x

x

Rapporti sessuali: validità e limiti al consenso

L’esperienza comune ci dice che sono gli uomini più delle donne a confondere un complimento o un sorriso come segnali di interesse sentimentale e/o sessuale
Rapporti sessuali: validità e limiti al consenso
Rapporti sessuali: validità e limiti al consenso

Rapporti sessuali: validità e limiti al consenso


1. Consenso implicito e i suoi equivoci

La Convenzione di Istanbul, adottata dal Consiglio d’Europa e ratificata dall’Italia nel 2013, all’art. 36 prescrive di reprimere e in maniera adeguata rapporti o atti sessuali compiuti su persona non consenziente, specificando che il consenso deve essere liberamente espresso e valutato nel contesto circostanziale.

In Italia la legge sulla violenza sessuale, risalente al 1996, ha già adottato il principio consensualistico, rompendo con il passato del codice fascista, dove la violenza sessuale era reato contro la moralità pubblica e il buon costume e non un reato contro la persona e la sua libertà di autodeterminazione sul piano sessuale.

Si parla perciò di consenso all’atto sessuale, che deve essere libero e revocabile. Il consenso può essere esplicito o implicito. Nel primo caso si avrà un consenso manifestato esplicitamente, a parole. Nel secondo caso, più complesso, il consenso si evince dai segnali comportamentali della persona, dall’atteggiamento, dalla situazione, dal contesto. In questi casi è facile sbagliarsi, fraintendere i segnali e travisare le reali intenzioni di chi abbiamo davanti. Tali fraintendimenti possono, in casi estremi, giocare un ruolo nelle avances sessuali indesiderate e anche nello stupro.

L’esperienza comune ci dice che sono gli uomini più delle donne a confondere un complimento o un sorriso come segnali di interesse sentimentale e/o sessuale.

I ricercatori hanno confermato questa evidenza e hanno cercato di darne una spiegazione. Uno studio di M.G. Haselton all’Università di Texas-Austin (2003) ha confermato che in effetti i maschi sovrastimano l’interesse sessuale che una donna può avere nei propri confronti, fraintendendo dei segnali che le donne mandano per semplice simpatia o amicizia e ritenendoli dei messaggi di apertura più di quanto effettivamente siano.

La ricerca, effettuata su oltre 500 soggetti, evidenzia che, mentre gli uomini tendono a sovrastimare l’interesse sessuale delle donne, le donne, dalla loro, sottostimano la volontà dell’uomo di impegnarsi nel rapporto. Si evidenzia inoltre che gli uomini non soddisfatti della loro vita sessuale hanno una maggiore tendenza a sovrastimare le suggestioni sessuali femminili, mentre gli uomini più soddisfatti della loro vita sessuale risultano giudici migliori, essendo accurati ed oggettivi nel giudicare i comportamenti femminili.

Questo fenomeno viene indicato come “Sexual overperception bias” e ne sono state fornite diverse spiegazioni. Una prima di tipo biologico-evolutivo si rifà alla selezione naturale, per cui la capacità di riprodursi dell’uomo è legata alla capacità di cogliere tutte le opportunità disponibili, per cui è meglio correre il rischio di un rifiuto piuttosto che perdere un’opportunità riproduttiva. Per le donne, invece, il fatto di essere illuse da un uomo porta a pesanti conseguenze: gravidanza, crescere il figlio da sola e risultare meno attraente per altri uomini, quindi è per loro più adattivo un comportamento più cauto, alle volte scettico, nella ricerca delle relazioni sessuali. La spiegazione evoluzionistica non giustifica però tutti i fraintendimenti. Una seconda spiegazione si basa sui meccanismi proiettivi, per cui si vede solo ciò che si vuole vedere nel momento in cui i desideri del soggetto (e le sue urgenze sessuali) vengono proiettati sull’altra persona, portando a fraintendere le reali finalità di quest’ultima.

L’esperimento di M.G. Heselton è stato poi replicato nel 2014 in Norvegia e ha mostrato gli stessi risultati. È interessante sottolineare come la Norvegia abbia una cultura in cui vi è una grande equità tra uomini e donne, ma ciò non ha influenza sui risultati della ricerca. Ciò suggerisce che le differenze tra le diverse nazioni riguardo la percezione di equità tra uomo e donna non influiscono direttamente sulla stima (eccessiva o no) dei segnali sessuali e quindi sul sexual overperception bias.

Si può allora evitare o diminuire questo bias cognitivo? Teresa Treat, che lavora presso l’University of Iowa, ha cercato di verificare la possibilità di insegnare ad alcuni studenti a “leggere” correttamente i segnali sessuali “giusti”.

Il campione della sua ricerca era composto da 276 ragazze e 220 ragazzi, i quali dovevano dichiarare come percepivano i segnali inviati dalle ragazze riguardo a un possibile interesse sessuale osservando una serie di fotografie di ragazze riprese in scene reali. Le foto delle ragazze erano di 3 tipi: interesse sessuale, comportamento seduttivo, comportamento normale. La metà degli studenti aveva ricevuto prima del test delle istruzioni su alcuni comportamenti non verbali, come il linguaggio del corpo o le espressioni facciali. Tutti i partecipanti avevano inoltre completato un questionario nel quale indicavano i loro atteggiamenti nei confronti dello stupro. I partecipanti avevano risposto su una scala di sette punti da 1 = “per niente d’accordo,” a 7 = “molto d’accordo” – su questioni come: “Se una donna viene violentata mentre lei è ubriaca, lei è almeno un po’ responsabile della situazione fuori controllo che si viene a creare.”

I risultati hanno rivelato che gli studenti che avevano ricevuto istruzioni sui segnali non verbali prima di valutare le fotografie erano più propensi a notare anche le espressioni emotive oltre all’abbigliamento e alla bellezza fisica mentre formulavano i loro giudizi sull’interesse sessuale percepito. Gli studenti che avevano mostrato atteggiamenti più propensi allo stupro tenevano meno in conto le espressioni emotive delle donne fotografate e osservavano soprattutto l’abbigliamento e l’attrattiva sessuale della ragazza. Tuttavia, anche questi soggetti, se istruiti sul linguaggio del corpo e sulle espressioni emotive, tendevano a spostare la loro attenzione anche sui riferimenti emotivi.

Questi risultati suggeriscono che la formazione cognitiva potrebbe diventare un utile strumento per gli sforzi di prevenzione della violenza sessuale. Tale formazione potrebbe riguardare anche i comportamenti osservabili in contesti sociali normalmente associati all’invito sessuale, come i bar o le feste in casa. Si è difatti osservato come, in primis negli Stati Uniti, le aggressioni sessuali alle ragazze nei campus universitari sembrano aver raggiunto “livelli epidemici”. In questi contesti il fenomeno dei fraintendimenti dei segnali sessuali viene spesso amplificato dal consumo di alcol.

I ricercatori sottolineano come l’alcol non sia causa di violenza sessuale ma il suo consumo può far aumentare la vulnerabilità alla violenza sessuale, aumentando la probabilità che qualcuno fraintenda i segnali comportamentali, dando loro un erroneo significato sessuale. Il modo per combattere questo fenomeno non può basarsi solo sul mettere in guardia le ragazze ai rischi che corrono assumendo alcol o recandosi alle feste; bisogna cercare di aumentare anche la consapevolezza dei ragazzi sulla cultura del consenso e sui rischi che corrono in situazioni che vengono spesso sottostimate.

 

2. Un caso particolare: il consenso al rapporto sessuale sotto l’effetto di sostanze alcoliche


Il tema del consenso al rapporto sessuale sotto l’effetto di sostanze alcoliche è molto complesso e ha, in tempi recenti, preso importanza nel dibattito pubblico a causa di alcuni noti fatti di cronaca.

Alcol e consenso: cosa dice la legge italiana

L’assunzione di alcol da parte della vittima rientra nelle ipotesi previste dall’art. 609 bis, comma 2, n.1, rientrando tra le condizioni di inferiorità psichica.

Tale condizione rileva anche se la vittima ha assunto tali sostanze volontariamente. In tal senso si è infatti pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza 45589/2017, in cui ha affermato che lo stato di infermità psichica può essere determinato dall’assunzione di bevande alcoliche “anche se la parte offesa ha volontariamente assunto alcol e droghe, rilevando solo la sua condizione di inferiorità psichica o fisica seguente all’assunzione delle dette sostanze[1]. Quello che rileva, quindi, non è chi ha cagionato lo stato di incapacità, ma se al momento degli atti sessuali la vittima sia in grado o meno di esprimere un consenso che non risulti in qualche modo viziato. Difatti, la condizione della vittima, a prescindere da chi l’abbia provocata, può essere strumentalizzata per il soddisfacimento degli impulsi sessuali dell’agente.

Discorso differente si ha invece riguardo l’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 609-ter, comma 1, n. 2 c.p. (“La pena stabilita dall’articolo 609-bis è aumentata di un terzo se i fatti ivi previsti sono commessi: 2. con l’uso di armi o di sostanze alcoliche, narcotiche o stupefacenti o di altri strumenti o sostanze gravemente lesivi della salute della persona offesa”).

A riguardo si è espressa la Corte di Cassazione con sentenza 32462/2018. In tale pronuncia, in primo luogo, la Corte ribadisce ciò che aveva precedentemente affermato in relazione all’assunzione volontaria delle sostanze da parte della vittima: la condizione di inferiorità psichica o fisica può prospettarsi anche a seguito dell’assunzione di alcolici o stupefacenti, indipendentemente dal fatto che l’assunzione sia volontaria o indotta. Difatti, ai fini della valutazione circa la sussistenza di un “valido consenso” al rapporto sessuale, “la condizione di incapacità o incoscienza – nel caso di specie l’ubriachezza- rileva di per sé a prescindere se tale stato sia stato dolosamente provocato o derivante da una volontaria assunzione di alcol da parte della vittima, in quanto capace di incidere sul potere di autodeterminazione della persona e potendo, di contro, essere sfruttata dall’agente per il proprio soddisfacimento sessuale” (Pentangelo, Pollio, & Rapuano, 2019, p. 1).

Stesso discorso non vale però per la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 609-ter comma 1, n. 2 c.p. La Corte infatti sostiene che in questo caso sia necessario che l’uso delle sostanze alcoliche sia strumentale alla violenza, “ovvero deve essere il soggetto attivo del reato che usa l’alcol per la violenza, somministrandolo alla vittima; invece l’uso volontario, incide sì, come visto, sulla valutazione del valido consenso, ma non anche sulla sussistenza dell’aggravante [2].

Ancora, nella sentenza 44292/2019 [3] la Corte risponde al ricorrente, il quale sosteneva che, riguardo il reato di violenza sessuale a lui contestato, la Corte di Appello non avesse tenuto conto che la ragazza, molto spregiudicata e con una familiarità all’uso di droghe e alcol, si fosse volontariamente recata a casa del ricorrente per consumare droga e alcol. Inoltre, essendo entrambi, e anzi al momento dell’arrivo della P.G. in misura maggiore l’uomo, alterati dall’alcol, in assenza di minacce e/o violenze, il rapporto sessuale tra i due avrebbe dovuto considerarsi ampiamente consenziente. Difatti, a detta del ricorrente, se si ragionasse come la Corte d’Appello tutti i rapporti sessuali consumati da coppie alterate dall’uso di alcol o droghe dovrebbero ritenersi violenze sessuali reciproche o aggravate dalle condizioni di inferiorità della sola donna.

La Corte di Cassazione appoggia l’interpretazione della Corte di Appello, che ritiene configurato il reato di cui all’art. 609-bis, comma 2, n. 1 c.p. dal momento che l’ingestione di sostanze alcoliche e l’assunzione di droghe messe a disposizione dall’uomo hanno causato nella vittima una situazione di inferiorità psichica, strumentalizzata dall’imputato. La tesi prospettata di un rapporto consumato con il pieno consenso della ragazza non ha fondamento poiché già nelle pronunce precedenti la Corte di legittimità ritiene non valido il consenso di un soggetto alterato dall’uso di sostanze.

La Corte afferma poi che l’argomentazione in cui il ricorrente prospetta anche una propria incapacità dovuta all’uso di alcol e droghe, pur essendo suggestiva, è mal posta, in quanto la violenza è stata consumata in un rapporto sbilanciato a favore dell’uomo, dovuto sia alla minore età della vittima, sia alla disponibilità da parte del ricorrente della sostanza stupefacente. Si sottolinea poi che “lo stato di ubriachezza (e anche di assunzione di sostanze stupefacenti) da solo (nei limiti di una “sbronza ordinaria”) non configura certamente una condizione di inferiorità fisica o psichica tale da annullare un consenso al rapporto sessuale” (p. 5). Difatti ciò che rileva è la presenza nella condotta del soggetto attivo delle azioni costituite dall’induzione e dall’abuso delle condizioni di ubriachezza in cui si trova il soggetto passivo. È in una precedente sentenza[4] che la Corte specifica che l’induzione si realizza quando, con un’opera di persuasione spesso sottile e subdola, l’agente spinge o convince il partner a sottostare ad atti che diversamente non avrebbe compiuto. L’abuso, a sua volta, si verifica quando le condizioni di menomazione sono strumentalizzate per accedere alla sfera intima della persona che, versando in situazione di difficoltà, viene ad essere ridotta al rango di un mezzo per il soddisfacimento della sessualità altrui.

In questa pronuncia la Corte sottolinea come affermare che quando si è bevuto non si è mai in grado di prestare consenso creerebbe un precedente pericoloso che porterebbe a riqualificare un numero impressionante di episodi come violenza. Una “sbronza ordinaria” da sola non porta a configurare un reato di violenza sessuale. Certamente il centro dell’accertamento deve essere la condizione della persona che presta il consenso e l’intenzione dell’altra persona a sfruttare tale condizione al fine di soddisfare i propri impulsi sessuali. Sicuramente ciò non risulta semplice, ma bisogna tenere a mente che il processo mira alla ricostruzione di una verità di tipo processuale, quindi non ad una verità di tipo assoluto ma a ciò che può essere accertato “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

Gli effetti dell’alcol e la relazione con i comportamenti sessuali

È credenza popolare ampiamente condivisa che l’alcol porti a disinibizione, allentando i freni inibitori, eliminando i vincoli che tengono a freno il nostro comportamento e facendo emergere una versione più veritiera di noi stessi (“in vino veritas”). Oggi, però, molti studiosi non vedono più l’alcol come un fattore di disinibizione ma di miopia.

L’Alchol Myopia Theory (Steele e Josephs, 1990) sostiene che l’effetto principale dell’alcol sia un restringimento del nostro campo visivo emozionale e mentale. L’alcol creerebbe uno stato, appunto, di miopia in cui gli aspetti più immediati e superficiali dell’esperienza avrebbero un influsso sproporzionato sul comportamento e sulle emozioni. In questo modo gli oggetti in primo piano assumono ancora più importanza mentre quelli sullo sfondo spariscono sempre di più. Le considerazioni a breve termine vengono amplificate, quelle a lungo termine e più impegnative ignorate.

Più in particolare, la miopia è determinata da due effetti sulle funzioni cognitive: in primo luogo, l’intossicazione da alcol non permette al soggetto di percepire tutti gli stimoli situazionali, ma solo gli stimoli più salienti, sia esterni che interni, sono percepiti. In secondo luogo, l’alcol riduce la capacità di processare le informazioni percepite, di codificarne i significati e di relazionarli alle conoscenze possedute. La miopia ha quindi a che fare con una percezione distorta e superficiale degli eventi circostanti (Pietrantoni e Prati, 2005).

Il concetto di conflitto inibitorio spiega in quali circostanze la miopia da alcol induce l’individuo intossicato ad assumere comportamenti che da sobrio non assumerebbe. Esso si verifica in situazioni in cui sono presenti sia stimoli che provocano un determinato comportamento, sia stimoli che lo inibiscono. In questa situazione conflittuale, il soggetto intossicato focalizza la sua attenzione solo sugli stimoli, interni ed esterni, più salienti ed immediati. In questo modo gli stimoli immediati che provocano una certa risposta vengono percepiti ed elaborati, mentre gli stimoli più complessi, che inibiscono quella risposta, non vengono considerati perché richiederebbero ulteriori sforzi percettivi che il soggetto intossicato non è in grado di attuare. La miopia causata dall’alcol, perciò, blocca il conflitto inibitorio e spinge il soggetto a comportarsi sulla scia degli stimoli predominanti. Sotto l’influenza del conflitto inibitorio, l’alcol rende le persone più aggressive, aperte e audaci a livello sessuale.

Esperimenti hanno dimostrato che sotto l’effetto di alcol si tende ad avere un interesse per contenuti sessuali maggiore e ad esagerare il valore dei segnali che riguardano la disponibilità di un’altra persona sul piano sessuale, mentre si tende ad ignorare i segnali più ambigui.

Ciò dimostra come, nei contesti che spesso fanno da sfondo alle vicende giudiziarie riguardanti casi di violenza sessuale, contesti ipersessualizzati e in cui vi è un largo consumo di alcolici, spesso si creano delle situazioni ambigue, fatte di fraintendimenti sulle reali intenzioni dell’altro che, nei casi più gravi, possono sfociare in accuse di violenza e in versioni contrastanti sulla presenza o meno di un consenso. Può una persona sotto effetto di alcol decidere liberamente e lucidamente sul prestare o meno consenso? Ma anche, può una persona sotto l’effetto di alcol capire se l’altro ha prestato un valido consenso? Bisogna considerare la situazione non solo dalla parte della vittima, ma anche da quella del presunto aggressore.

In queste dinamiche, spesso, entrambe le persone coinvolte sono sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e spesso il presunto aggressore afferma di aver agito in buona fede, convinto del reale consenso dell’altra persona e senza volersi approfittare di lei. Ricordiamo che però per l’ordinamento italiano, essere ubriachi non esclude la colpevolezza, a meno che non ci sia una situazione di cronica intossicazione.

Analisi di un caso

Sul punto, utile potrebbe risultare l’analisi di un caso in cui uno degli autori (GG) è intervenuto in qualità di difensore di due giovani accusati del reato di violenza sessuale ai danni di una ragazza.

I fatti del procedimento qui esposto sono avvenuti nella notte tra il 15 e 16 febbraio 2008. La persona offesa, una ragazza quasi diciottenne, racconta di essere uscita in compagnia di un’amica la sera del 15.02.2008, e di aver poi raggiunto altri amici con l’idea di trascorrere la prima parte della serata in un locale e trasferirsi poi alla festa di un amico. Nel primo locale, tuttavia, la situazione si aggrava in quanto tutti i presenti bevono molto e fanno uso di cannabis. Mentre l’amica della giovane decide di prendere un taxi e trasferirsi alla festa, la parte lesa, a suo dire rimasta senza soldi per pagare il taxi, rimane nel locale convinta di poter trovare un passaggio da qualche amico. Tra i presenti però l’unico che si offre di accompagnarla è F e in auto con loro sale anche M, ragazzo da lei conosciuto solo di vista. Durante il viaggio la ragazza si addormenta e al suo risveglio si rende conto di non essere nel luogo stabilito, bensì in un luogo isolato. I due accompagnatori in quel frangente le propongono di rimanere lì a divertirsi e la giovane, incapace di reagire anche a causa dello stato di ubriachezza, subisce rapporti con entrambi, anche contemporaneamente, e viene altresì costretta a un rapporto orale con F. Una volta concluse le violenze, ella viene riaccompagnata dall’amica e insieme rientrano a casa verso le tre o le quattro di notte; in quell’occasione le ragazze sono accompagnate da F, il quale avrebbe tentato invano un secondo approccio. La prima rivelazione degli abusi sessuali subiti avviene nel periodo compreso tra 27 marzo e 12 aprile 2008 mentre la ragazza si trova ricoverata in una clinica psichiatrica per un peggioramento del suo disagio psichico. Dal 2007, infatti, la giovane aveva manifestato comportamenti disturbati per cui era stata fatta diagnosi di disturbo di personalità di tipo borderline con uso concomitante di sostanze psico-attive e di alcool. È proprio lo psichiatra a sollecitare la ragazza ad assumersi le sue responsabilità e denunciare gli abusi subiti. Solo allora ella racconta in termini del tutto generici i fatti subiti anche ai genitori, ignari di quanto occorso la sera del 16 febbraio.

Gli imputati ammettono sin da subito i rapporti sessuali fornendo tuttavia una versione diversa da quella riferita dalla parte lesa. Non solo, il consulente del PM accerta che i fluidi organici presenti sugli abiti della ragazza appartengono ad uno degli imputati. All’esito del giudizio di primo grado il Giudice ritiene che le dichiarazioni della parte lesa non siano attendibili in quanto confuse, vaghe, frammentarie e con contraddizioni vistose, numerose e relative a particolari rilevanti i fatti oggetto di procedimento. L’analisi dei tabulati telefonici, inoltre, rivela una versione dei fatti contrastante con quanto dichiarato dalla ragazza: la stessa ha più volte chiamato l’amica, anche utilizzando il telefono di uno dei violentatori. Anche le versioni dei testimoni appaiono in contrasto con la ricostruzione della persona offesa: un teste dichiara di aver visto la ragazza e F in atteggiamenti intimi durante la prima parte della serata. Appare altrettanto poco verosimile la decisione volontaria della vittima di rimanere da sola con l’autore della violenza sessuale immediatamente dopo la violenza stessa.

La sentenza di primo grado del 2011 assolve i due imputati perché il fatto non sussiste. Il Pubblico Ministero impugna la sentenza di primo grado, chiedendone la totale riforma, contestando la corretta applicazione da parte del primo Giudice delle regole di valutazione delle prove, posto che il punto controverso della vicenda riguarda la sussistenza e validità di un consenso prestato dalla parte offesa al rapporto sessuale a tre con i due imputati, che, semmai vi fosse stato, sarebbe stato sicuramente viziato dal grave stato di ubriachezza in cui la ragazza versava, che ne obnubilava totalmente le facoltà.

In accoglimento dell’appello del Pubblico Ministero, nel 2015 la Corte d’Appello dichiara colpevoli i ragazzi del reato loro ascritto, condannandoli a 4 anni di reclusione per ciascuno. Il Giudice di secondo grado ritiene infatti verosimile che al momento del compimento dei rapporti sessuali lo stato della ragazza non le permettesse di opporsi ai due imputati, che la sovrastavano sul piano fisico e psichico, essendo soggetti lucidi nel pieno controllo di sé, che si trovavano in un luogo isolato al cospetto di una ragazza che aveva dimostrato qualche disponibilità all’approccio sessuale.

I legali dei due imputati propongono ricorso per Cassazione. La Corte di Cassazione annulla con rinvio la pronuncia d’appello per aver riformato la sentenza assolutoria del Tribunale di primo grado sulla base di una diversa valutazione della prova dichiarativa decisiva resa dalla parte civile, senza procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Nel 2018 gli imputati vengono definitivamente assolti. I motivi alla base della sentenza di assoluzione della diversa Sezione della Corte D’Appello evidenziano che, poiché gli imputati hanno ammesso l’effettività dei rapporti sessuali intrattenuti la sera del 16.02.2008, lo snodo decisivo sotto il profilo probatorio è apparso quello della dimostrazione di una condotta di induzione della persona offesa a subire atti sessuali in uno stato di infermità psichica determinato da assunzione volontaria di bevande alcoliche.

In questo caso il professore Gulotta è intervenuto in Corte D’Appello dopo il rinvio della Cassazione e in tale occasione ha avuto la possibilità di interrogare la persona offesa, evidenziando come l’intera vicenda si fondi su una ricostruzione a posteriori. I racconti della vittima, infatti, sono stati disconfermati dall’amica, la quale ha negato quanto da lei riferito, e sono risultati anche tra loro contradditori nelle diverse occasioni. Non solo, il difensore ha inoltre dimostrato come l’innesco dell’intero procedimento non sia stata tanto una spontanea rivelazione da parte della vittima, quanto piuttosto la stessa sia stata sollecitata dallo psichiatra.

Già il Tribunale di primo grado, infatti, aveva ritenuto che il disturbo borderline della ragazza è circostanza che può portare luce sulla stessa ragione della denuncia: «per una ragazza molto giovane, ma già con un serio disturbo della personalità, e quindi vulnerabile, la semplice consapevolezza di aver avuto, anche se consenziente, dei rapporti sessuali con dei ragazzi, conosciuti approssimativamente, al termine di una notte di eccessi ed abusi di alcol e stupefacenti, sarebbe già di per sé sufficiente a generare seri dubbi sulla propria capacità di sapersi adeguatamente gestire in situazioni problematiche, tali da provocare ulteriori scompensi del suo già fragile equilibrio psichico». Nei fatti, dunque, la contradditoria ricostruzione a posteriori della parte offesa, nonché la denuncia degli abusi tutt’altro che spontanea, sono stati elementi sufficienti per costruire un impianto difensivo magistrale che ha condotto all’assoluzione degli imputati. Così si legge nella sentenza: “(…)’istruzione condotta nel dibattimento di primo grado ha consentito di escludere che la [omissis] in quella circostanza potesse trovarsi in una tale condizione di ubriachezza (o di obnubilamento dovuto all’assunzione di cannabis) a determinare un’effettiva incapacità di autodeterminarsi anche in relazione alla gestione della propria sfera sessuale”.

In conclusione

Affermare che quando si è bevuto non si è mai in grado di prestare consenso creerebbe un precedente pericoloso che porterebbe a riqualificare un numero impressionante di episodi come violenza.

La questione si gioca comunque tutta sulla presenza o meno, nel caso particolare, di un valido consenso della persona sotto effetto di sostanze alcoliche. Nelle aule si cerca di ricostruire, attraverso gli elementi probatori, la presenza di tale consenso e si giunge a una verità che sarà pur sempre di tipo processuale. Ricostruire l’esatta e vera dinamica dei fatti è difficile, se non impossibile, e ricostruire a posteriori con esattezza intenzioni, dinamiche, scambi verbali e non avvenuti tra due persone è un’utopia.

Gli ambienti ipersessualizzati e con grande disponibilità di sostanze alcoliche delle feste e delle serate in discoteca sono un ambiente in cui è molto facile avvengano fraintendimenti. La Teoria della miopia spiega bene queste dinamiche: sotto l’effetto di alcol si dà più importanza a stimoli immediati, si amplificano i segnali sessuali percepiti, si perdono di vista le conseguenze a lungo termine.

Come fare allora a contrastare un fenomeno sempre più diffuso di violenza?

Non è più sufficiente mettere in guardia le ragazze sui rischi che corrono frequentando determinati luoghi o assumendo grandi quantitativi di alcol, soprattutto in una società che chiede sempre più a gran voce la parità dei sessi. Bisogna allora educare i giovani ad una cultura del consenso e del rispetto della libertà sessuale altrui. Bisogna altresì abbandonare una cultura dello stupro, in cui la violenza è sexy e l’uomo è predatore, frutto dell’influenza del mondo pornografico, che sempre più spesso è l’educatore sessuale dei ragazzi. Bisogna infine anche mettere in guardia sui rischi che si corrono da ubriachi, ma non solo nell’ottica del diventare una possibile vittima ma anche in quella di diventare un possibile aggressore.

 

3. La risposta del legislatore al fenomeno della violenza sessuale: alcune brevi considerazioni sulla legge n. 69/2019

Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione sul fenomeno della violenza sulle donne, sia da parte dei mass media che degli organi deputati a creare norme giuridiche di contrasto.

A partire dal 2009, con l’introduzione del reato di atti persecutori (stalking), si sono susseguiti una serie di interventi legislativi volti a garantire una maggiore tutela delle vittime e a rafforzare l’effettività delle sanzioni, culminati in tempi recenti nell’approvazione della legge 19 luglio 2019, n.69, conosciuta come Codice Rosso, recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”.

Tale provvedimento da una parte mira ad agire sul “fattore tempo”, intervenendo sul Codice di procedura penale al fine di velocizzare l’instaurarsi del procedimento penale e, conseguentemente, accelerare l’eventuale adozione di provvedimenti di protezione e aiuto delle vittime a seguito di alcuni reati, quali maltrattamenti in famiglia, stalking e, appunto, violenza sessuale.

Dall’altra, il Codice Rosso, oltre a introdurre nuove fattispecie di reato, interviene sul Codice penale inasprendo le sanzioni già previste per alcuni reati, tra cui l’art. 609-bis, 609-ter, 609-septies e 609-octies c.p. La novella legislativa, inoltre, prevede, al fine di ridurre la recidiva, la possibilità per i condannati di sottoporsi a trattamento psicologico con finalità di recupero e sostegno, suscettibile di valutazione ai fini della concessione dei benefici penitenziari. Viene anche modificato l’art. 165 c.p. in materia di sospensione condizionale della pena, la quale, nei casi di condannati per delitti interessati dalla riforma, è subordinata alla partecipazione a percorsi di recupero (con oneri a carico del condannato) organizzati ad hoc da enti o associazioni che si occupano di assistenza psicologica, prevenzione e recupero di soggetti condannati per reati sessuali.

La Legge n. 69/2019, se da un lato ha il pregio di aver mostrato l’interesse e la preoccupazione delle Istituzioni per il diffuso fenomeno della violenza di genere, dall’altro ha il difetto di partire da una logica di tipo emergenziale, che se da un punto di vista di comunicazione mediatica può risultare efficiente, meno lo è invece sul piano delle soluzioni proposte. Tale riforma, infatti, si accentra solo sulla repressione del fenomeno, lasciando solo un minimo spazio all’intervento di tipo preventivo sulla matrice culturale del fenomeno.

Come ricordato dal Commissario della Polizia di Stato Antonio Magno (2019), un problema complesso necessita di risposte articolate, che affrontino la questione secondo un approccio integrato, con interventi che perseguano tre obiettivi principali:

  • prevenire i reati, affiancando agli interventi repressivi, indubbiamente indispensabili ma che ovviamente entrano in gioco quando la violenza è ormai stata commessa, altre misure che abbiano la capacità di anticipare la violenza;
  • punire i colpevoli inasprendo le pene a carico dell’autore della violenza;
  • proteggere le vittime adottando, accanto agli interventi normativi, sia di tipo punitivo che preventivo, strumenti di intervento sociale, nonché culturali e formativi.

La logica emergenziale sottesa al provvedimento normativo del 2009, inoltre, come evidenziato da Bertolino (2021), rende difficile il rispetto delle aspettative di tutela. All’interno della legge, infatti, poco spazio ha trovato il fronte della prevenzione ante e post delictum, “nei termini di soluzioni di recupero positivo e progressivo non solo delle vittime per arginare il rischio di rivittimizzazione, ma anche degli autori con interventi mirati sulle loro particolari condizioni che non si limitino, sul versante ad esempio della prevenzione ante delictum, a meri strumenti preventivi come quelli offerti dal sistema delle misure di prevenzione” (p. 68).

Ancora, il Codice Rosso, se da un lato mira a fornire una prontezza di risposta, dall’altro rischia di non tutelare i diritti di coloro che sono incolpati e, in casi estremi, può prestarsi ad un uso potenzialmente strumentale da parte delle asserite vittime, che si trovano ad avere a disposizione uno strumento potente e veloce per limitare la libertà della persona denunciata. La scelta di politica criminale sottesa a tale legge mira chiaramente a una tutela rafforzata delle supposte vittime di reato, che però può portare ad uno sbilanciamento giuridico a favore della vittima e ad una lesione dei diritti difensivi dell’accusato.

La persona denunciata dovrebbe essere considerata innocente fino alla Sentenza definitiva, mentre i provvedimenti giudiziari ed amministrativi promossi dal Codice Rosso vanno a colpire la persona indicata come responsabile prima che possa essere dimostrata la possibile infondatezza delle accuse mossegli.

La Legge n. 69/2019 è emblema di una tendenza della politica criminale degli ultimi anni, che si caratterizza per un’ideologia di tipo vittimologico che ha favorito un sistema penale di tipo vittimocentrico. Con tale espressione si fa riferimento a un diritto penale fortemente sbilanciato a tutela di persone considerate particolarmente deboli e in ragione di ciò ritenute bisognose di una protezione rafforzata, che però sembra poter essere garantita prevalentemente dal sistema della penalità (Bertolino, 2021). In quest’ottica, quindi, la persona offesa dal reato viene considerata un soggetto debole, bisognoso e meritevole di protezione, nei confronti del quale il legislatore si pone in un atteggiamento di tipo paternalistico. Tale scelta non ha alla base delle evidenze che dimostrino che questo atteggiamento possa effettivamente giovare alla tutela della vittima; gli studi di vittimologia hanno infatti mostrato come la vittima non debba essere considerata in una posizione statica rispetto al reato, ma anzi debbano esserle riconosciuti spazi di autodeterminazione e autoresponsabilità verso lo stesso.

Come evidenziato da Venturoli (2015), la norma incriminatrice vittimocentrica, con il suo rigore sanzionatorio, specie rispetto a fatti socialmente allarmanti, mira in ultima istanza ad un obiettivo di stabilizzazione sociale, facendo sentire il cittadino rassicurato dalla notizia dell’intervento penale e fiducioso nei confronti dello Stato che mostra “il pugno di ferro” verso la criminalità più preoccupante. Ma per converso, la legislazione penale così vittimologicamente orientata rischia di dimenticare la funzione di risocializzazione che la Costituzione assegna alla pena, sulla scia dell’idea diffusa di inconciliabilità delle esigenze di tutela della persona offesa con la funzione rieducativa della sanzione penale.

Con tali osservazioni non si vuole mettere in dubbio l’esigenza di protezione delle vittime da gravi figure di reato, quanto più “sollevare il dubbio sulla inevitabilità della scelta a favore di autonome figure incriminatrici dal forte significato simbolico” (Bertolino, 2021, p. 70). L’irrogazione di pene particolarmente severe come strumento riparatorio atto a soddisfare in prospettiva retributiva il desiderio di giustizia della vittima e come mezzo di stigmatizzazione di determinati comportamenti si rivela essere una soluzione inadatta al fenomeno della violenza di genere, se non affiancata ad una prevenzione a tutto campo, che coinvolga aspetti sociali e culturali, in una prospettiva di tipo interdisciplinare.

***

[1] Cass. Pen., sez. III, 11 gennaio 2017, n. 45589

[2] Cass. Pen., sez. III, 16 luglio 2018, n. 32462

[3] Cass. Pen. Sez. III, 18 giugno 2019, n. 44292

[4] Cass. Pen., sez. IV, 22 febbraio 2007, n. 14141

  1. Bendixen, M. (2014). Evidence of systematic bias in sexual over-and underperception of naturally occurring events: A direct replication of in a more gender-equal culture. Evolutionary Psychology, 12(5), 147470491401200510.
  2. Bertolino, M. (2021). La violenza di genere e su minori tra vittimologia e vittimismo: notazioni brevi. Rivista italiana di Diritto e Procedura Penale, 64(1), pp. 65-82
  3. Haselton, M. G. (2003). The sexual overperception bias: Evidence of a systematic bias in men from a survey of naturally occurring events. Journal of Research in Personality, 37(1), pp. 34-47.
  4. Magno A. (2019). Codice Rosso, la Legge n.69/2019, con commento dell’avv. G. De Lalla. Aspetti salienti e criticità. Polizia Moderna – mensile ufficiale della Polizia di Stato, novembre 2019.
  5. Pentangelo, N., Pollio, M., & Rapuano, A. (2019). Violenza sessuale e assunzione di alcol: la differenza tra “uso” e “abuso”. Ius in Itinere. https://www.iusinitinere.it/violenza-sessuale-e-assunzione-di-alcol-la-differenza-tra-uso-e-abuso-22773
  6. Pietrantoni, L., & Prati, G. (2005). Alcol e comportamenti sessuali: quale relazione? Researchgate.net https://www.researchgate.net/publication/306542906_Alcol_e_comportamenti_sessuali_quale_relazione
  7. Steele, C. & Josephs, R. A. Alcohol myopia: its prized and dangerous effects, American Psychologist, 45(1990), n. 8. pp. 921-933
  8. Treat, T. A., Church, E. K., & Viken, R. J. (2017). Effects of gender, rape-supportive attitudes, and explicit instruction on perceptions of women’s momentary sexual interest. Psychonomic bulletin & review, 24(3), pp. 979-986.
  9. Venturoli, M. (2015). La protezione della vittima del reato quale autonomo scopo del diritto penale. Sistema penale e tutela delle vittime tra diritto e giustizia, collana DIPLAP, Sezione atti, pp. 11-29