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Elogio del calcio parrocchiale

I ragazzi dell'oratorio di San Giorgio Piacentino con Don Braceschi nel secondo dopoguerra (Ph sangiorgiopiacentino.org)
I ragazzi dell'oratorio di San Giorgio Piacentino con Don Braceschi nel secondo dopoguerra (Ph sangiorgiopiacentino.org)

Che sono le parrocchie, se non l’Italia vivente? L’assunto che Giovanni Berthelet si impegna a dimostrare nel suo “Dizionario delle Parrocchie italiane”, pubblicato a distanza di quarant’anni dall’Unità nazionale, enuncia l’essenza comunitaria e cristiana del nostro popolo. Un’essenza dalle profonde radici rurali e familiste legate storicamente agli spazi vitali della Chiesa che, nonostante l’ascesa delle ideologie politiche novecentesche, la progressiva urbanizzazione, la secolarizzazione e quindi la trasformazione dello stile di vita con il dilagare del totalitario e atomizzante individualismo moderno, esiste e resiste faticosamente ancora nell’Italia di oggi.

Una lotta per la sopravvivenza, quella delle parrocchie e della loro intrinseca vitalità, che si consuma ogni giorno in un mondo che cambia a ritmi frenetici e alienanti. Ritmi che tutti, cattolici e laici, ci accorgiamo essere non umani ma dei quali sembriamo ineluttabilmente succubi.

È proprio il non appartenere allo spirito del tempo che caratterizza la forza residua di questi ultimi baluardi di socialità solidale. Malgrado gli errori irrisolti delle nuove strategie pastorali e al netto degli episodici orrori di sopruso e violenza – accertati dalle autorità giudiziarie – di cui si sono macchiati i responsabili di alcune realtà, le parrocchie restano trincee sacre chiamate a proseguire nell’adempimento del proprio destino: essere presidio di valori spirituali e fonte di solidarietà e condivisione, anche in termini sportivi, all’interno del tessuto comunitario italiano.

Un lungo cammino di vocazione sociale che nel corso dei secoli si è rivelato ai più piccoli attraverso gli oratori. Fin dalla creazione del primo oratorio giovanile – sorto su iniziativa di San Filippo Neri intorno al 1550 nel cuore di Roma, più precisamente nei locali di San Girolamo della Carità – questi luoghi rappresentano un ponte tra la Chiesa e la strada, per dirla con le parole di Papa Giovanni Paolo II. Rifugio per la gioventù disorientata e dannata, gli oratori hanno da sempre avuto il merito di arginare il reclutamento di nuove leve da parte dell’universo criminale.

«State bboni (se potete…)!».
«Te possi morì ammazzato… ppe’ la fede!».

(Due famose frasi di Filippo Neri, “il santo della gioia”)

L’originalità di queste comunità religiose, riflesso dei mutamenti che seguirono la Controriforma, risiede in una sostanziale particolarità: nessun voto o giuramento a unire i propri membri ma soltanto un vincolo di carità. L’intuizione dell’allora giovane sacerdote Filippo Neri nacque in un contesto di corruzione e pericolosità diffusa. Una reazione virtuosa di fronte alle macerie sociali e morali con le quali si trovò a dover fare i conti.

Esperienza il cui valore – su impulso dei padri Talpa, Bordini e Tarugi, collaboratori di Filippo – venne riconosciuto da Papa Gregorio XIII il quale nel 1575, con la bolla Copiosus in misericordia Deus, eresse la Congregazione dell’oratorio affidandole la chiesa di Santa Maria in Vallicella nel rione di Campo Marzio, considerato dai romani uno degli ingressi per accedere agli inferi. Angeli e demoni: una scelta emblematica. Preghiera, spirito comunitario e svago, compresi i primi giochi con la palla: il modello dell’oratorio ben presto si espanse a macchia d’olio su tutto lo Stivale.

L’eredità di Don Neri successivamente fu raccolta dal piemontese Don Giovanni Bosco, fondatore della Società Salesiana. Il prete di Castelnuovo d’Asti, servendosi del proprio carisma e della propria sensibilità, esercitò un grande ascendente sulla gioventù dimenticata di Torino. Abbandonati a loro stessi, nei vicoli bui, nelle fabbriche e nelle carceri, un’intera generazione di ragazzi trovò finalmente casa dapprima tra le mura dell’oratorio della cosiddetta “Tettoia Pinardi” e poi nel comprensorio del santuario di Maria Ausiliatrice, nel quartiere Valdocco.

Spazi, conquistati nonostante tutte le difficoltà del caso, che divennero oasi di riscatto e gioco (in attesa di quello palla al piede che vedeva la luce oltremanica proprio nel corso di quei decenni). Dal 1841, anno di nascita del primo nucleo dell’oratorio di Don Bosco, fino al 1888, anno della morte del sacerdote, il prete-pedagogo si rese protagonista di un’opera sociale e sindacale senza eguali, dando una spinta decisiva al radicamento degli oratori anche nel resto del regno d’Italia.

«Dite ai giovani che li aspetto tutti in Paradiso».

(Le parole di Don Bosco a Don Bonetti, sul letto di morte)

Diffusione, quella delle parrocchie e quindi degli oratori, che Berthelet attesta nei primi anni del Novecento, nella sua già citata opera, sulle 20.173 unità. Numeri di un certo peso, che ci dimostrano quanto sia stata capillare l’espansione dell’organizzazione parrocchiale a cavallo tra i secoli, in particolar modo nelle regioni settentrionali. Controllate e influenzate dalle autorità locali fasciste, seppur non totalmente, le parrocchie hanno continuato il loro cammino attraversando e superando gli anni del regime mussoliniano e della guerra civile.

Lo sport, affiancandosi alla fede e alla politica, rivestì un’importanza costantemente crescente nella vita degli italiani a partire dal XX secolo. L’anno 1906 sancì la nascita della “Federazione delle Associazioni Sportive Cattoliche Italiane” (FASCI). Una federazione indipendente dalla “Gioventù cattolica italiana” che, prima di venire sciolta dal fascismo nel 1927, vantava decine di migliaia di iscritti e influenzò fortemente la Chiesa nell’accogliere all’interno degli oratori la pratica sportiva, specialmente quella calcistica.

Basti pensare, facendo un esempio illustre, che le origini della Spal di Ferrara – club attualmente in Serie A – sono riconducibili all’oratorio salesiano di via Coperta, dove Don Pastorino nel 1907 fece apparire il primo, mitico pallone. Sono quelli infatti gli anni in cui il calcio fece breccia nel cuore degli abitanti del Bel Paese, ritagliandosi il proprio spazio accanto alle passioni per il ciclismo eroico e per il pugilato.

L’esperienza della FASCI si prolungò idealmente e concretamente a partire dal 1944 attraverso la creazione del “Centro Sportivo Italiano”, stavolta su iniziativa della “Gioventù italiana” di “Azione cattolica”. Il CSI, la più antica associazione polisportiva attiva tutt’oggi in Italia, a suo modo contribuì alla rinascita di una nazione martoriata nello spirito e nella carne dai bombardamenti, dall’odio fratricida e dalle privazioni materiali. Ma, una volta caduto il fascismo, a contendere il primato dell’associazionismo cristiano-cattolico, come evidenziato da Sergio Tanzarella in “Cristiani d’Italia” (2011), spuntarono le macchine organizzative del partito socialista e del partito comunista:

«Nel clima politico dell’Italia del dopoguerra le chiese locali, in nome dell’anticomunismo, dell’unità partitica dei cattolici e dell’identificazione con la Dc si erano cimentate nella competizione con i partiti politici di sinistra cedendo alla tentazione dell’attivismo. Il regime di concorrenza imponeva però dei costi e la necessità di risorse innanzitutto per edificare (oratori, cinema, bar, campi di calcio) ed essere quindi alla pari delle Case del popolo e dei circoli ricreativi profani. Alle tradizionali Feste dell’Unità il parroco del paese, non di rado, contrapponeva in contemporanea una controfesta di disturbo sotto la protezione di un santo».

Gli oratori, nonostante la competizione dei circoli ricreativi rossi, nel dopoguerra consolidarono il loro ruolo tra la popolazione tornando a essere, dopo la scuola, il principale luogo di crescita, socializzazione ed educazione, compresa quella sportiva, di milioni di ragazzini.

Se il CSI con le sue giornate e manifestazioni ufficiali rappresentava, e tutt’ora rappresenta, il lato più istituzionale del vivere sportivo della Chiesa, la Storia autentica del calcio d’oratorio si è definita nel segno di semplici e bambineschi colpi al pallone all’ombra di un campanile.

«Sembra quand’ero all’oratorio, con tanto sole, tanti anni fa. Quelle domeniche da solo in un cortile, a passeggiar. Ora mi annoio più di allora, neanche un prete per chiacchierar…»

Il 25 maggio del 1968 il pomeriggio si fece troppo azzurro e la memoria di Adriano Celentano volò lontana verso l’ormai sfumata dimensione di una domenica trascorsa in oratorio. I ricordi in musica sono di desolazione, ma in realtà il famoso “molleggiato”, quando era soltanto un mascalzone dalle braghe corte, passò molto tempo divertendosi in compagnia negli spazi ricreativi dell’oratorio milanese di San Lorenzo, alle Colonne.

Ed in ottima compagnia, altroché. Era Tony Renis, con la fascia di capitano al braccio, a servirgli gli assist vincenti sotto porta al campetto. Compagni di giochi, compagni di squadra, quindi partner musicali: “gli allegri menestrelli del ritmo” se la spassarono alla grande insieme.

Come loro, anche Bruno Pizzul conserva un ricordo della fanciullezza all’oratorio di Cormons quale periodo fondamentale della propria vita. Anni preziosi nei quali, oltre a una sana educazione sportiva, maturò un patrimonio di valori umani inestimabili. Quelli che mancano alla stragrande maggioranza delle realtà calcistiche giovanili odierne:

«Purtroppo il calcio giovanile di adesso è caratterizzato dalla voglia di diventare campioni, di guadagnare tanti soldi. Spesso sono i genitori che accompagnano i ragazzi in questi loro sogni. Che il più delle volte non si realizzano. E i giovani abbandonano lo sport. Noi in oratorio giocavamo per il piacere di farlo, senza l’ossessione della carriera, senza allenatore, ma con una gerarchia di valori stabilita dai ragazzi stessi. Ci si sfiniva in interminabili partite e si imparava la tecnica individuale cosa che oggigiorno nelle scuole calcio, sembra incredibile, ma non si pratica più».

Pizzul centra il punto: le sfide in oratorio non conoscono risultato, andando avanti a oltranza. Rivalità, sì, ma soprattutto voglia di divertirsi. È a furia di sbagliare, e quindi di migliorarsi, che si imparano i fondamentali del gioco. Le squadre affidate ai capitani perché nei campetti degli oratori, come in strada, la selezione è naturale e vige la legge del dribbling, dell’uno contro uno: sfide nella sfida. Ne sa qualcosa Gianni Rivera, il golden boy del calcio italiano anni ’60:

«Ho cominciato a giocare all’oratorio salesiano di Alessandria. Prima di Nereo Rocco ho avuto tre padri calcistici, don Piero, don Filippini e don Cerchia».

Dalle panche dove ci si inginocchia per pregare alle panchine dove si cambiano le scarpe per giocare, anche Roberto Boninsegna, prima di incantare San Siro e il Comunale torinese, mosse i suoi primi passi calcistici dopo la messa:

«I miei primi derby non li ho mica giocati a Milano o a Torino, ma sul campo dell’Anconetta, in riva al Lago di Sotto. Erano le sfide tra il mio Sant’Egidio e gli Aquilotti».

Lo stesso Marco Tardelli, eroe del Mundial ‘82:

«Ho cominciato da bambino, a Pisa, con le partitelle a sette, al campetto di santa Caterina e san Francesco. Mi chiamavano “fil di ferro” per quanto ero magro. Il momento più bello in quegli anni fu quando all’oratorio Lanteri costruimmo il campo di calcio insieme al parroco, padre Bianchi. Stavamo lì dalla mattina alla sera e quando andavi a casa erano sberle, perché invece di studiare eri stato tutto il giorno a giocare a pallone. Adesso invece i genitori ti prendono a sberle se non giochi e diventi un campione ricco e affermato…».

Celebrare la vita rincorrendo un pallone e umanizzando lo scorrere del tempo: se, come scrive Marcello Veneziani, la beatitudine sorge dalla pienezza di libertà, beati in quegli attimi perduti lo sono stati milioni di ragazzini italiani. Istanti di spensieratezza e spontaneità sublimati dalla bellezza poetica del riconoscersi e scegliersi.

Il rintocco assordante delle campane a coprire voci concitate ed entusiaste, talvolta imprecazioni a mezza bocca, scandendo infinite azioni palla al piede: l’esperienza ludica negli spazi dell’oratorio rappresenta nel nostro immaginario collettivo l’estasi della gioia fanciullesca allo stato puro. I piccoli e la loro fantasia al potere, come dichiarato da Emanuele Filippini, ex calciatore, attualmente viceallenatore dell’under 17 italiana, al “Foglio”:

«Il calcio oggi, specie nelle categorie più basse, è fatto soprattutto di schemi, con allenamenti prestabiliti, sin dai Giovanissimi, e nell’organizzazione del lavoro c’è una grande rigidità… Servirebbe invece più spazio alla fantasia, alla sfida uno contro uno con l’avversario. In oratorio facevamo così: ‘Io attacco, tu difendi’, a volte per ore intere. Giocavi contro chiunque, non ti importava l’età, e questo per forza ti portava a crescere. Inoltre tante volte non avevamo casacche diverse e dovevi riconoscere i compagni semplicemente per la faccia o la voce, magari anche a decine di metri di distanza. E questa, mi accorgo, è un’abilità mentale che i giovani calciatori hanno sempre meno: non sanno guardare al di là dei 10 metri in cui si trovano».

Oltre le immagini romantiche ed evocative di ginocchia sbucciate, rosse come il sangue, di ripetuti tripudi dopo aver gonfiato le reti, di attese infinite a bordocampo, di sguardi complici e risate sincere, di partitelle a biliardino e di preti che calciano goffamente un pallone tirando su la tonaca, si cela l’affinamento di aspetti tecnici primordiali: indispensabili per ogni calciatore che si rispetti. Eppure Francesco Toldo, proprio sul versante tecnico, individua le criticità del calcio parrocchiale di oggi:

«Gli oratori per noi erano una casa, entravi e giocavi quando volevi. I nostri allenatori erano persone del posto che avevano un loro lavoro, sapevano giocare a calcio ma non avevano una grande preparazione tecnica. Ecco, forse il problema degli oratori, a livello sportivo, è rimasto questo: non sono riusciti a mettersi al passo coi tempi. Le società di federazione insegnano a giocare con allenatori fatti e finiti, mentre tante squadre d’ispirazione oratoriana non hanno mai voluto investire nella formazione di uno staff atletico di buon livello».

Una tendenza storica, quella di investire principalmente sull’educazione pedagogica piuttosto che su quella tecnica, sottolineata anche da Demetrio Albertini, altro illustre ex calciatore di parrocchia:

«Mio padre era muratore, ma mi faceva anche da allenatore alla Villese. E come spesso accade negli oratori, era più un responsabile che un vero tecnico, allenava i comportamenti oltre che lo stile di gioco. Certo, quando giocavi la priorità era sempre vincere, ma prima di tutto imparavi a stare assieme, rispettando gli altri».

Di esempi significativi ce ne sarebbero ancora molti altri da raccontare ma, al di là delle singole storie e di qualsiasi tipo di analisi tecnica o fantasticheria nostalgica, è l’essenza del calcio sotto gli sguardi vigili dei santi che ci preme esaltare. Che sono le parrocchie, se non l’Italia vivente? Rispettarsi e crescere insieme condividendo prezioso tempo liberato, valorizzare l’amicizia e il significato più genuino della competizione: il calcio in parrocchia è vocazione comunitaria, tradizione popolare, eco di arcitalianità. Il calcio in parrocchia ci ricorda chi siamo e da dove veniamo: è il nostro migliore ritratto.

 

L’autore ringrazia Massimiliano Castellani di “Avvenire” ed Emmanuele Michela de “Il Foglio” per l’ispirazione e per le preziose dichiarazioni degli ex calciatori citati, raccolte nei loro rispettivi articoli.