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Il lavoro come forma di reinserimento sociale

lavoro in carcere
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Il lavoro come forma di reinserimento sociale

 

Storicamente, nei sistemi penali imperniati sull’idea retributiva e general-preventiva, il lavoro dei detenuti era visto come modalità di espiazione della pena detentiva e in chiave generalmente afflittiva; essi dovevano svolgere attività prive di utilità e non ottenere dalle stesse alcuna forma di gratificazione.

Alla fine del 1500 nascevano in Inghilterra le workhouses, in cui era già evidente la visione dell’etica del lavoro e la volontà di coniugare la pretesa punitiva e retributiva dello Stato con l’esigenza del recupero del reo. Le workhouses avevano anche una funzione calmieratrice del costo del lavoro; il mantenimento dei reclusi costava meno rispetto alla manodopera libera[1]

Le case di correzione in Inghilterra erano popolate da vagabondi, ladruncoli, prostitute e poveri ribelli al lavoro ed il rifiuto del lavoro era visto come intenzione criminale. Originariamente, infatti, il carcere era volto a trasformare il criminale in proletario: il soggetto reale, ossia il criminale violento, irriflessivo doveva essere trasformato in soggetto ideale, ossia il detenuto, un soggetto meccanico e disciplinato. Il criminale era trasformato nell’immagine di come doveva essere il “non proprietario” proletario, che doveva diventare non socialmente pericoloso, rimanere non proprietario, ma senza intaccare la proprietà.[2]

Solo in un secondo momento il lavoro è stato visto in chiave riabilitativa, anche se era volto al fine di modificazione della persona, laddove la pena era vista in una concezione terapeutica. Il lavoro, obbligatorio e tendenzialmente gratuito, aveva la funzione di “abituare” il detenuto al rispetto delle regole sociali.

Oggi il lavoro carcerario è visto come strumento per la realizzazione della persona e di emancipazione sociale. Da un lato, è rivolto al conseguimento di un reddito per la famiglia, dall’altro all’acquisizione di competenze spendibili per il reinserimento nella società[3].

L’art. 4 della Costituzione riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e, nell’ottica di risocializzazione del reo a cui tende la pena nel nostro ordinamento giuridico (art. 27 Cost.), anche i cittadini detenuti hanno diritto a svolgere un’attività lavorativa.

Il lavoro è considerato elemento essenziale del percorso rieducativo; la stessa Corte Costituzionale ha affermato che “l’acquisto  o lo sviluppo dell’abitudine del lavoro e della qualificazione professionale (…) valgono ad agevolare il reinserimento nella vita sociale”[4], “il lavoro si pone come uno dei mezzi al fine del recupero della persona, valore centrale per il nostro sistema penitenziario, non solo sotto il profilo della dignità individuale ma anche sotto quello della valorizzazione delle attitudini e delle specifiche capacità lavorative del singolo.”[5]

Il lavoro carcerario presenta una struttura mista, per cui lo scambio di prestazione contro retribuzione è connesso altresì alla retribuzione penale e alle esigenze di custodia. La Corte Costituzionale, nella sentenza n.1087 del1988 ha individuato la natura legale di tale rapporto di lavoro, sottolineandone la peculiarità nella finalità di riadattamento alla vita sociale e nell’acquisizione di una professionalità che possa agevolare il reinserimento sociale[6].

Nel tempo si è cercato di giustificare le diversità disciplinari tra il lavoro carcerario e quello svolto nella società libera, sottolineando le finalità trattamentali di quello in carcere, ma la conseguenza è stata quella di ledere il principio di uguaglianza tra lavoratori liberi e preclusi dando, nelle scelte legislative relative al lavoro penitenziario, prevalenza alla sostenibilità finanziaria. Tuttavia, già la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 12 febbraio 1987 spingeva verso una disciplina che avvicinasse il lavoro penitenziario a quello libero.

L’attività lavorativa svolta dai cittadini detenuti non può essere priva, tuttavia, delle tutele giuridiche proprie dei lavoratori liberi; il lavoro non può essere più previsto, come un tempo, senza retribuzione perché considerato come parte della pena afflitta. La legge 354/1975 (legge sull’ordinamento penitenziario), modificata dal d lgs. 124/2018, nell’art. 15 prevede che il lavoro contribuisca a svolgere la funzione rieducativa e nell’art. 20 viene sottolineato che l’organizzazione e i metodi di lavoro devono rispecchiare quelli della società libera, non ha carattere afflittivo ed è remunerato.

Se da un lato, quindi, il lavoro è strumento necessario per il reinserimento sociale della persona privata della libertà personale, dall’altro bisogna riflettere sulla previsione di una sua obbligatorietà. Il lavoro forzato non è autorizzato, ma il rifiuto viene annotato nel fascicolo personale del detenuto e nella relazione richiesta dal magistrato di sorveglianza emergerà che il detenuto non ha partecipato alle attività lavorative offerte dall’Istituto.

Rifiutare il lavoro potrebbe avere effetti negativi sulla possibilità di accedere ai benefici penitenziari, come i permessi premio[7]. Tuttavia, il lavoro dovrebbe essere una scelta di crescita del lavoratore detenuto e non un obbligo. Il d. lgs. 124/2018 ha eliminato l’obbligatorietà del lavoro a favore di un’“offerta di trattamento”, che prevede in alternativa le attività di istruzione, intellettuali, artistiche[8].

I detenuti possono lavorare all’interno dell’amministrazione penitenziaria o al di fuori, laddove autorizzati dal magistrato di sorveglianza, ma potrebbero anche organizzarsi in forma autonoma. Se l’attività è svolta al di fuori, l’impresa deve versare la retribuzione alla direzione dell’istituto per cercare di evitare qualsiasi forma di sfruttamento e, per incentivare le imprese all’assunzione di lavoratori detenuti, sono previsti sgravi contributivi. Nonostante ciò, sono ancora poche le imprese che offrono lavoro ai detenuti, che a parità di costo sono bisognosi di maggiori sforzi organizzativi. Si dovrebbe, tuttavia, preferire il lavoro all’esterno perché ha il pregio di favorire un contatto tra il detenuto e la società libera[9].

Tra i diritti dei detenuti vi è quella che era chiamata la “mercede”, ossia la remunerazione che viene stabilita da una Commissione ad hoc, ed è inferiore di un terzo rispetto ai minimi stabiliti dal CCNL di settore. Questa previsione è stata considerata legittima dalla Corte Costituzionale, ritenendo la causa del contratto, riferita alla funzione rieducativa, come giustificatrice della riduzione predetta, anche se con sentenza n.1087 del 13 dicembre 1988 ha sottolineato come il lavoro, anche in questo caso, deve essere tutelato ai sensi degli art. 35 e 36 della Cost. e quindi la remunerazione deve essere proporzionale al lavoro svolto. La Corte Costituzionale ha, però,  ritenuto che la particolare condizione dei lavoratori detenuti portasse a una minore produttività e giustificasse una riduzione della remunerazione. Riduzione possibile, però, solo nel caso di lavoro svolto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria[10].

Dalla remunerazione sono sottratte ad esempio le somme dovute a titolo di risarcimento del danno, il mantenimento in carcere ed il rimborso delle spese di giustizia.

Anche il diritto alle ferie è stato ribadito dalla Corte Costituzionale con sentenza n.158 del 22 maggio 2001, che ha dichiarato illegittimo l’art. 20 della legge 354/1975 nella parte in cui non lo prevedeva. Il detenuto può fruire delle ferie in vario modo: la dottrina ritiene possa approfittare dei permessi premio, ma anche all’interno dello stesso istituto penitenziario dedicandosi ad attività ricreative[11].

Ancora, il diritto all’indennità di disoccupazione (Naspi), che viene concessa in caso di perdita involontaria dell’occupazione.

Il Tribunale di Ivrea con sentenza n.313 del 25 ottobre 2018 e il Tribunale di Torino con sentenza n.172 del 25 marzo 2019 hanno riconosciuto l’erogazione dell’indennità di disoccupazione nei confronti del lavoratore ex detenuto. La Naspi è uno degli strumenti maggiormente richiesti dai detenuti, a causa della loro impossibilità di accedere al reddito di cittadinanza. L’INPS con il Messaggio n.909 del 5 marzo2019 aveva ritenuto non si potesse parlare di perdita involontaria dell’occupazione nel caso di cessazione dell’attività lavorativa presso l’Amministrazione Penitenziaria, essendo questa per natura soggetta a turnazione; l’avvicendamento di periodi di lavoro e di inattività  non poteva consentire l’assimilazione con il licenziamento.

Il Tribunale di Torino, nella sentenza suddetta, affermava che se non ci fosse stata scarcerazione, per i periodi di inattività non sarebbe spettato nulla al lavoratore detenuto, in quanto questi sono espressione dell’organizzazione di lavoro interna all’amministrazione penitenziaria e lo stesso ragionamento è estendibile anche ai casi in cui il lavoro non viene ripreso, ad esempio per effetto dell’esercizio del potere disciplinare da parte dell’amministrazione.

Per quanto riguarda i periodi di inattività dei lavoratori detenuti, si può dire che alcune somiglianze possono essere trovate con i lavoratori stagionali, che non hanno certezza dell’assegnazione iniziale, né della riassegnazione del lavoro dopo il periodo di stallo[12].  

Per ultimo, il Tribunale di Milano con sentenza n.2718 del 2021 ha accolto il ricorso dell’ex detenuto lavoratore che aveva prestato attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria per quasi due anni e a cui era stato negato dall’Inps la concessione dell’indennità di disoccupazione. Infatti, ha valutato come anche la scarcerazione per fine pena sia una perdita involontaria dell’occupazione. In questo caso, la perdita del lavoro è certa e prevedibile per il lavoratore ma non dipende da causa a lui imputabile; il fine pena è, inoltre, incerto nel quando[13].

Sul diritto di associazione sindacale, nello status di detenuto non è ravvisabile alcun limite all’iscrizione nelle associazioni sindacali esistenti. Il principio costituzionale di libertà di associazione consente ai detenuti altresì di creare eventualmente delle organizzazioni sindacali tra di loro.

Il diritto di sciopero viene considerato compatibile da parte della dottrina con lo status di detenuto, in special modo per il lavoro extramurario[14].

Per quanto riguarda la cessazione del rapporto di lavoro, nel lavoro in carcere da una parte il potere di controllo nei confronti dei detenuti degli agenti penitenziari rimane invariato, ma a questo si aggiunge quello del datore di lavoro che mantiene il potere sanzionatorio nei confronti dei propri dipendenti, con la possibilità che si configuri una doppia sanzione; il potere sanzionatorio è svincolato da ogni forma di tutela, non esistendo di fatto alcuna rappresentanza sindacale. Solitamente, il licenziamento si verifica per condotta oppure in caso di furto[15].

Nonostante la legge sull’ordinamento penitenziario cerchi di assimilare il lavoro all’interno del carcere con quello della società libera, delle differenze sono evidenti: nel lavoro in carcere mancherebbe uno degli elementi costitutivi del rapporto di lavoro subordinato, ossia l’esercizio dei poteri direttivi da parte del datore di lavoro sulle modalità di esecuzione della prestazione nel caso in cui egli sia esterno all’amministrazione penitenziaria; ciò potrebbe comportare la configurazione del lavoro svolto in carcere come lavoro autonomo[16].

Maggiormente rilevante risulta, tuttavia, la differenza riguardo alla scelta dell’attività lavorativa da prestare. I lavori svolti degli istituti di pena il più delle volte non consentono un effettivo reinserimento all’interno della società e l’eventuale richiesta da parte del detenuto di lavorare in proprio soccombe rispetto alle disposizioni sull’esecuzione della pena prese dall’autorità giudiziaria e al giudizio di idoneità emesso dall’organizzazione penitenziaria.

È chiaro come in molti ambiti tra cui quello della protezione sociale o dei diritti sindacali sarebbe necessaria una disciplina speciale per l’attività lavorativa svolta in ambiente carcerario[17].

Dal rapporto Antigone emerge, infatti, che l’offerta formativa è varia, ma riguarda specialmente i settori della cucina, della ristorazione, giardinaggio e settore elettrico (lavorazioni interne alle amministrazioni penitenziarie). Si cerca di produrre effetti positivi in relazione ai bisogni dell’istituto stesso, formando le competenze dei lavoratori detenuti. Molto spesso l’efficacia dei corsi di formazione dipende da fattori come l’occupazione del tempo quotidiano e si cerca di sopperire alle necessità di mantenimento dell’istituzione stessa e di garantire un salario minimo a chi svolge l’attività lavorativa.

Emerge l’auspicio di una progettualità che veda nella formazione e nelle relazioni con il territorio l’elemento su cui fondare le politiche attive del lavoro. Accanto agli sgravi fiscali e contributivi (previsti dalla Legge Smuraglia) risulta necessario costruire un ponte che colleghi l’attività di formazione interna all’istituto con le attività lavorative esterne. La letteratura sul tema dimostra come chi ha avuto la possibilità di svolgere corsi formativi e attività lavorative riesca, uscito dal carcere, a reinserirsi più facilmente nel mondo del lavoro[18].

Il lavoro penitenziario dovrebbe, pertanto, accompagnare verso l’esterno, tramite le misure alternative, per consentire un graduale reinserimento nella società che porterebbe altresì ad una riduzione del tasso di recidiva[19].

Lo svolgimento di un’attività lavorativa comporta differenza anche nell’organizzazione interna al carcere; vi è, infatti, la suddivisione tra i reparti che accolgono i lavoratori detenuti e i reparti “comuni”. Nel “reparto lavoranti” le celle sono aperte dalle 7:30 alle 19:30 e la gestione della vita quotidiana è più flessibile. La differenza, tuttavia, riguarda soprattutto la disponibilità economica: avere denaro in carcere, significa poter acquistare maggiori oggetti quali generi alimentari o articoli per l’igiene.

Diversi sono anche i progetti di pubblica utilità, a vantaggio delle amministrazioni dello Stato, di assistenza sociale e di volontariato, che si possono affiancare all’offerta lavorativa.  Permettono un’organizzazione più agevole rispetto al lavoro, modellandosi sulle caratteristiche dei detenuti e alla loro condizione, sono svincolati dalle logiche di mercato e dal lavoro produttivo. Anche in questo caso sono dovute le tutele giuridiche dei prestatori di lavoro, ma il fine non è l’autorealizzazione economica e professionale ma l’impegno per gli altri. Simile sono le attività a titolo volontario e gratuito a sostegno delle famiglie vittime dei reati, con valenza risarcitoria[20].

Al 30 giugno 2022 i detenuti lavoratori erano 18.600 su 55 mila; di questi 2400 lavorano all’esterno. Si tratta di numeri ancora troppo esigui per poter affermare che il diritto al lavoro dei detenuti sia effettivamente tutelato. La media pro capite di attività è circa 85 giorni l’anno[21].

La mancanza di una disciplina speciale in materia comporta una serie di difficoltà interpretative, in primo luogo sulla necessità di avviare al lavoro un maggior numero di detenuti per consentire un reinserimento efficace all’interno della società.

Altra difficoltà riguarda il rapporto tra l’acquisto di generi alimentari ed altri oggetti da parte dei detenuti all’interno del carcere e la disponibilità economica degli stessi, maggiore per chi riesce a prestare attività lavorativa o per chi, prima di entrare nell’istituto di pena, godeva di un maggior benessere economico, generando nei fatti una disparità di trattamento tra i detenuti, dal momento che la scelta dei beni acquistabili, a differenza della società libera, è limitata; questo porta alla necessità di riflettere in merito a quanto sia giusta la decurtazione della remunerazione stabilita rispetto al lavoro libero.

Le lacune sono state colmate lentamente dalla giurisprudenza, ma non hanno ancora coperto tutti gli istituti del diritto del lavoro e tutti i diritti che i lavoratori hanno nella società libera. 

Bisognerebbe aumentare le possibilità di lavoro ed ampliare l’offerta, non limitandola solamente ai lavori quotidiani che vengono svolti all’interno del carcere ma spingere ancora di più allo studio e alla formazione anche scolastica e universitaria per chi lo desidera.

Necessario anche creare un ponte che colleghi l’attività lavorativa svolta durante il periodo di detenzione con l’attività lavorativa da svolgere nel momento in cui si è in libertà, per evitare che chi svolge attività all’interno si trovi senza lavoro una volta uscito, con la possibilità che ricominci a commettere attività delittuose. Bisogna, allora, ripensare anche alle modalità di esecuzione della pena per risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri e trovare un modo affinché tramite attività lavorative ma non solo, anche sociali e ricreative, il detenuto possa effettivamente inserirsi nuovamente nella società.

 

Note:

[1] G. VanacoreLavoro penitenziario e diritti del detenuto, in  DRI, 4, 2007, 1130.

[2] D. Melossi, M.Pavarini, Carcere e Fabbrica, il Mulino.

[3] Della Casa – Giostra, Manuale di diritto penitenziario, Giappichelli Editore, Torino, 2021, p.84.

[4] Corte Cost. sent. n.1087, 13 dicembre 1988.

[5] Corte Cost. sent. n.158, 22 maggio 2001.

[6] R. Bifarini, Il lavoro penitenziario tra istanze rieducative e tutela dei diritti, in GM, 12, 2007,3240.

[7] E. Kalica, Lavorare per lavorare: quando il lavoro in carcere non reinserisce, XXI rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, Antigone.

[8] Della Casa – Giostra, Manuale di diritto penitenziario, Giappichelli Editore, Torino, 2021, p.84.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] V. Furfaro, Il lavoro penitenziario. Aspetti giuridici e sociologici, in L’Altro Diritto, 2008, I, 6.1.

[12] F. Malzani,  Lavoro a favore dell’amministrazione penitenziaria e Naspi: un orientamento da ripensare, in Responsabilità civile e Previdenza, 2,2020,557.

[13] S. Roccisano, La scarcerazione per fine pena può dare diritto alla Naspi?, in DLRI, 4, 2022, 1112

[14] G. Vanacore, Lavoro penitenziario e diritti del detenuto, in DRI, 4, 2007, 1130.

[15] E. Kalica, Lavorare per lavorare: quando il lavoro in carcere non reinserisce, XXI rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, Antigone.

[16] C. Cordella,  Il lavoro in proprio nelle carceri, in DRI,2, 2017, 317. 

[17]  Ibidem

[18] P.A. AllegriDalla parte dei lavoratori. Il lavoro e la formazione in carcere, XVII rapporto sulle condizioni di detenzione,Antigone.

[19] E. Kalica, Lavorare per lavorare: quando il lavoro in carcere non reinserisce, XXI rapporto sulle condizioni di detenzione in Italia, Antigone.

[20] Della Casa – Giostra, Manuale di diritto penitenziario, Giappichelli Editore, Torino, 2021, p.92.

[21] F. SiracusanoVerso un carcere più umano e solidale: brevi riflessioni a margine delle proposte della Commissione Ruotolo in RIDPP, 2, 2022, 849