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Il ddl Zan: alcune osservazioni biopolitiche

Marina di Ravenna
Ph. Ermes Galli / Marina di Ravenna

Le finalità dichiarate

Il ddl Zan «Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità» è stato approvato – com’è noto – dalla Camera dei Deputati il 4 novembre 2020. Immediatamente trasmesso al Senato (il 5 novembre 2020, cioè il giorno dopo la sua approvazione), è ora in sede di Commissione Giustizia.

Esso ha sollevato diverse obiezioni e discussioni dentro e fuori del Senato. In Commissione Giustizia si è tentato di rallentare il suo iter con diversi escamotages relativi al rito. Esso tende a modificare o integrare gli artt. 604-bis e 604-ter CP, nonché a modificare il Decreto legge n. 122/1993, convertito con modificazioni dalla Legge n. 205/1993. Tende, inoltre, a modificare l’art. 90-quater del CPP, il Decreto Lgs. n. 215/2003 e il Decreto legge n. 34/2020, convertito con modificazioni con Legge n. 77/2020. Istituisce, infine, la «Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia». Propone che questa Giornata sia celebrata annualmente il 17 maggio, cioè nel giorno in cui l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha cassato una sua precedente definizione dell’omosessualità: quella che affermava che l’omosessualità era da considerarsi una malattia mentale (decisione del 17 maggio 1990).

Le finalità non dichiarate. Il ddl Zan va molto oltre.  Le finalità dichiarate rappresentano già di per sé un superamento (inteso come sviluppo) della Costituzione vigente. Sicuramente della sua ingessata interpretazione, anche se va rilevato che la Legge fondamentale della Repubblica italiana mantiene, in parte, impostazioni «realistiche» non sempre coerenti con la sua portante intelaiatura complessiva. A questo proposito va rilevato quanto dispone in particolare l’art. 3. Sulla questione si tornerà fra poco.

Le finalità dichiarate del ddl Zan, però, segnano un significativo aggiornamento dell’ethos a livello giuridico positivo: accolgono, infatti, mentalità e costumi egemoni, impostisi sia pure gradualmente dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. Affermano, così, il primato della società sulla Costituzione e, più in generale, sull’ordinamento giuridico positivo.

È la dimostrazione dell’accoglimento del metodo di Carl Schmitt e la sconfessione (almeno apparente) della teoria di Hans Kelsen. Entrambi giuristi positivisti assoluti, ma il primo più aperto all’effettività sociale rispetto al secondo che sembra privilegiare – la cosa, però, è più apparente che sostanziale – gli aspetti formali.

La giurisprudenza della Corte costituzionale italiana aveva anticipato sin dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso questo orientamento (cfr., per esempio, Sentenze n. 126/1968 e n. 147/1969), impostosi successivamente nonostante il dominante formalismo kelseniano, anche in virtù delle teorie ermeneutiche condivise (e, talvolta, apertamente sostenute) dagli stessi kelseniani: le norme – è stato detto –, anche le norme costituzionali, infatti non sarebbero disposizioni ma semplice materiale per costruire la disposizione. Il ddl Zan va oltre queste questioni. Esso, almeno di fatto, segna uno sviluppo radicale del liberalismo politico e giuridico, accolto dalla Costituzione. Lo sviluppo, a sua volta, pone diversi problemi ed evidenzia alcune contraddizioni alle quali intendiamo accennare.

 

Il superamento della Costituzione come sua avanzata attuazione

L’art. 3, c. 1, della Legge fondamentale della Repubblica italiana recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». L’eguaglianza stabilita dalla Costituzione è legata, dunque, alla cittadinanza[1]. È questa il criterio per definire e promuovere la dignità umana, considerata sotto il profilo sociale.

Quanto dispone il c. 2 del medesimo articolo è conseguenza di questa assunzione (che è premessa giuspositivistica inadeguata a cogliere in profondità il concetto di dignità[2]). Per quello che qui interessa sottolineare, ciò rappresenta una questione non decisiva anche se rilevante. Quello, infatti, che è opportuno notare è che il testo dell’art. 3, c. 1, Cost. parla – per escluderne eventuali utilizzazioni antinormative ed antiegualitarie – di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Come dire: lo Stato, nato come artificiale Persona civitatis per superare lotte fratricide e differenze, nonché per instaurare l’ordine – sia pure l’ordine positivistico – è condicio sine qua non dell’eguaglianza e del rispetto dei diritti, sia pure dei diritti identificati con quelli soggettivi, posti cioè con le norme positive.

Quello che rileva, però, ai fini della considerazione che intendiamo fare è il fatto che la Costituzione non nega le diversità; stabilisce che esse non debbono rappresentare motivo per la discriminazione fra cittadini. Così, per esempio, il sesso deve essere considerato irrilevante per il diritto di voto. Il sesso, però, permane come elemento di obiettiva diversità biologica. Esso non dipende da soggettive inclinazioni e «percezioni», non è un sentimento personale, non è un prodotto dell’identità «culturale» scelta e rivendicata. La Costituzione non azzera la realtà anche se, talvolta – è il caso, per esempio, del termine «razza» - sembra sovrapporle visioni in parte ideologiche.

Il ddl Zan, invece, si fonda su un presupposto secondo il quale la realtà coincide con l’effettività e, questa, a sua volta è data da desideri, progetti, sensazioni soggettivi. In altre parole non esisterebbe la realtà ontica; esisterebbe solamente la realtà «culturale» (intesa non come crescita e, prima ancora, come coglimento di ciò che è, ma come sogno dell’individuo o di un gruppo, vale a dire come «costruzione» assolutamente arbitraria della momentanea, contingente identità). Il ddl Zan parte da un (ideologico) presupposto nichilistico ed approda al nichilismo «rafforzato» in virtù delle norme positive. Qualsiasi volontà soggettiva dovrebbe trovare tutela. La malattia mentale, per esempio, non sarebbe definibile e i TSO (Trattamenti sanitari obbligatori) sarebbero violenze esercitate da chi (lo Stato) dovrebbe garantire a ogni cittadino il pieno esercizio dell’autodeterminazione assoluta della sua volontà. Ogni discriminazione sarebbe (o dovrebbe essere) vietata, sia quelle razionalmente inaccettabili sia quelle doverose (per esempio, ma è solo un esempio: la valutazione nelle scuole e nei concorsi).

Non solo. La Costituzione riconosce esplicitamente realtà naturali, vale a dire non esclusivamente culturali (per esempio, la famiglia all’art. 29 e la salute all’art. 32). Il Codice civile e il Codice penale sono caratterizzati, a loro volta, da un sostanziale realismo metafisico[3]. Il ddl Zan, invece, sembra affermare che di naturale non c’è alcunché. Questo ddl, pertanto, sembra muoversi al di fuori dell’ordinamento giuridico positivo; anzi, a ben vedere, contro di esso. La sua ratio è portatrice di una linea «antisistema», non sulla base di propositi negativi (vale a dire di mera «contestazione») ma sul presupposto che la negatività dev’essere eretta a ideale positivo per perseguire e garantire la realizzazione piena della persona (come la intende la dottrina del personalismo contemporaneo[4]). Esso pone premesse che consentiranno ogni decisione e ogni «riconoscimento». Esso, quindi, è paradossalmente un ddl che, se approvato, allarga lo spazio della «permissività». È strumento della libertà come licenza. Guido De Ruggiero direbbe che il ddl Zan è figlio del liberalismo sia pure nella sua «aggiornata» versione radicale[5]. Forse si potrebbe dire che esso non è «contro» la Costituzione (anche se la supera in diverse sue disposizioni), essendo la sua avanzata attuazione.

Su alcuni problemi posti dall’attuazione del liberalismo costituzionale. Le obiezioni avanzate nei confronti del ddl Zan, secondo le quali esso sarebbe liberticida hanno un fondamento, anche se molto relativo. Non considerano, però, che la questione fondamentale da esso posta non è rappresentata da un ulteriore «limite» imposto all’esercizio della «libertà negativa» del soggetto. I confini geografici posti sulla base della dottrina liberale alle opzioni, alle manifestazioni di pensiero e alle azioni dell’individuo sono soggetti a determinazioni variabili. Essi, infatti, rispondono a esigenze contingenti. Perciò lo spazio riservato all’assoluta libertà di azione può essere più o meno largo. Il ddl Zan lo restringe. Non c’è dubbio. Lo restringe, però, per assicurare una radicale libertà individuale. Trattasi di un paradosso e – come vedremo - di un errore. Certamente. Questo restringimento, però, è dovuto a una necessità della dottrina liberale e, nello stesso tempo, è dimostrazione di una sua contraddizione.

La prima contraddizione, quindi, è rappresentata dalla limitazione (pubblica) con la quale si intende allargare lo spazio di «libertà negativa» individuale. È una contraddizione non nuova. Anzi, è un’aporia non nuova. Essa, anche in settori diversi, è emersa in tutta evidenza quando, perseguendo la radicale liberazione postulata dal liberalismo, si è instaurato il socialismo (nelle sue diverse versioni: socialdemocrazia e marxismo principalmente) o, comunque, un totale collettivismo. Il «bavaglio», per usare il linguaggio con il quale la stampa «liberale» si esprime correntemente, è pertanto un’intrinseca necessità delle dottrine impregnate di nichilismo: nulla si può affermare, perché qualsiasi presa di posizione può diventare una contrapposizione.

La seconda contraddizione è rappresentata dal tentativo (destinato a fallire) di conciliare «cose» opposte, inconciliabili. Il ddl Zan, infatti, da una parte stabilisce che va salvaguardata la libertà di espressione e di opinione (art. 4); dall’altra ritiene di poter/dover punire ogni attività propagandistica tesa, fra l’altro, a diffondere convincimenti di superiorità razziale o etnica oppure a discriminare per «motivi razziali, etnici, religiosi o fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità» (art. 2).

Osserviamo innanzitutto che la terminologia usata consente «letture» non univoche e, perciò, lascia molto perplessi. Essa, inoltre, pur definita in premessa come oggi si usa seguendo il discutibile modello tecnico-legislativo nordamericano[6], si serve di una terminologia vaga: per esempio del termine «razza», scientificamente inconsistente anche se sociologicamente mantenuto in vigore. Non è dato sapere, a questo proposito, se «razza» è, per esempio, sinonimo di affinità somatiche o di costume etnico, oppure se assume altri significati.

Il ddl Zan introduce nell’ordinamento la definizione normativa di «identità di genere», qualche anno fa, per altro, accolta innovativamente dalla Corte costituzionale (cfr. Sentenza n. 221/2015) e definita dalla stessa come «elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona».

Osserviamo, poi, che è vero che la propaganda non è necessariamente istigazione la quale, secondo la Corte di Cassazione è «reato di pericolo concreto» configurante un comportamento ritenuto concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti (cfr. Corte di Cassazione Penale, I, Sentenza 23 maggio 2016, n. 21186). Essa, però, può esserne la necessaria premessa, fino a configurarsi come attività prodromica del reato. Per la qualcosa la distinzione fra propaganda e istigazione può in taluni casi diventare molto difficile, soprattutto in presenza di circostanze che non consentono un’immediata individuazione del loro confine. Talvolta, infatti, l’istigazione è da intendersi semplicemente come fatto diretto a suscitare e a rafforzare in altri il proposito criminoso di delinquere o di perpetrare fatti illeciti. Il che può avvenire anche con la propaganda.

Ciò di cui si deve prendere atto, comunque, non è questo o quell’aspetto del ddl Zan ma il suo disegno complessivo e sostanziale, mirante a ridisegnare l’ordine sociale facendo leva su un ordinamento ispirato al liberalismo. Il ddl Zan, quindi, si regge su un presupposto illuministico secondo il quale, per dirlo con le parole di un contemporaneo Autore argentino, «un hombre libre […] no tiene más regla de conducta que él mismo»[7] (un uomo libero non ha altra regola di condotta che se stesso). Con il ddl Zan si vuole dare coerente e integrale attuazione a questo principio, rectius a questa opzione fondamentale dell’uomo e della civiltà moderni. Esso, però, è causa di dissoluzione di ogni forma di convivenza e, soprattutto, oggettivo impedimento alla vita autenticamente umana.

Alcune conseguenze. Diverse conseguenze derivanti da questo principio sono già attuali. Gli ordinamenti giuridici incontrano sempre maggiori difficoltà a legittimare se stessi e a ottenere obbedienza. Soprattutto essi presentano sempre più caratteristiche schizofreniche. Da una parte, infatti, sono chiamati a regolare la vita; dall’altra sono invocati ed applicati esclusivamente per assecondare pretese. Si pensi, per esempio, a quanto accade nel campo sanitario: il Servizio Sanitario non è chiamato a curare (meglio, non è chiamato solo a curare) ma ad assecondare. A suo carico, infatti, sono stati posti l’aborto procurato, il cambiamento di sesso, la distribuzione di molecole che bloccano lo sviluppo ormonale degli adolescenti, le mutilazioni di comodo e via dicendo.

L’opzione liberale di fondo e queste (e altre) scelte concrete interpellano la coscienza; la coscienza individuale, quella degli operatori sanitari, dei medici, dei farmacisti, etc. Interpellano, inoltre, la coscienza del contribuente a carico del quale sono poste queste (e altre) prestazioni. Interpellano, poi, la coscienza dei governanti ma anche quella degli elettori. Pongono, infine, il problema politico e giuridico come questione preliminare delle scelte e delle azioni degli uomini del nostro tempo, i quali – lo dimostra anche il ddl Zan – sono sempre più smarriti e disorientati.

 

[1] Sulla «questione cittadinanza» si rinvia all’ampia monografia di G. CORDINI, Elementi per una teoria giuridica della cittadinanza, Padova, Cedam, 1998.

[2] Sul significato polisenso del termine «dignità» e per taluni suoi rivolti politico-giuridici si veda AA.VV., La dignité humaine, a cura di Bernard Dumont, Miguel Ayuso, Danilo Castellano, Parigi, Pierre-Guillaume de Roux, 2020 e G. TURCO, Dignità e diritti, Torino, Giappichelli 2017.

[3] Per la considerazione del «realismo metafisico», sul quale poggia soprattutto il Codice civile italiano del 1942 (non sempre, però, le sue novazioni del dopoguerra) si rinvia a D. CASTELLANO, Quale diritto?. Su fonti, forme e fondamento della giuridicità, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, pp. 93-116.

[4] Sulla «lettura» della dottrina del «personalismo contemporaneo» come forma di radicale individualismo si rinvia a D. CASTELLANO, L’ordine politico-giuridico «modulare» del personalismo contemporaneo, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2007, nonché a ID., Introduzione alla filosofia della politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2020, pp. 193-206.

[5] Cfr. G. DE RUGGIERO, Storia del liberalismo europeo, Bari, Laterza, 1959 (VI ed.), p. 76.

[6] La questione è complessa. Ci limitiamo ad osservare che questo modello di fatto parcellizza l’ordinamento giuridico: ogni legge diventa un micro-ordinamento in quanto la sua interpretazione è vincolata alle definizioni linguistiche premesse al suo articolato. Le definizioni sono vincolanti anche quando l’ordinamento nel suo insieme ne usa altre con significati talvolta non identici alle definizioni (convenzionali) premesse a ogni norma.

[7] J. F. SEGOVIA, Tolerancia religiosa y razón de Estado, Madrid, Dykinson, 2021, p. 255.