseguenze, senza entrare nella sua dinamica. Invero – lo osservò anche il compianto Francesco D’Agostino – “il diritto non può fondarsi sui sentimenti (né in particolare sull’amore-sentimento): questi vincolano le persone solo come individui irrelati, solo nelle loro coscienze e possiedono un’esclusiva dimensione psicologica”[28].

Non si tratta di concludere  che “il diritto ha difficoltà a regolamentare i c.d. fatti di sentimento […] perché le vicende che coinvolgono sentimenti […] sono per loro natura ambigue ed oscure, in particolare per quel che riguarda i fatti d’amore”[29], anche se è pur vero che i sentimenti siano oscuri, come oscuro è, infondo, l’animo umano – “in interiore homine habitat veritas[30], diceva sant’Agostino –, no, non si tratta solo di questo, si tratta di riconoscere che il diritto opera sul piano della più schietta obiettività, onde, nell’ambito dei negozii giuridici, ciò che è obiettivo e obiettivabile è la causa e non il motivo.

L’osservazione può parere sterile e inutilmente polemica, ma così non è. Chiedendosi, infatti, su quali basi causali facciano assegnamento e abbiano fondamento i cc.dd. matrimonii omosessuali o le cc.dd. unioni civili, o altre consimili fattispecie, tosto si osserverà il sostanziale deserto, cioè il deserto sul piano dell’oggettività: ciò che sta alla loro base, infatti, è il solo desiderio emozionale, affettivo, passionale di condividere alcuni aspetti della vita e alcune esperienze... Tecnicamente parlando non vi alcuna causa, cioè alcuna “ragione e funzione economico-sociale”[31] meritevole di tutela, non potendosi predicare, per siffatte forme di accordo intersubiettivo, i caratteri proprii del matrimonio e della famiglia, a ciò ostando o la genetica, costitutiva, inidoneità procreativa che li caratterizza – il riferimento, in questo caso, è ai cc.dd. matrimonii omosessuali –, o per il rifiuto opposto dagli interessati alla natura istituzionale della comunità familiare, con annessi e connessi – il riferimento qui è alle cc.dd. unioni civili eterosessuali –.

Due ultimi rilievi.

In primis si opporrà – legalisticamente – che la predicata assenza di causa, per difetto di meritevolezza del fine perseguito dagli «accordi» in parola, supra invocata a detrimento della loro «giuridicità», è essa erronea in quanto la meritevolezza della loro tutela e della loro disciplina ordinamentale, quindi la loro causa in senso tecnico, sarebbe attestata dalla stessa vigenza della norma che li introduce. Ciò che l’Ordinamento prevede e disciplina, infatti, per ciò solo persegue un fine “meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico”[32]. Il discorso, però, se pur può risultare «avvocatescamente» utile per chi non sia avvezzo nemmeno alla teoria dell’Ordinamento, prova troppo e non dà affatto conto di una risposta alla questione. Il problema della causa e della meritevolezza di tutela, infatti, non è legalistico nemmeno per i positivisti più puri, i quali infatti chiamano in causa la “ragione e funzione economico-sociale” del negozio, ragione e funzione che la legge non crea, ma considera, coglie, individua. Di talché è vero – certamente – che lex imperat, non docet e che pertanto la previsione legale delle fattispecie in parola le rende… pleonasticamente e tautologicamente legali quoad effectum. La loro legalità, però, non colma la loro stessa, intrinseca, deficienza causale: non dice quale sia la loro effettiva e concreta funzione oggettiva. Ridurre, infatti, il problema della causa all’individuazione nell’Ordinamento positivo di un plesso di norme le quali legalizzino una data fattispecie negoziale, significa attestarne la deficienza in modo assai conclamato o, che poi è lo stesso, significa dire che la causa è nella sola previsione di legge, cosa del tutto singolare, in quanto se fosse la legge a determinare le cause dei negozii, non si spiegherebbe l’apertura dell’Ordinamento a negozi atipici i quali realizzino… interessi meritevoli di tutela non legalizzati.

In secundis si opporrà che alla luce dell’esame svolto l’Ordinamento giuridico italiano, per esempio, non consente e non prevede il matrimonio stricto sensu inteso secondo il suo ordine naturale, non foss’altro che per la previsione del c.d. divorzio. Il rilievo sarebbe vero e miope in un tempo. Vero, perché effettivamente “non sono matrimoni le unioni temporanee (i cosiddetti matrimoni civili in ordinamento giuridici che prevedono il divorzio)”[33], onde chi volesse contrarre il matrimonio civile, oggi, nell’Ordinamento vigente in Italia (e nella quasi totalità degli Stati) non potrebbe farlo; cioè… potrebbe «sposarsi» e non divorziare, ma egli non sarebbe obbligato e non potrebbe legalmente obbligarsi a e da un vincolo indissolubile. Il fatto di non divorziare sarebbe eventualmente conseguente a un’opzione, come quella di unirsi in matrimonio, anche se opposta per direzione teleologica. Peraltro il divorzio può essere sia concordato, sia subito, cioè uno dei due coniugi può subire la decisione dell’altro di sciogliere il vincolo che li unisce nella loro famiglia e così di distruggerla; onde vi è un ulteriore aspetto di criticità che impedisce di parlare, propriamente, sia di diritto al matrimonio e di diritto matrimoniale, sia… – coup de théâtre di autodeterminazione familiare, poiché, se nel caso del divorzio uno si autodetermina in un senso e uno nell’altro, uno soccombe e l’altro prevale. Ovviamente prevale colui il quale invochi ed eserciti il c.d. diritto al divorzio. Il rilievo è però anche miope perché esso non vede un aspetto assai singolare che pur caratterizza questi nuovi diritti di famiglia, rectius questi nuovi diritti alla famiglia, alla libertà di farsi la famiglia come, quando e per quanto tempo si vuole. Questi «nuovi diritti», infatti, non aprono a qualsiasi progetto familiare le persone, liberamente e consapevolmente, desiderino o possano desiderare per sé stesse. Aprono solo ad alcuni. Per esempio le relazioni incestuose e quelle poligamiche, anche  fra consenzienti, nell’ambito delle quali le persone medesime potrebbero pur desiderare di affermare le proprie affettività e i proprii sentimenti, non solo restano escluse, ma addirittura vengono perseguite penalmente (almeno in Italia).

Con il prossimo contributo entrerò nel merito della seconda parte, relativa al tema della genitorialità.

 

[1] La Stampa, 16 febbraio 2024, in https://www.lastampa.it/esteri/2024/02/16/news/grecia_matrimonio_gay-14074819/.

[2] Elle, 16 febbraio 2024, in https://www.elle.com/it/magazine/women-in-society/a46811106/grecia-matrimoni-adozioni-gay/.

[3] A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, (a cura di G. Trabucchi), Padova, C.E.D.A.M., 200542, p. 346.

[4] M. Ayuso Torres, L’Àgora e la piramide. Una “lettura” problematica della Costituzione spagnola, Torino, Giappichelli, 2004, p. 63.

[5] A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, (a cura di G. Trabucchi), cit., pp. 346 e s..

[6] A. Torrente – P. Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 200417, p. 79

[7] Ivi, pp. 476 e s..

[8] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 200713,pp. 335 e s..

[9] A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, cit., p. 99.

[10] F. Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit.,p. 336.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, cit., p. 134.

[14] Ibidem.

[15] M. T. Cicerone, De officiis, 1, 27.

[16] Solo richiamo l’apertura della fattispecie sub art. 2 cost., che è sì apertura della disposizione normativa, ma… nei limiti della chiusura dell’Ordinamento in sé stesso. Per esempio Livio Paladin afferma – coerentemente rispetto alla sua impostazione kelseniana e coerentemente rispetto al testo della Costituzione – che “è […] ai sensi dell’ordinamento giuridico italiano che si deve stabilire in che cosa consistano i vari diritti inviolabili e quali siano […] le corrispettive garanzie […] il che comporta […] che i diritti stessi ‹si risolvono integralmente nel diritto positivo› […]. Solo in questi termini, del resto, si spiega che la sovranità venga bensì conferita al popolo […] ma ‹nelle forme e nei limiti della Costituzione›; sicché rimane esclusa […] l’immediata applicabilità […] dei ‹precetti di diritto naturale›” (L. Paladin, Diritto costituzionale, Padova, C.E.D.A.M., 19983, pp. 76 e ss.).

[17] S. Romano, Principî di diritto costituzionale generale, Milano, Giuffrè, 1945, p. 112.

[18] S. Cotta, Giustificazione e obbligatorietà delle norme, Milano, Giuffrè, 1981, pp. 130 e s. L’Autore, peraltro, opportunamente precisa che “il diritto positivo, quando sia giuridico in senso proprio (ossia obbligatorio per la giustificazione della sua deonticità) è diritto naturale. Privo, invece, di codesta naturalità, il ‹diritto› positivo rimane magis iniquitas quam lex […] perciò […] tutto il diritto è naturale […] oppure non è diritto” (Ivi, p. 131).

[19] Invero “del giusto in senso politico […] ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che ha ovunque la stessa validità […]; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma non è indifferente una volta che sia stato stabilito” (Aristotele, Etica nicomachea, (trad. e cura di C. Mazzarelli) Milano, Bombiani, 20075, p. 209, V, 7, 1134 b).

[20] Cfr. R. Di Marco, Diritto e “nuovi” diritti. L’ordine del diritto e il problema del suo fondamento attraverso la lettura di alcune questioni biogiuridiche, Torino, Giappichelli, 2021.

[21] Questo discorso, però – certamente interessante – in questa sede non può affrontarsi, anche perché, per esempio esso imporrebbe di considerare che nella Repubblica italiana il c.d. potere costituito del Parlamento, sia pure in esito a procedure rafforzate e attraverso maggioranze ultra-qualificate, può, per norma, modificare, abrogare, riformare anche quanto stabilito in sede costituzionale. Valga, per tutti, il riferimento all’art. 138 cost., e la cosa andrebbe problematizzata.

[22] D. Composta, La famiglia nella tempesta, Roma, Pontificia Università Urbaniana, 1987, p. 42.

[23] D. 23, 2, 1.

[24] C. M. Bianca, Diritto civile. Il contratto, Milano, Giuffrè, 20002, 3, p. 448.

[25] D. Castellano -  D. Mattiussi, Matrimonio, famiglia, sinodo sulla famiglia, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019, p. 26.

[26] Ivi, p. 28.

[27] Faccio rinvio, per una trattazione di maggiore dettaglio, all’Opera appena citata di Castellano e Mattiussi.

[28] F. D’Agostino, Famiglia, matrimonio, sessualità. Nuovi temi e nuovi problemi, Roma, Pagine, 2016, p. 24.

[29] F. Gazzoni, Amore e diritto ovverosia i diritti dell’amore, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1994, p. 3.

[30] Sant’Agostino d’Ippona, De vera religione, 39, 78.

[31] A. Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, cit., p. 134.

[32] Ivi, p. 99.

[33] D. Castellano -  D. Mattiussi, Matrimonio, famiglia, sinodo sulla famiglia, cit., p. 57.