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Cara Paola Egonu, l’infelicità sarà tutta nostra

Paola Egonu
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Cara Paola Egonu, l’infelicità sarà tutta nostra

Se mai dovessi avere un figlio di pelle nera, vivrà tutto lo schifo che ho vissuto io. Se dovesse essere di pelle mista, peggio ancora: lo faranno sentire troppo nero per i bianchi e troppo bianco per i neri. Vale la pena, dunque, far nascere un bambino e condannarlo all’infelicità?». Così si è espressa ed interrogata Paola Egonu – prossima co-conduttrice di un Festival di Sanremo in cui, a detta di Amadeus, ci sarà tanta “introspezione” – in un’intervista rilasciata a Vanity Fair. I toni sono quelli di un’autentica apocalisse razziale: sofferenze, discriminazioni, condanne ad un’inesorabile infelicità. Un abisso di pregiudizi ed esclusioni basati sul colore della pelle, uguale oggi rispetto a venti anni fa, che segnerebbe il tessuto stesso della nostra società fin dalle scuole dell’infanzia. 

Messa così sembra di essere nell’Alabama degli anni ’50, o peggio nel Sud Africa durante i decenni dell’apartheid. Invece siamo in Italia, anno domini 2023, nello stesso Paese che ha celebrato ed elevato Paola Egonu, che le ha consentito di diventare una delle atlete più stimate della Nazione e anche portabandiera olimpica a Tokyo 2020, alla guida della delegazione azzurra. Un Paese, ancora, in cui Egonu aveva incassato il sostegno di tutti indistintamente – dalla Presidenza del Consiglio alle opposizioni, dal giornalismo alla società civile – quando aveva tirato in ballo un fantomatico razzismo per cui, dopo il bronzo al mondiale olandese, sembrava ci fosse qualcuno che aveva messo in discussione la sua italianità.

Un presunto caso razzismo poi ritrattato e sgonfiato dalla stessa atleta e dal suo agente, e che pare (perché poi non è emerso nulla di concreto) si limitasse a qualche “post a sfondo razzista” sul web – laddove ormai si trova anche chi crede che Biden sia un clone, figuriamoci se non si trovano un paio di coglioni razzisti – e ad alcune critiche mediatiche. Si era quindi capito che Egonu stesse minacciando l’addio alla Nazionale per comprensibili tensioni e frustrazioni psicologico-sportive, perché come dice lei nulla basta mai: «Sacrifico tutto, tut-to. E, spesso, non viene apprezzato». Ma che, in tutto ciò, il razzismo c’entrasse poco e nulla. 

«Ci fanno male tutte quelle critiche. Ci fanno male le parole scritte dai giornalisti in cui viene detto che non merito di indossare la maglia dell’Italia. Io la sogno questa maglia».

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Così era stata costretta ad ammettere poi lei stessa, incalzata circa i responsabili e le fonti del suo malessere, riferendosi a non meglio identificati giornalisti che avrebbero messo in discussione il suo merito ad indossare la maglia azzurra. La levata di scudi nel frattempo era però stata collettiva, e il grido al lupo razzista aveva ricompattato – giustamente, fino a quando si davano per buone le prime ricostruzioni – tutte le migliori energie del Paese attorno alla pallavolista italiana. 

Ma la questione non sta tanto nei fatti, quanto invece nei simboli. Il problema è la narrazione che abbiamo voluto fare di Paola Egonu, proponendola come modello extra-sportivo in quanto fulgido esempio del successo dell’integrazione: pallavolista formidabile, tra le migliori al mondo, italiana e orgogliosamente nera; con un’esperienza omosessuale spesso ricordata, anche nell’intervista, che di questi tempi aiuta a sensibilizzare e a mandare messaggi di inclusione. Il problema è che al di là dell’orientamento sessuale di Egonu, delle sue opinioni politiche o del colore della pelle – tutte cose di cui a noi interessa zero – parliamo di un’atleta che è certamente un esempio sportivo (e ci mancherebbe altro), ma nulla più di questo. 

Un’atleta che non ha alcun merito o abilità specifica per essere chiamata a co-dirigere il festival di Sanremo, se non quello di essere strumentalizzata per lanciare un messaggio socio-politico deciso a tavolino “sulla sua pelle”– a confronto, anche la scelta di Chiara Ferragni appare ben più solida e motivata. E non si tratta dell’ottusa polemica adinolfiana, che a suo tempo ne criticava la scelta “cliché” di eleggerla portabandiera azzurra: lì Egonu rappresentava l’Italia sportiva e soptrattutto un’eccellenza sportiva italiana. A Sanremo invece cosa rappresenta? Nulla. Lo stesso nulla cosmico, vittimista e strappalacrime, che ha dispiegato nell’intervista a Vanity Fair. 

Qui tra le altre cose ha tirato in ballo una maestra d’asilo che l’aveva messa in punizione impedendole addirittura di andare in bagno, portandola così a ‘farsi tutto addosso’ e a sviluppare un trauma sull’uso delle toilette pubbliche per gli anni a venire – il nesso con il razzismo è davvero difficile da cogliere, anche perché in questa ricostruzione Egonu dice che furono puniti in due. Per non parlare della prospettiva distorta ed ego-niana per la quale ad una persona nera in Italia «servono il caffé freddo al bar», oppure «in banca lasciano entrare l’amica bianca ma non lei (si riferiva qui alla madre, ndr)»; o dei soliti cliché sugli uomini che tradiscono e su quanto tutto ciò sia «un inferno per noi donne».

Quindi la conclusione: «È un mondo di m…da, me lo lasci dire. Spero che presto arrivi l’Apocalisse». Nel frattempo meglio riparare nell’avanzatissima Turchia.

Non è dato comunque sapere se si tratti di semplice paranoia o di strategia di posizionamento politico-mediatico-commerciale. Quel che è certo è che nessun bambino nato in Italia nel 2023, grazie al cielo, è condannato all’infelicità perché “di pelle nera” o “di pelle mista”; e che se sono questi i messaggi che Paola Egonu vuole portare al Festival di Sanremo l’infelicità sarà tutta nostra, costretti a sorbirci i soliti sermoni con annesse colpevolizzazione colletive. Noi che avremo tutti i difetti del mondo, ma anche la consapevolezza che la società a tinte fosche che vede Paola Egonu, divisa in bianco e nero, grazie a Dio in Italia non esiste: se non su Vanity Fair e sul Palco dell’Ariston, ça va sans dire.