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Daspo: non si applica agli sportivi professionisti

legittimità dell’applicazione dell’art. 6 Legge 13 dicembre 1989 n. 401.
Banalità del male
Ph. Arbër Arapi / Banalità del male

A seguito del ricorso di un calciatore dilettantistico, che impugnava la decisione della Corte di appello di Salerno che aveva confermato il divieto di accedere allo stadio non solo quale spettatore ma anche in qualità di calciatore; la Cassazione è intervenuta in materia di Daspo sportivo con una recentissima sentenza.

La Cassazione penale sezione III n. 35481/2021, depositata il 27 settembre, ha espresso il seguente principio di diritto: “Il provvedimento del Questore ex art. 6, legge n. 401 del 13 dicembre 1989 non può limitare l’attività dello sportivo professionista dalla quale ricava una retribuzione e con la quale estrinseca la sua personalità, mentre può vietare l’accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive, anche quale partecipante alle attività sportive, a chi non esercita professionalmente la stessa; una diversa interpretazione della norma, che limitasse lo svolgimento di attività sportiva per i professionisti retribuiti, sarebbe palesemente incostituzionale (articoli 1 e 35 della Costituzione)”.

Nel caso sottoposto agli Ermellini, il ricorrente non era un atleta professionista e non riceveva retribuzioni per la partecipazione alla manifestazione sportiva e, quindi, secondo i giudici deve ritenersi integrata la violazione della norma.

Il provvedimento del Questore di divieto a recarsi nei luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive per partecipare ad una competizione sportiva dilettantistica deve considerarsi legittimo. Diversamente, quando l’attività sportiva è professionistica, e in quanto tale retribuita, un ordine amministrativo non può privare un individuo della sua attività lavorativa.

Una diversa interpretazione sarebbe incostituzionale in quanto la norma (art. 6 Legge 13 dicembre 1989, n. 401) non prevede l’inibizione dell’attività lavorativa con il provvedimento del Questore, ma semplicemente il “divieto di accesso ai luoghi in cui si svolgono manifestazioni sportive”. Trattandosi di una norma che comunque limita la libertà della persona, la stessa non può che interpretarsi in modo restrittivo in relazioni a divieti solo nei casi espressamente previsti. Una limitazione dell’attività lavorativa retribuita sarebbe oltremodo punitiva, oltre i casi espressamente previsti dalla norma.

È interessante un successivo passaggio della parte motiva dove la Suprema Corte chiosa: “il ricorrente non prospetta una tale evenienza (la percezione di denaro per la sua attività) limitandosi a ritenere comunque non applicabile ai giocatori il Daspo”.

Quindi il discrimine dell’applicazione del Daspo in casi di partecipazione ad attività sportive sembra essere la dimostrazione di ricevere una retribuzione per l’attività che sarà onere del ricorrente dimostrare sussistere in forma lavorativa.