Olimpia
Olimpia
Un inizio tra ironia e sottile polemica, un’idea – riportare le Olimpiadi in Grecia – che saltuariamente ricompare, offre lo spunto per una descrizione di Olimpia, che esattamente traduce in parole uno spettacolo unico al mondo, una sospensione magica, una grandezza solitaria, lasciata intatta dalla “modernità”.
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“Ma tu non puoi polemizzare con me”, mi disse per telefono il direttore Montanelli, una volta che avevo espresso un punto di vista diverso dal suo. Credo che fosse per il trattato di Osimo. Giorno dopo giorno, quanti anni sono passati. Questo colonnino era appena nato, stavo ancora prendendo le misure del mio nuovo spazio. Mi meraviglio, oggi, al ricordo di quella “gaffe”, e più ancora della voglia che avevo di scaldarmi se qualche pezzo di terra istriana doveva continuare ad esser governata male dagli jugoslavi, invece che tornare ad esser governata malissimo dagl’italiani.
Da allora, mi guardai bene dall’incrociare, col corso dei miei pensierini, le maestose rotte delle opinioni direttoriali.
Ma questa faccenda di Olimpia non mi va giù, e a costo di scandalizzare quei lettori unanimisti, che alla lor volta si scandalizzano se non tutti gli umori espressi nel Giornale non sono identici, confesso. L’articolo di fondo del 12 febbraio, del direttore Montanelli, intitolato “Torniamo a Olimpia”, mi sta di fronte, minaccioso e ritagliato, da oggi un mese. Perché non torniamo a Olimpia, proponeva Montanelli, per risolvere una volta per tutte le noiose diatribe che s’accendono di tempo in tempo sui luoghi delle Olimpiadi. “Il ritorno a titolo permanente delle Olimpiadi a Olimpia, loro casa – madre eliminerebbe tutti questi giuochi e intrallazzi.” Al Signor Pesmazoglu, ambasciatore di Grecia a Roma, non gli è parso vero di trovare un aiuto così potente e disinteressato, e ci si è buttato sopra come un sol greco, scrivendo una forbitissima lettera, pubblicata il 3 marzo, che conclude ringraziando per “il valido contributo all’iniziativa per salvare un’istituzione plurimillenaria di così elevato significato”.
Caro direttore, non posso più tacere. E siccome la velocità di diffusione delle idee è direttamente proporzionale alla loro pericolosità, vorrei persuaderti prima che l’assenso di papa Woytjla, del Presidente dell’Onu e della confederazione sindacale unitaria rendano l’affare irreparabile. Direttore, sei mai stato a Olimpia? Vacci, ti prego. Perché i tuoi ragionamenti sono giusti, ma Olimpia non è più casa – madre di nulla. È uno dei pochi angoli nobili, appartati, silenziosi, di questa ignobile terra. Le oscene masse la ignorano, il cemento non vi ha messo dimora. Non palazzi dello sport, né villette, non silos, né funivie la deturpano, non vi spezzettano autostrade, né gommoni solcano il letto ghiaioso dell’Alfeo. Sfòrzati d’immaginare come sarebbe la valle dell’Arno senza la città. Le colline basse e fertili, il largo orizzonte, le piccole selve, i ciuffi di cipressi, i campi e le vigne per cui si scende verso il fiume, tra ciottoli legati in reti metalliche.
Una ragazza americana che visitava con me quel luogo disse di chiamarsi Jan.
“Viene da una parola latina”, spiegò. “Mio padre mi chiamò Janua. Era professore di latino”. Janua coeli, risposi compunto, per un riflesso condizionato, le cui origini risalivano ancora ai rosari che m’ero dovuto sorbire nei rifugi durante i bombardamenti. Disse ch’era felice che sapessi così bene il suo nome. Anch’io sono figlio di un professore di latino, spiegai. Scendemmo in silenzio, tra macchie folte di querce. Le corse, l’atletica, le orrende statue dei vincitori, tutto il baccano che tu, direttore, riassumi nel verso di Menandro “Folla, imbrogli, saltimbanchi, fottitòria e furti”, tutto è scomparso. Il tempo, che è il vero artefice della bellezza greca, ha reso nobilmente arcaico quel che nacque come Kitsch sportivo, ha lavato e spezzato le statue dipinte, rendendole degne degli esteti. Gli archeologi, questa orda di vandali al servizio di secoli privilegiati, hanno risparmiato Olimpia. Sull’Agorà di Atene distrussero un delizioso quartiere del diciottesimo secolo per cercare alcune cianfrusaglie del quinto “avanti”. Qui, han lasciato stare. Mi fan ridere quelli che parlano della Grecia antica, e non s’accorgono che quando vanno a Delfi, visitano un cantiere del razionalismo francese (tutto bene in ordine, pietre spazzolate, niente alberi o erba) mentre a Olimpia s’immergono in un quadro romantico ancora imbevuto di molle sensualità neoclassica, come una scena di Haeckert. A Olimpia scavarono tedeschi con l’anima poetica. Del tempio di Giove, restano i rocchi delle colonne, allineati a terra come se li avessero affettati. Nessun cretino pedante è andato a rialzarli. Papaveri clamorosi, asfodeli violenti bucano il tappeto di erbe selvatiche color verde smeraldo.
E lì, vorresti riportare “folla, imbrogli, saltimbanchi”, e tutto il resto, la Coca Cola, e magari la Rai, con la voce di Pietro Buttitta che parla da Olimpia? Direttore, pietà. Lascia Olimpia dov’è, al suo silenzio innocente. Modifica, ti prego, la tua proposta, che è così malvagia da rischiare seriamente d’essere accolta. La Olimpia che ci vuole per le Olimpiadi, brutta a dovere, c’è già, e si chiama Atene. Se ti accomodi a questo luogo, che oltretutto, ha un aeroporto e bellissimi alberghi già pronti, ritiro il mio rispettoso dissenso e, per quanto poco valga, aggiungo la mia approvazione a riportare tutta la baracca nella casa-madre originaria, la Grecia. Il tuo
Piero Santerno
Da “Il Giornale”, venerdi 14 marzo 1980