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Lavoro: quando l’intervento dello Stato nelle procedure di licenziamento collettivo è legittimo ai sensi del diritto europeo: il caso della Grecia

licenziamento collettivo
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Lavoro: quando l’intervento dello Stato nelle procedure di licenziamento collettivo è legittimo ai sensi del diritto europeo: il caso della Grecia

Abstract: Sia a livello nazionale che a livello europeo, è sempre più evidente la necessità di regolamentare in modo compiuto l’istituto dei licenziamenti collettivi.

In materia entrano in gioco interessi contrapposti, che da un lato si sostanziano nella libertà di concorrenza e conseguentemente di iniziativa economica privata - che consiste nella possibilità del datore di lavoro di scegliere liberamente come organizzare l’azienda in modo da ottenere profitti- e dall’altro lato la tutela dell’occupazione dei singoli lavoratori e interessi di natura pubblica, per evitare la disgregazione del tessuto economico e sociale dello Stato.

In questo contesto, se l’Unione Europea è nata per motivi di carattere essenzialmente economico, tra cui anche la libertà di circolazione del capitale, le direttive emanate nel corso degli anni sono state rivolte ad una maggiore attenzione nei riguardi del fenomeno dei licenziamenti collettivi, nell’ottica di una maggiore procedimentalizzazione della scelta del datore di lavoro e di rafforzamento del ruolo delle rappresentanze sindacali. La stessa Corte di Giustizia svariate volte si è trovata ad operare un bilanciamento di interessi valutando la possibilità di individuare dei limiti alla libertà di iniziativa economica privata. 

La Corte di Giustizia, con sentenza C-201/15 del 21 dicembre 2016, si è occupata della disciplina greca in materia di licenziamenti collettivi. In assenza di accordo sindacale, questa prevedeva che l'autorità pubblica avrebbe potuto negare l'autorizzazione agli esuberi aziendali, a seconda delle condizioni interne al mercato del lavoro, la situazione dell'impresa e l'interesse dell'economia nazionale. La situazione della Grecia risultava peculiare: a causa del rischio di default aveva presentato domanda di sostegno alla stabilità sotto forma di prestito pubblico e si era impegnata ad intraprendere seri percorsi di riforma, anche nel campo dei licenziamenti collettivi, secondo tempi e modalità convenuti con le istituzioni sovranazionali.

Nel caso di specie, il Ministro del Lavoro, della Previdenza sociale e della Solidarietà sociale era stato convenuto in giudizio dall'AGET Iraklis, un'impresa produttrice di cemento che si estendeva in tre stabilimenti ellenici, afferente al gruppo multinazionale francese LefargeHolcim, nel settore dei materiali da costruzione.

La chiusura di uno stabilimento da parte dell'azienda era stata contrastata dalla mancata autorizzazione del licenziamento collettivo dei 236 lavoratori impiegati da parte del Ministero del Lavoro, in base all'art. 5, par. 3, della legge greca n.1387/1983. Tale legge prevedeva, infatti, in mancanza di accordo sindacale, che il Ministro avrebbe potuto decidere in merito agli esuberi.

L'AGET Iraklis decise di fare ricorso per annullare tale provvedimento per violazione della direttiva 98/59/CEE, ma anche degli artt. 49 e 63 Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE) e 16 della Carta dei diritti fondamentali.

L'art. 49 TFUE sulla libertà di stabilimento potrebbe ostare a misure nazionali restrittive dell'accesso al mercato per le imprese di altri Stati Membri. Per l'Avvocato Generale questo principio si sarebbe dovuto applicare oltre che per la realizzazione anche per il ridimensionamento degli stabilimenti affinché fosse assicurata la libertà non solo di assumere ma anche di licenziare i dipendenti se un'impresa, insediata in uno Stato, decida poi di lasciarlo. Una normativa come quella greca, che sembrava atta a rendere meno attraente l'accesso al mercato greco e a ridurre o sopprimere la possibilità per gli operatori di altri Stati Membri di modulare la loro attività nel mercato, poteva essere quindi un ostacolo all'esercizio della libertà di stabilimento in Grecia[1].

Si deve dire, tuttavia, che identificare le norme che presiedono alla gestione dei rapporti di lavoro nei singoli Stati Membri con quelle relative alla libertà di stabilimento significa riconoscere la legittimità delle prime solamente entro gli stretti limiti imposti dal mercato unico, facendo dell'art.49 TFUE un'arma di destrutturazione dei sistemi nazionali di diritto del lavoro, e di armonizzazione verso il basso delle tutele dei lavoratori dell'Unione, con conseguenze sul modello sociale europeo[2]. Le conseguenze da un lato, sono una spinta nei confronti dei legislatori nazionali verso uno snellimento degli apparati di regolamentazione del mercato per attrarre investimenti esteri e, dall'altro, un nuovo ruolo dato al diritto secondario dell'Unione di una mera armonizzazione delle tutele dei lavoratori.

Il riferimento, inoltre, all'art. 16 della Carta di Nizza consente l'utilizzo anche del principio di proporzionalità nel valutare la normativa greca. La preoccupazione maggiore dei giudici era che, in assenza di precisazioni in merito a quando il potere pubblico poteva essere esercitato, i datori di lavoro non avrebbero saputo in quali circostanze oggettive e specifiche il potere suddetto fosse applicabile[3].

Trattandosi di un ostacolo a una libertà fondamentale, l'autorizzazione preventiva risulta ammissibile solo se applicata in modo non discriminatorio, se giustificata da ragioni di pubblico interesse, se adeguata e non eccessiva rispetto al raggiungimento degli scopi prefissi e l'Avvocato Generale osservava come, in linea di principio, la tutela dei lavoratori rientrasse tra i contro-limiti che possono bilanciare la libertà di impresa. Il criterio previsto dalla normativa greca, legato all'economia nazionale, però, sarebbe inammissibile dato che motivazioni meramente economiche non possono porsi come legittimi ostacoli alle libertà assicurate dai Trattati. Limitare i licenziamenti, inoltre, ha effetti positivi sull'occupazione solo superficialmente; infatti la protezione è solo temporanea fino a che l'impresa non diventa insolvente.

La Corte, in linea di principio, giudica conforme con la direttiva una normativa che limita i poteri del datore di lavoro di procedere ai licenziamenti collettivi se diretta a perseguire obiettivi di politica sociale, come la conservazione dell'occupazione e la tutela della stabilità[4].Quindi, la Corte non esclude la facoltà degli Stati Membri di introdurre un controllo sostanziale sulle ragioni del licenziamento, ma le modalità e il merito di tale controllo devono essere valutabili a posteriori e fondarsi su elementi non equivoci.

Importanza fondamentale assume anche il richiamo all'art. 9 TFUE che contiene la clausola sociale orizzontale per la quale l'Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, con la garanzia di un'adeguata protezione sociale e la lotta contro l'esclusione sociale e ciò permetterebbe interventi pubblici per garantire l'interesse generale e limitare l'esercizio dell'attività economica[5].

Le questioni prospettate dal giudice del rinvio, in primo luogo riguardavano la possibilità che una norma interna potesse condizionare i licenziamenti collettivi ad un'autorizzazione amministrativa e  nel caso in cui ciò non fosse stato possibile, se l'autorizzazione amministrativa avesse potuto condizionare i licenziamenti almeno qualora ci fossero state ragioni sociali serie, come una crisi economica e un tasso di disoccupazione particolarmente elevato[6].

La disciplina che prevede l'autorizzazione amministrativa prima di procedere al licenziamento collettivo non è ritenuta in sé contraria alla libertà di stabilimento o di impresa, ma lo sarebbe l'aver collegato l'autorizzazione alla sussistenza di criteri valutativi che non garantiscono un giusto equilibro tra la protezione dei lavoratori e la stessa libertà di impresa, essendo criteri vaghi e generici o anche evocativi di un presunto primato dell'economia nazionale rispetto alla dimensione economica europea[7]. Neanche l'esistenza di una grave crisi economica o di un alto tasso di disoccupazione giustificherebbe un'interpretazione differente.

La Corte di Giustizia, infatti, invoca il principio dell'“effetto utile” che osta ad un'armonizzazione solo parziale dei licenziamenti collettivi. Ogni norma deve, cioè, essere letta in modo tale da raggiungere in modo più efficace il proprio scopo principale[8].

Il fulcro della direttiva 98/59, infatti, rimane la procedimentalizzazione del potere imprenditoriale, in cui le esigenze di tutela sovranazionale del lavoro e del mercato interno trovano espressione, sintesi e bilanciamento. Sono i vincoli procedimentali nei confronti del datore di lavoro che rafforzano i diritti dei lavoratori e che armonizzano le discipline dei vari Stati Membri. Ed è rafforzata l'autonomia collettiva, strumento di equilibrio dei vari interessi in gioco. A questi elementi va ricondotta la valutazione relativa all'effetto utile.

La direttiva stessa dà all'autorità pubblica un ruolo autonomo, attivo, decisivo e vincolante nell'ambito della procedura dei licenziamenti collettivi. I vari Stati Membri o hanno considerato questo ruolo come assistenza alle parti nella ricerca di soluzioni condivise, come in Portogallo, o lo hanno interpretato come connesso alla realizzazione di un piano sociale, come in Francia. In Spagna diventa un vero e proprio controllo autorizzatorio, se sono licenziamenti per cause di forza maggiore.

Ma soprattutto in Olanda l'autorità pubblica ha poteri di controllo in merito a tutti i licenziamenti economici, con una valutazione penetrante di fondatezza dei recessi e correttezza delle procedure; il datore può vedersi negato il permesso in caso di mancato rispetto, ad esempio, del principio di extrema ratio.

In Grecia vi era il dubbio che il sistema di autorizzazione amministrativa avesse un impatto accettabile nella limitazione degli esuberi di personale. Il legislatore conferiva al Ministro un potere molto vincolistico, dandogli la possibilità di valutare la decisione del datore anche in riferimento al criterio dell'interesse dell'economia nazionale. Di fatto, si va oltre uno stretto controllo dell'operazione aziendale, funzionale al contemperamento dell'interesse del datore di ridimensionare l'attività produttiva, e del lavoratore e del sindacato di salvaguardare i livelli di occupazione e il reddito delle persone. Il soggetto pubblico, infatti, opererebbe valutazioni di tipo macroeconomico, di solito estranee a una verifica della legittimità delle scelte aziendali riconducibili alla libertà di impresa. E' stato ritenuto che la legislazione greca non abbia cercato invece, dall'altro lato, di incoraggiare o sviluppare un ruolo di intervento della pubblica autorità nei processi di ristrutturazione nella fase precedente all'approvazione o proibizione dei piani di licenziamento[9].

La legislazione greca faceva in modo che l'autorità pubblica si trovasse dinanzi a piani unilaterali dell'imprenditore, inadeguati per mancanza di interlocuzione con la controparte e dovesse negarne l'autorizzazione, dal momento che non possedeva poteri conciliativi e propositivi per ricercare soluzioni concordate.

La legge greca oggi è stata riscritta. La legge n.4472 del 2017, nell'art.17, elimina del tutto il potere amministrativo di veto sui licenziamenti collettivi. La riforma greca estende la durata delle consultazioni da venti a trenta giorni, e rimane affidato un ruolo centrale nella procedura al Consiglio Superiore del Lavoro, a cui deve essere notificato l'esito delle consultazioni e che può predisporre un piano sociale e ha, invece, conferito un compito di vigilanza al Dipartimento di controllo sui licenziamenti collettivi. Ora il Consiglio potrà solamente verificare l'effettivo adempimento degli obblighi informativi e consultivi ad opera del datore o prorogare al massimo la consultazione e individuare una nuova data per l'adempimento senza poter bloccare l'iniziativa imprenditoriale. Si ritiene, inoltre, che i licenziamenti possono comunque essere irrogati dopo i sessanta giorni dalla notifica del verbale di consultazione[10].

Il rapporto tra libertà di impresa e di stabilimento e la tutela dell'occupazione e dei lavoratori non risulta di semplice soluzione venendo in gioco interessi contrapposti.

La Corte di Giustizia, nella sentenza C-201/2015, affermava che dal lato dei principi la libertà di impresa non potesse essere considerata una prerogativa assoluta. Dal punto di vista dell’analisi della normativa greca rilevava, tuttavia, una violazione del principio di proporzionalità. Risulta, quindi, chiaro l’obiettivo perseguito dalla Corte: il bilanciamento tra finalità economiche e sociali. Nel caso di specie la Corte aveva valutato le modalità concrete caratterizzanti la fattispecie, considerando i criteri della “situazione dell’impresa” e “condizioni del mercato del lavoro” formulati in maniera imprecisa, ma senza escludere che in un caso diverso da quello greco avrebbe potuto prevalere la finalità sociale[11].

Un caso in parte simile a quello che ha interessato la disciplina greca potrebbe essere considerato il blocco dei licenziamenti nel periodo emergenziale del 2020, che ha comportato di fatto un limite alla scelta dei datori di lavoro di attuare licenziamenti collettivi. Se le ragioni alla base della normativa italiana sono diverse e giustificate da temporaneità, si può notare anche in questo caso un’effettiva ingerenza dello Stato nella libertà di concorrenza e di iniziativa economica privata. Nonostante ciò, la Corte di Giustizia non ha ritenuto il blocco contrastante con i principi europei – in particolare con il principio di proporzionalità[12] - ma ha ritenuto che la finalità di interesse generale fosse legittima ed inclusa nell’orizzonte dei Trattati[13].

La Corte di Giustizia, nel fare chiarezza, lascia aperte questioni che sono difficilmente risolvibili e che travalicano il caso di specie e la normativa greca. Infatti, è importante capire quanto lo Stato possa incidere sulla libertà di iniziativa economica privata, se nel campo del licenziamento collettivo, ma non solo, sia opportuno un suo ruolo più pregnante, soprattutto alla luce della delocalizzazione delle attività produttive anche in Paesi fuori dall'Unione Europea.

Il problema si estende allora a questioni di natura in parte differenti, ossia in che misura e con quali limiti il mercato possa essere effettivamente libero e quanto sia giusto intervenire per tutelare interessi ugualmente rilevanti, come l'occupazione e la dignità del soggetto, soprattutto in una materia come i licenziamenti collettivi che incidono sul tessuto sociale di uno Stato. Se da una parte, infatti, l'Unione Europea è nata con l'intento della liberalizzazione, della costituzione di un mercato unico europeo, dall'altro lato non si può prescindere da esigenze che sono sempre più evidenti, di riconoscere tutela a tutti i lavoratori che operano all'interno del mercato unico e garantire la tutela degli interessi pubblici generali. Il compromesso trovato sia dal diritto primario che secondario si scontra con i problemi applicativi che si riscontrano nel terreno fattuale: non sempre è semplice individuare il confine tra un'ingerenza legittima a garanzia di interessi super-individuali e quella che va a minare le basi delle libertà che sono state i pilastri della Comunità europea.

Dopo l’emanazione della sentenza 201/2015, la Corte di Giustizia non si è ancora trovata ad affrontare nuovamente la questione in maniera compiuta, ma si potrebbe evincere la possibilità che, laddove i criteri individuati dalle normative nazionali al fine di limitare la procedura di licenziamento da parte dell’autorità pubblica fossero precisi, un’autorizzazione preventiva ostativa alla prosecuzione della procedura possa essere contemplata. Se si analizzano, infatti, le discipline che si sono sviluppate in altri Stati Membri, il ruolo dell’autorità pubblica – in accordo anche alla previsione della direttiva 98/59/CEE – non è affatto marginale e, per ultimo, le considerazioni dei giudici europei in merito alla necessità di tutela dell’occupazione come possibile limite alla libertà di impresa lasciano immaginare che in presenza di una normativa nazionale chiara e precisa - che non violi il principio di proporzionalità - possa essere configurato in astratto un diniego all’avvio della procedura.

Note

[1]    Nei punti 56-57 della sentenza della Corte di Giustizia.

[2]    Campanella, Licenziamenti collettivi in Grecia al vaglio della Corte di Giustizia: quale modello sociale europeo? In LG, 2017, 8-9, 783.

[3]    Punto 100 della sentenza.

[4] Centamore, Una certa idea di capitalismo. Autorizzazione preventiva al licenziamento collettivo e diritto dell'Unione europea, in Labor, 2017,312.

[5] Ratti, Tutela del lavoro e libertà di impresa alla prova del diritto europeo in LG, 2017, 5,433.

[6]    Punto 25 della sentenza.

[7]     Punto 72 della sentenza.

[8]    Centamore, Una certa idea di capitalismo. Autorizzazione preventiva al licenziamento collettivo e diritto dell'unione europea, in Labor, 2017,312.

[9]    Counturis, Deakin, Freedland, Koukiadaki, Prassl, Report on collective dismissals. A comparativeand contexual analysis of the law in the collective redundancies in 13 European countries, ILO, Geneva, 2016,14 in www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/-ed_dialogue/-ed_dialogue_msu/documents/publication/wcms_541637.pdf

[10]  Campanella, Licenziamenti collettivi in Grecia al vaglio della Corte di Giustizia: quale modello sociale europeo? In LG, 2017, 8-9, 783.

[11]  Cosio, Le ordinanze di Milano e Napoli sul jobs act. Il problema della doppia pregiudizialità in Lavoro,Diritto,Europa, 1/2020.

[12]  La Corte di Giustizia si è pronunciata, nello specifico, in merito al diritto di proprietà. Corte di giustizia del 25.3.2021, C-501/18

[13] Bronzini, Il blocco dei licenziamenti in Italia e la sua compatibilità con il diritto “europeo”, in Lavoro,Diritti,Europa, n.2/2021