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Proposta di legge Zan: il libertinaggio tutelato e promosso per legge?

 Piero della Francesca, Storie della Vera Croce, Cappella Bacci, Arezzo
Ph. Antonio Zama / Piero della Francesca, Storie della Vera Croce, Cappella Bacci, Arezzo

[La Proposta di legge Zan, recentemente approvata dalla Camera dei Deputati e ora in discussione al Senato, investe questioni etiche, politiche e giuridiche, cioè tutti e tre i settori della presente Rubrica «Tre Bio». Riteniamo opportuno, pertanto, riprendere dal periodico «Instaurare» (Udine, a. XLXI, n. 3/2020) l’intervento a firma di Daniele Mattiussi]

 

Una Proposta di legge contestata

Il 4 novembre 2020 la Camera dei Deputati della Repubblica italiana ha approvato con 265 voti favorevoli e 193 contrari la Proposta di legge Zan, avente ad oggetto «Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità».

La Proposta di legge approvata è il testo unificato di diverse Proposte di legge presentate rispettivamente da Alessandro Zan (PD) e altri, da Laura Boldrini (LeU), da Ivan Scalfarotto (PD) e altri, da Mario Perantoni (M5S) e altri, da Giusi Bartolozzi (FI). Queste Proposte di legge, successivamente unificate, erano state presentate da deputati appartenenti a partiti o movimenti di orientamento sostanzialmente liberal-radicale. Fra questi principalmente da deputati del PD (partito radicale di massa) e dal M5S (movimento di ispirazione vagamente sessantottina). Anche FI ha (coerentemente rispetto alle proprie premesse ideologiche) preso iniziativa a favore delle misure proposte.

Ora il testo della Proposta di legge (unificato) approvato dalla Camera si trova al Senato (è stato trasmesso il 5 novembre 2020, cioè il giorno successivo alla sua approvazione da parte della Camera).

Che cosa prevede in sintesi la normativa approvata dalla Camera dei Deputati e ora in discussione al Senato?

Essa prevede:

1) l’istituzione di nuovi reati;

2) l’istituzione di una giornata nazionale contro la discriminazione;

3) lo stanziamento di quattro milioni di euro all’anno (già dal 2020) per il sostegno di iniziative definite di «contrasto».

Per quanto riguarda l’istituzione dei nuovi reati, la Proposta approvata prevede:

a) la reclusione fino ad un anno e sei mesi o multa fino a 6000 euro per chiunque istiga a commettere o commette atti di discriminazione fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere;

b) la reclusione da sei mesi a quattro anni per chiunque istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per quanto elencato sub a);

c) la reclusione da sei mesi a quattro anni per chiunque partecipi o presti assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi fra i propri scopi l’incitamento, la discriminazione o la violenza per quanto elencato sub a).

Vengono, poi, previste aggravanti della pena per qualunque reato commesso per finalità di discriminazione o odio razziale, etnico, nazionale o religioso o per agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le predette finalità.

 

Una «contraddizione tecnica» della Proposta di legge

La citata Proposta di legge con il suo articolo 3 introduce – come è stato osservato – una clausola di salvaguardia dell’art. 21 della Costituzione. È singolare che una Proposta di legge, destinata – se approvata e promulgata – a diventare legge ordinaria, tuteli una norma costituzionale, la quale è sovraordinata a ogni legge ordinaria.  La norma ordinaria deve essere conforme alla Costituzione. Non può proporsi la sua tutela. Siamo, evidentemente, in presenza di una «contraddizione tecnica», che la ratio dell’ordinamento liberal-costituzionale non dovrebbe tollerare. Tanto meno ammettere. Si assiste, così, al ribaltamento della gerarchia ordinamentale.

È, inoltre, significativo, molto significativo, che la Proposta di legge si preoccupi di questa tutela. Se è necessaria una tutela di questo tipo significa che le disposizioni raccolte nella medesima Proposta di legge possono rappresentare un pericolo per il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altra forma di diffusione (art. 21 Cost.). Si è avuto, insomma, il sospetto da parte degli stessi proponenti che la Proposta di legge possa rappresentare una premessa per un attentato alla libertà liberale oltre che alla libertà in sé.

In altre parole, l’articolo 3 della Proposta, il quale testualmente dispone che «sono consentite la libera espressione di convincimenti ed opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte», darebbe ragione a coloro che temono che la probabile Legge Zan sia una legge liberticida.

Liberticida, innanzitutto, della libertà liberale, che è premessa della stessa citata Proposta di legge: il liberalismo, infatti, è la matrice del radicalismo. Ed è per questo che esso non può essere combattuto con le armi del liberalismo, come si illudono di poter fare diversi oppositori a questa Proposta di legge. In primis la Conferenza Episcopale Italiana che teme l’introduzione della fattispecie del reato di opinione e derive liberticide. La Conferenza Episcopale Italiana, infatti, aveva preso posizione lo scorso 10 giugno, affermando che con la Proposta di legge Zan «si finirebbe col colpire l’espressione di una legittima opinione, più che sanzionare la discriminazione».

 

Equivoci, incomprensioni ed errori

Innanzitutto va osservato che il linguaggio, pur essendo lo stesso, dice «cose» diverse, molto diverse. La Proposta di legge approvata parla, per esempio, di «legittimità» come la Conferenza Episcopale Italiana. La definizione di «legittimità» usata dalle due parti è assunta, però, con significati radicalmente diversi.

Per la Proposta di legge approvata il 4 novembre scorso, infatti, legittimi sono norme e comportamenti conformi all’ordinamento positivo. Legittimità, pertanto, per la Proposta di legge approvata è sinonimo di legalità: tutto ciò che l’ordinamento positivo prescrive o consente è legittimo. Anche ciò che il senso comune non considera tale. Se l’ordinamento giuridico positivo, pertanto, consentisse o prescrivesse persecuzioni razziali, esse sarebbero legittime.

La Conferenza Episcopale Italiana, invece, usa l’aggettivo «legittimo» come sinonimo di «giusto»: non è l’ordinamento positivo, in questo caso, criterio della legittimità ma la giustizia. Se l’ordinamento positivo la rispetta, è legittimo; se esso, al contrario, non la rispetta è illegittimo. L’ordinamento positivo, infatti, non può pretendere di essere la fonte del diritto, essendo solamente strumento per la sua contingente individuazione e conseguente prescrizione.

La stessa «cosa» vale per il termine «discriminazione». «Discriminare» può significare trattare in maniera ingiusta le persone violando loro diritti fondamentali (altro aggettivo che richiederebbe approfondimenti). La violazione sarebbe rappresentata dalla negazione del riconoscimento del diritto in sé, non semplicemente dalla mancata applicazione dell’uguaglianza (che è prospettiva meramente formalistica proposta dalle dottrine illuministiche).

Nel nostro tempo il significato di «discriminazione» non è questo. Esso non significa dividere sulla base di un giudizio basato sull’oggettività delle «cose», ma semplicemente trattamento non uniforme. È parzialmente cambiato (il significato di «discriminazione») anche rispetto alla dottrina illuministica che rivendicò ed impose il suo significato individualistico formale: tutti gli uomini, infatti, affermò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, nascono e vivono liberi ed uguali nei diritti che, a loro volta, sono determinati – secondo questa Dichiarazione – dalla legge (positiva) quale espressione della volontà generale, cioè dello Stato.

L’uomo, alla luce di questa dottrina, pur ridotto a cittadino (cioè a un’unità frazionaria del corpo politico), non era identificato con la sua sola volontà.

La Proposta di legge approvata dalla Camera dei Deputati espelle dall’orizzonte ogni (residuo di) ordine metafisico e, persino, l’ordine creato dallo Stato. L’eguaglianza dei diritti è, ora, ancorata esclusivamente alla volontà individuale, formalmente uguale per tutti: a ognuno deve essere riconosciuto, infatti, il diritto di volere quello che vuole (ognuno, cioè, deve avere la possibilità di autodeterminarsi assolutamente). Essa, pertanto, pur uguale per tutti, è sostanzialmente diversa da individuo ad individuo. Condizione dunque, per evitare la «discriminazione» e garantire la libertà, è l’eliminazione di ogni ordine metafisico e di ogni imposizione eteronoma. Ogni criterio e ogni legge non condivisi rappresenterebbero un attentato al libero esercizio della volontà.

L’ordine metafisico sarebbe in sé e per sé discriminatorio in quanto impone di «riconoscere» che, per esempio, un maschio non è una femmina e che i sessi, essendo diversi, postulano ruoli diversi, anche se talvolta le differenze possono essere minime. Solamente sulla base di questa «concezione» dell’eguaglianza è possibile sostenere – lo fece, per esempio, recentemente anche Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica italiana – che «la discriminazione sessuale viola il principio di uguaglianza». È difficile «leggere» con significato diverso questa affermazione.

Del resto le riforme legislative e sociali gradualmente realizzate dalla Repubblica italiana (ma anche da altri Paesi) portano a questa conclusione: il «matrimonio» omosessuale è stato riconosciuto da diversi ordinamenti e ad esso sono stati riconosciuti gli stessi diritti riconosciuti a quello «naturale»; ai padri sono concessi in diversi Paesi congedi per allattamento come alle madri;  alle «unioni civili» viene riconosciuto, talvolta per legge talvolta per via giurisprudenziale, il diritto all’adozione; molte volte nei registri di stato civile i genitori non sono registrati come padre e madre ma come genitore 1 e genitore 2, e via dicendo. Per eliminare la discriminazione è necessario, insomma, creare un ordine nuovo, alternativo rispetto a quello della creazione e conforme alla sola e insindacabile volontà sovrana degli uomini, i quali sempre più rivendicano una delirante onnipotenza.

Pare che la Conferenza Episcopale Italiana usi il termine «discriminazione» con altro significato rispetto a quello secondo il quale viene usato dalla Proposta di legge de quo.

Il problema, però, si complica nonostante l’uso alternativo del termine «discriminazione» fatto. Pur assumendo, infatti il termine «discriminazione» altro significato nel linguaggio (e, prima ancora, nella mente) della Conferenza Episcopale Italiana, alla fine la medesima Conferenza finisce per accogliere i correnti luoghi comuni. I Vescovi italiani invocano, infatti, il pluralismo come condizione della libertà di pensiero (che non è la libertà del pensiero). Paventano l’introduzione del reato di opinione che gli ordinamenti giuridici liberal-democratici vigenti conservano (per esempio quello di apologia di reato).

Il reato di apologia di reato diventa, infatti, reato di opinione in presenza di una teoria del reato che lo fa dipendere unicamente dalla fattispecie (la fattispecie dovrebbe, al contrario, prevedere il reato in quanto azione colpevolmente o dolosamente disordinata rispetto all’ordine etico e lesiva dell’ordine naturale per la sua parte rilevante per la comunità politica): se è la fattispecie a creare la sostanza del reato, esso è prodotto o della volontà dello Stato o della volontà della maggioranza; dipenderebbe solamente dall’ordine pubblico imposto. Gli ordinamenti giuridici liberal-democratici, quindi, sono già caratterizzati da ciò che la Conferenza Episcopale Italiana paventa.

 

Altri problemi

La Proposta di legge approvata dalla Camera dei Deputati riconosce la libertà di espressione per quel che attiene ai convincimenti e alle opinioni. Consente, inoltre, la pratica di ogni condotta come richiesto coerentemente dal pluralismo delle idee e delle scelte.

Andiamo per gradi.

Innanzitutto la libertà di espressione è circoscritta. Non è assoluta come ci si dovrebbe aspettare sulla base del riconosciuto diritto di autodeterminazione assoluta della persona. Questo diritto è stato riconosciuto come uno dei due cardini dell’ordinamento costituzionale italiano con diverse Sentenze della Corte costituzionale. Circoscrivere la libertà di espressione è cosa necessaria. Essa, però, cozza contro la Weltanschauung liberal-radicale, la quale richiederebbe l’eliminazione di ogni limite e di ogni criterio per assicurare la piena pratica della «libertà negativa».

C’è, poi, nella Proposta di legge de quo un criterio «positivo» imposto per la libertà di espressione di convincimenti e opinioni: l’esercizio della libertà di espressione deve avvenire secondo la ratio pluralistica per garantire la pluralità delle idee e delle scelte. È escluso il suo esercizio nel caso in cui non si rispetti questo criterio. Con il che viene ripescata la dottrina di Locke. Questa dottrina assicura la libertà a tutti, ma non ai cattolici, perché i cattolici, ritenendo che sia possibile conoscere la verità delle «cose», mettono in discussione il pluralismo come relativismo (che, come osservò Ratzinger, è propriamente la dittatura dell’opinione).

Quello che si deve ammettere è il principio della pluralità, non il pluralismo nichilistico. Il primo – il principio della pluralità – consente e suggerisce di percorrere vie diverse per arrivare alla verità; il secondo – il principio del pluralismo -, identificando la verità con l’opinione, la vanifica. Esso, pertanto, è uno scetticismo radicale (neanche mascherato).

Le conseguenze che ne derivano sono rilevanti, molto rilevanti: la pluralità richiede discussioni e confronti per arrivare a cogliere la natura e l’ordine delle «cose» (Sinibaldo de’ Fieschi, divenuto Papa con il nome di Innocenzo IV, sosteneva giustamente che per plures melius veritas inquiritur); il pluralismo, invece, fa dell’opinione (talvolta  nel campo politico erroneamente identificata con il volontaristico consenso) la fonte legittimante l’ordine imposto che solamente per caso può coincidere  con l’ordine delle «cose». Il pluralismo, quindi, è la premessa del positivismo in tutti i settori: la morale viene ridotta a costume, la politica a potere, il diritto a norma positiva, resa effettiva, e via dicendo.

La Proposta di legge nel rispetto del pluralismo legittima l’espressione di ogni convincimento e di tutte le opinioni. Non ogni convincimento, però, ha diritto di cittadinanza: a diversi convincimenti dei matti, per esempio, non va consentita l’applicazione e nemmeno a diversi convincimenti dei delinquenti va garantito lo spazio per la loro attuazione. Nemmeno a molti convincimenti dei minorenni è ragionevole garantire sempre, comunque e ovunque la loro realizzazione.

 

Il nuovo ruolo della legge

La Proposta di legge Zan, approvata dalla Camera dei Deputati, evidenzia un cambiamento sostanziale della finalità delle norme dello Stato. È chiaro, infatti, che la legge alla luce di questa Proposta non è chiamata a prescrivere o a vietare: a prescrivere il bene (dalla Proposta erroneamente identificato con la «libertà negativa») e a vietare il male (la cui essenza, secondo la medesima Proposta, starebbe nella sola violazione della legalità). Essa, al contrario, è chiamata dalla citata Proposta (coerentemente rispetto alle dottrine liberali) a garantire uno spazio di libertà (anarchica) individuale entro il quale, pertanto, si può fare quello che si vuole.

La legge è chiamata, quindi, a garantire l’anarchia sia pure entro i limiti consentiti dall’ordinamento giuridico positivo. È quanto teorizzò, per esempio, Kant – pensatore molto contraddittorio – affermando che la libertà di ognuno termina dove inizia la libertà degli altri (entro questi confini ognuno, infatti, avrebbe il diritto di fare quello che vuole). È quanto rivendicò in maniera forte il personalismo contemporaneo che intese assicurare alla persona i mezzi per l’esercizio della libertà anarchica. È quanto insegue ogni ordinamento d’ispirazione liberal-radicale, codificando «nuovi diritti» il cui riconoscimento porta coerentemente a Proposte di legge come quelle sull’omofobia e sulla transfobia destinate, in Italia, a diventare legge dello Stato.

 

La questione del «non ritorno»

Opporsi, dal loro «interno», allo sviluppo coerente delle premesse ideologiche assunte è, di diritto e di fatto, impossibile. Presto o tardi esse finiranno per trovare sviluppo ed applicazioni sempre maggiori. Cercare di erigere «dighe» senza intervenire a monte sull’afflusso delle acque porta solamente a ritardare l’alluvione.

Con riferimento alla Proposta di legge Zan sull’omofobia e sulla transfobia è da ritenere perdente l’opposizione della Conferenza Episcopale Italiana, cui si è accennato, o quella di diverse testate giornalistiche (per esempio di «Famiglia cristiana»), che ritengono di poter invocare il principio del pluralismo per ostacolarne l’approvazione. «Famiglia cristiana», infatti, afferma che essa proibirebbe la libertà di pensiero (che è rivendicazione liberale) e imporrebbe un unico punto di vista nell’educazione della persona.

Va considerato inutile anche l’impegno dei cattolici «conservatori» che ritengono di poter appellarsi alle dottrine e ai «diritti liberali» per combattere contro l’approvazione di una Proposta di legge che «sviluppa» in senso radicale la dottrina liberale e stabilisce l’applicazione coerente dei «diritti» implicati da questa dottrina.

È necessario, invece, proporre un’alternativa legata non a opinioni ma alla verità. È necessario impegnarsi per il riconoscimento e l’affermazione dell’ordine naturale. È necessario considerare che ciò che si costruisce sulla sabbia presto o tardi andrà in rovina (Mt 7, 24-27 e Lc 6, 46-49). Le opinioni (la sabbia) non possono essere né fondamento delle scelte ordinamentali né condizioni di legittimazione delle azioni individuali.

Le opinioni sono «via» alla verità, non sono la verità. Ci sono, infatti, opinioni buone e opinioni sbagliate. Esse, pertanto, richiedono di essere vagliate. Solamente così porteranno all’«idea», che la Proposta di legge Zan scambia erroneamente con l’opinione. Se la tesi implicitamente (ma non tanto) sostenuta nella citata Proposta fosse da accogliere si dovrebbe concludere che la salute, come la malattia, sarebbe soltanto un’opinione: dipenderebbe da un punto di vista e da un convincimento. Non sarebbe legittimo, pertanto, - per fare solo un esempio – insegnare nelle Facoltà di Medicina la fisiologia e la patologia. Esse, infatti, non sarebbero scienza ma solo opinione.

Se si considerano queste questioni il «non ritorno», ovvero un’inversione di tendenza, una contraria scelta legislativa, un diverso modo di considerare il diritto, diventa impossibile. Per l’abbandono di questa strada, infatti, è indispensabile abbandonare preliminarmente le opzioni teoriche sbagliate. È necessario, in altre parole, uscire dalla Weltanschauung liberale e dalle sue derivate dottrine. È necessario, inoltre, interrompere la coltivazione di illusioni che portano a ritenere, per esempio, che la Costituzione italiana sia «cattolica» e, comunque la «migliore del mondo». Persistendo nella coltivazione di illusioni come queste, si finisce per portare acqua al molino di altre posizioni e di altri padroni.

 

La «religione civile» presupposta ed imposta

La Proposta di legge Zan, attualmente in discussione al Senato della Repubblica italiana, istituisce – com’è noto – una «giornata nazionale» contro la discriminazione. Ovviamente contro la discriminazione come intesa dalla medesima Proposta di legge, sulla quale ci siamo soffermati in un precedente paragrafo, parlando di «Equivoci, incomprensioni ed errori». La giornata nazionale serve a «indottrinare»; è (o, meglio, sarà) un’occasione di propaganda a favore di una teoria che postula «diritti» disumani e che promuove non l’uomo ma la sua bestialità.

Il laicismo ha fatto costantemente uso della «religione civile» come via di affrancamento dalla religione (vera). Ha sempre preteso di sostituirla. La «religione civile» è stata (ed è) uno strumento politico-pedagogico. Essa ha accompagnato il processo di secolarizzazione nel secolo dell’Illuminismo e in quelli successivi.

Rousseau la teorizzò in maniera esemplare (i dogmi della «religione civile» – disse – sono raccolti nell’ordinamento giuridico statuale positivo). Mazzini, da parte sua, contribuì successivamente in maniera decisa a farla approdare al razionalismo e al positivismo. Diversi regimi dell’epoca contemporanea la utilizzarono quale fattore di «coesione» e di consenso. Mussolini, per esempio, tentò di creare – non riuscendovi pienamente – una «religione secolarizzata» (che è, apparentemente, una contradictio in adiecto): si pensi ai tentativi di trasformare la Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma in tempio della patria (utilizzando a tal fine diverse celebrazioni ma, soprattutto, le funzioni religiose in omaggio – non diciamo intenzionalmente in suffragio – del Milite ignoto), alla erezione dei sacrari di guerra e dei monumenti ai caduti, alla creazione dei parchi della rimembranza.

Anche la Repubblica italiana – a imitazione di quanto già avvenuto negli Stati Uniti d’America – ha eretto a religione la democrazia (moderna) e il relativismo. Il passaggio dalla religione alla «religione civile» è chiaramente «leggibile» nella cancellazione della religione «ufficiale» dello Stato (che è già una diminutio rispetto alla sua subordinazione alla religione rivelata), sostituendola con la religione di Stato. Del resto anche il regime liberale, erigendo per esempio l’altare della patria, aveva operato nella medesima direzione prima dell’avvento del fascismo.

Ora la Proposta di legge Zan «recupera» ratio e funzione della «religione civile», soprattutto nella sua formulazione repubblicana. La Proposta, infatti, istituisce una «giornata nazionale di contrasto», che propriamente è, invece, una giornata a favore dell’opzione del relativismo morale, della «libertà negativa», dei «nuovi diritti». La «giornata nazionale di contrasto» è, quindi, la celebrazione (imposta) del libertinaggio, proposto come «ideale» soprattutto alle nuove generazioni e, persino, ai fanciulli che non godono ancora di capacità di giudizio critico.

 

Il problema delle risorse ovvero del prelievo fiscale per simili iniziative

La Proposta di legge Zan stanzia quattro milioni di euro all’anno (in verità li stanzia con un anno di anticipo, poiché alla fine del 2020 essa non è stata ancora approvata) per iniziative di contrasto (che per l’anno 2020 non si sono tenute e non si possono tenere). In realtà queste iniziative sono attività di propaganda, di diffusione e di indottrinamento. I quattro milioni di euro sono ricavati fiscalmente, propriamente parlando con le imposte.

Quindi tutti i contribuenti vi concorrono, perché sono tenuti a concorrervi. È moralmente lecito questo prelievo? La domanda è rivolta innanzitutto alla Conferenza Episcopale Italiana che non risulta si sia pronunciata a questo proposito. È una questione, però, che riguarda tutti. È una questione di coscienza finora ignorata. È bene, anzi doveroso, pensarci per proporre una soluzione moralmente corretta.

 

Due brevi osservazioni finali

La Proposta di legge Zan parla di sesso senza definirlo. «Respinge», di fatto, la definizione di sesso realistica comunemente accettata: sesso e orientamento sessuale secondo la Proposta sarebbero la medesima cosa così come genere e identità di genere. Il suo linguaggio rivela un accoglimento del significato di sesso e di genere esclusivamente «culturale». È ignorato ogni riferimento «biologico». Ciò evidenzia che la Proposta di legge de quo parte da presupposti «convenzionali», i quali consentono di costruire qualsiasi teoria. Essi, però, sono campati in aria, perché ignorano la realtà. Può il legislatore approvare norme che ignorano la realtà? In altre parole, può la legge prescindere dalla realtà e prescrivere o vietare sulla base di «assunzioni» arbitrarie?

Seconda osservazione. L’assunzione arbitraria non consente di considerare «cultura» ciò al quale essa porta. «Cultura», infatti, deriva da coltivare. Non si può coltivare ciò che è immaginario. Ciò che si coltiva, poi, può crescere soltanto secondo il proprio intrinseco fine, non secondo finalità capricciose. Ciò vale non solamente, per esempio, per le coltivazioni agricole, ma anche, ancora per esempio, per l’amicizia. L’amicizia, infatti, può essere «coltivata» solamente se si tende veramente ad essa, non ad «altro». La stessa cosa dovrebbe valere per il sesso.

L’approvazione della Proposta di legge Zan da parte della Camera dei Deputati è segno della crisi profonda dei Parlamenti che già in passato hanno rivendicato poteri assoluti. Vittorio Emanuele Orlando, grande giurista, liberale e massone, richiamò i suoi colleghi dell’Assemblea costituente della Repubblica italiana a tenere i piedi per terra. Egli, infatti, in una seduta di questa Assemblea del marzo 1947, di fronte al delirio di onnipotenza manifestato e rivendicato da diversi deputati, ricordò loro che godevano di molti poteri, meno uno: quello di trasformare il bene in male e il male in bene.

Confidiamo che il Senato della Repubblica italiana ricordi questo ammonimento in occasione della (prossima) discussione della Proposta di legge Zan.