Affettività in Carcere – La sentenza della Consulta n. 10/2024
Affettività in Carcere – La sentenza della Consulta n. 10/2024
Oltre il diritto, questione aperta di civiltà, ma non solo
La recente sentenza della Corte costituzionale (Sentenza 10 del 26.01.2024) affronta un tema particolarmente delicato, vale a dire quello dell’affettività in carcere. Il tema di fondo attiene alle modalità di svolgimento dei colloqui all’interno degli istituti penitenziari.
Ciò che emerge in prima battuta è un vuoto nell’ordinamento giuridico italiano: ad oggi, per i detenuti, non è possibile effettuare un colloquio con i propri familiari senza il controllo a vista del personale in carcere. E questo non si può superare nemmeno quando non ci siano ragioni ostative di sicurezza o di ordine interno; in sostanza i detenuti debbono ricorrere ad altri strumenti (permessi premio), seppur inadeguati, al fine di trascorrere del tempo in intimità con i propri familiari e congiunti.
Il punto centrale della motivazione attiene agli effetti della privazione del diritto all’affettività in carcere. La Corte spiega come il non poter avere rapporti stretti, anche di carattere sessuale, abbia un forte impatto anche sui familiari o coniugi; questi non dovrebbero infatti essere i destinatari della pena, per quanto vi saranno sempre degli effetti indiretti.
Ecco allora che la Corte, come spesso accade in questo tipo di situazioni, fornisce alcuni spunti di intervento per il legislatore:
1) negli istituti penitenziari si dovrebbero creare spazi che ricreino l’ambiente domestico, di modo da favorire incontri non sporadici ma continuativi nel tempo;
2) il detenuto dovrebbe godere di una certa riservatezza non solo verso il personale di custodia, ma anche verso gli altri detenuti;
3) tra i requisiti per poter svolgere questo tipo di colloqui figurano: l’assenza di divieti posti dal giudice, la verifica dell’effettività dei rapporti (con il famigliare o il coniuge), la regolarità della condotta e, infine, l’assenza di motivi ostativi connessi alla sicurezza e alla giustizia.
Per questi motivi la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art.18 ord.pen., nella parte in cui non prevede la possibilità di svolgere i colloqui con le modalità descritte.
A essere in gioco, nella valutazione della Corte, era l’intimità delle visite in carcere e, per utilizzare le parole del giudice remittente, “la possibilità di utilizzare il tempo del colloquio con il/la partner per rapporti intimi anche di tipo sessuale”, entrambe precluse in maniera assolute dalla formulazione dell’art. 18 ord. penit.: i colloqui con i congiunti e altre persone “si svolgono in appositi locali sotto il controllo a vista e non auditivo del personale di custodia”. Nonostante la norma in questione avesse subito un importante restyling ad opera del d. lgs. 123 del 2018 – “i locali destinati ai colloqui con i familiari favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell’ ingresso dell’istituto” –, il cuore del problema era rimasto intatto, dal momento che la privacy e un’organizzazione degli spazi mirante a favorirla erano compromesse in radice dal controllo a vista dei colloqui ad opera degli agenti di polizia penitenziaria. Su tale aspetto, il legislatore del 2018 non aveva avuto il coraggio di portare fino in fondo la delega (art. 1, comma 85, l. 103 del 2017).
Per evidenziare il valore della storica decisione si deve partire proprio dall’ordinanza di remissione e dalla voce delle persone private della libertà personale, raccolta in maniera limpida dal magistrato di sorveglianza in apertura del suo provvedimento: il detenuto “si lamenta, nel suo reclamo, delle modalità con le quali l’istituto penitenziario gli consente di svolgere i previsti colloqui visivi con i familiari, tra i quali la figlia minore e la compagna. Segnatamente, nel relcamo-istanza ci si diffonde sulle conseguenze negative che l’assenza di intimità con la compagna sta avendo sul mantenimento del suo rapporto di coppia, cui tiene particolarmente e al quale considera legato il proprio futuro reinserimento sociale”.
Poche righe in cui c’è tutto: la prospettiva della persona detenuta, costretta a subire l’amputazione di una dimensione essenziale della personalità; la mortificazione del rapporto di coppia, ossia quella cellula elementare di relazionalità da cui dovrebbe germinare il reinserimento sociale; infine, la punizione di chi non ha commesso il reato, vale a dire la partner (nel caso, era la compagna del detenuto) costretta a subire le conseguenze di una responsabilità penale altrui.
È su questa intelaiatura che il magistrato di sorveglianza costruisce la questione di legittimità del terzo comma dell’art. 18 ord. penit., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
Nell’ordinanza vediamo scorrere dapprima il contrasto con l’art. 2 Cost.: il divieto di colloqui intimi tra detenuto e partner priva il primo di una componente essenziale della personalità, quale deve ritenersi appunto la libera espressione della propria affettività, anche tramite i rapporti sessuali, vero e proprio diritto inviolabile della persona, garantito dall’art. 2 Cost. e suggellato in questi termini da importanti pronunce della
stessa Consulta (Corte cost. 561 del 1987, ad esempio). Siamo abituati a pensare il carcere come fortezza che divide, ma non bisogna dimenticare – il magistrato di sorveglianza di Spoleto lo rammenta – che, prima di tutto, è una formazione sociale nella quale si svolge la personalità dei detenuti.
Viene poi in esame il conflitto con il primo e il secondo comma dell’art. 13 Cost. La proibizione assoluta del diritto a vivere la sessualità con la compagna, non giustificata da ragioni di sicurezza – il reclamo dinanzi al giudice a quo era stato proposto da un detenuto in media sicurezza, non appartenente a organizzazioni di criminalità organizzata e non inciso da provvedimenti dispositivi di controllo auditivo dei flussi comunicativi con l’esterno –, assurge a mera vessazione, idonea a procurare una sofferenza immotivata al detenuto e mettere in pericolo, qualora protratta per anni, anche il diritto alla genitorialità. Nei confronti del detenuto – avverte il giudice – una sofferenza di questo tipo, aggiuntiva alla privazione della libertà, potrebbe anche entrare in rotta di collisione, tramite l’art. 117 Cost, con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
L’emersione del conflitto con gli artt. 29, 30 e 31 della Costituzione merita di essere spiegato con le stesse frasi del magistrato di sorveglianza. Al di là del rilievo ai fini della questione, sono parole che testimoniano il senso vero e profondo di una giurisdizione che deve essere vicina alle persone ristrette, ai loro bisogni concreti e a quelle aspirazioni da “agganciare” per costruire una prospettiva di reinserimento (nel gergo della legge: un programma di trattamento). Senza indugiare sulle retoriche astratte della famiglia, il remittente precisa che il divieto è distonico rispetto alle norme costituzionali di protezione delle famiglia (meglio: delle famiglie) perché “logora i rapporti di coppia, rischia di spezzarli a fronte del protrarsi del tempo in cui la fondamentale componente della sessualità non può essere esercitata, e di fatto pone precondizioni non perché, al rientro in libertà della persona detenuta, la stessa possa tornare alla propria famiglia con maggiori chance di reinsediarvisi nella pienezza del proprio ruolo, ma avendo vissuto un periodo, breve o lungo, nel quale gli è stata imposta una innaturale astinenza dal vincolo unitivo del rapporto sessuale con il/la partner”.
La rinuncia coatta alla sessualità – sempre seguendo l’iter argomentativo dell’ordinanza –, introduce un contrasto con la norma costituzionale posta a presidio del diritto alla salute (art. 32 Cost): in un universo di per sé psicopatogeno come il
carcere, la deprivazione gratuita di una sfera essenziale della personalità aumenta in maniera essenziale il pericolo di patologie psichiche.
l conflitto messo in luce dal giudice a quo, poi, è soprattutto con i principi di umanità e finalismo rieducativo della pena, patrocinati dall’art. 27, terzo comma, Cost. Invece di irrobustire il rapporto di coppia o familiare, nucleo fondamentale di ogni relazione sociale, il divieto fa correre al detenuto il rischio di un futuro di maggior solitudine e di spiccata insicurezza personale, correlata alla perdita del proprio ruolo naturale all’interno della coppia. Insomma, da un lato il carcere promette risocializzazione, dall’altro pratica desocializzazione.
In quest’ordine di ragionamenti, a essere leso, sempre attraverso la valvola dell’art. 117 Cost., è anche il rispetto dell’art. 8 della Convenzione dei diritti dell’uomo, statuente il rispetto della vita privata e familiare.
La sentenza n. 10 del 2024, in primo luogo e in conformità a quanto sottolineato dal giudice a quo, procede a una ricognizione di quei punti di rèpere legislativi che, abbandonato il sentiero delle rime obbligate, permettono oggi – a differenza di quanto avvenuto nel 2012 – la pronuncia di una sentenza additiva di principio. Vero che il legislatore è rimasto inerte sul tema dell’affettività in carcere, ma, nel volgere di dieci anni dalla precedente pronuncia di inammissibilità, “l’ordinamento penitenziario ha registrato significative innovazioni, che delineano oggi un quadro normativo ben differente da quello di allora”.
In particolare, fa notare la Corte, “è emersa un’indicazione specifica circa le relazioni qualificate della persona detenuta, meritevoli e bisognose di una considerazione differenziata anche dentro le mura”: i commi 20 e 38 dell’art. 1 della legge 76 del 2016 hanno parificato al coniuge, nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario, sia il convivente di fatto sia la parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Sul versante organizzativo e logistico, viceversa, la stessa norma censurata – come già anticipato in questo commento – si è arricchita di una disposizione nuova sulla conformazione dei locali riservati ai colloqui. Dalle norme sul contesto penitenziario minorile, inoltre, sono ricavabili utili parametri organizzativi.
i giudici costituzionali affrontano il merito della questione in modo frontale e senza compromessi: “lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio” della libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto, “ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. L’art. 18, terzo comma, dell’ordinamento penitenziario, nell’imporre il controllo a vista dei colloqui senza eccezioni – una vigilanza che “restringe lo spazio di espressione dell’affettività, per la naturale intimità che questa presuppone, in ogni sua manifestazione, non necessariamente sessuale” – scolpisce una prescrizione assoluta che la espone “a un giudizio di irragionevolezza per difetto di proporzionalità”.
Il volto costituzionale della pena – prosegue la decisione – prevede che una sofferenza aggiuntiva al detenuto sia legittima in quanto inflitta nella misura minima necessaria e giustificata da esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, ovvero, nei confronti degli imputati, da fini giudiziari. Nel controllo a vista di tutti i colloqui, disposto indipendentemente da specifiche esigenze di sicurezza, non si ravvisa giustificazione, tanto meno la norma appare rispettosa del principio del “minimo mezzo”.
Il primo richiamo è alla responsabilità del legislatore, “ove esso intenda approntare in materia un quadro normativo di livello primario”. Verrebbe da dire, in questo senso, che la politica ha l’imbarazzo della scelta per scrivere una regola conforme al principio dettato dalla Consulta: dal progetto di riforma della commissione Giostra – è sufficiente accennare a quella che avrebbe dovuto essere (e non è stata) la rubrica dell’art. 18: Colloqui, incontri intimi, corrispondenza e informazione – ai disegni di legge dei Consigli regionali delle Regioni Toscana e Lazio, nonché di Luigi Manconi e altri, il cimitero delle proposte di legge è pieno di ottime intenzioni non coltivate.
Al fine di garantire l’effettività dei principi esplicitati in motivazione, comunque, i giudici costituzionali “rimarcano” alcuni profili generali di cui tenere conto nell’attuazione della decisione. Per tutelare in maniera adeguata l’esercizio dell’affettività intramuraria, “le visite in questione devono potersi svolgere in modo non sporadico (ovviamente qualora ne permangano i presupposti)” e tale da preservare l’obiettivo cui sono finalizzati, vale a dire stabilizzare la relazione affettiva. I colloqui, inoltre, dovranno essere di durata adeguata a favorire un’espressione autentica dell’affettività – non necessariamente declinata in chiava sessuale – e dovranno svolgersi in luoghi appropriati, quali ad esempio “unità abitative appositamente attrezzate all’interno degli istituti”, organizzate in modo consentire la preparazione e la consumazione dei pasti, nonché la riproduzione di un ambiente domestico. L’accesso a tali locali dovrà riguardare in via prioritaria, sulla scia di quanto previsto dall’ordinamento penitenziario minorile, coloro che non sono ammessi ai permessi premio.
Da un punto di vista tecnico, non pare possa dubitarsi che la sentenza in questione rientri nel novero delle additive di principio. Motivazione e dispositivo inducono a ritenere che la Corte, nell’accertare la fondatezza della questione, abbia inteso integrare la legge con un principio al quale dovranno conformarsi il legislatore e il giudice nella sua decisione concreta.
Nel pronunciare l’illegittimità della norma sul controllo a vista, la Corte ha dapprima accertato che la soluzione al problema della tutela dell’affettività dei detenuti non passa attraverso l’ammissione dei detenuti al permesso premio. Terreno giuridico limpido: l’esercizio dei diritti inviolabili è sottratto alla logica del castigo, ma anche a quella della premialità. Il fatto che la Corte non abbia confinato nel permesso premio l’esercizio del diritto all’affettività assume rilievo ancora maggiore se confrontato con la casistica specifica oggetto della questione.
A livello puramente politico, la sentenza entra in rotta di collisione diretta con il principio per cui la pena debba essere, oltre che privazione della libertà personale, amputazione del suo corpo e dei suoi desideri. In questo senso, anche per la limpidezza della motivazione, si tratta di una pronuncia che esprime un reale controcanto ai quadri mentali dominanti, nell’opinione pubblica generale e anche in quella specializzata. Nel collegare direttamente l’esercizio dell’affettività con il finalismo rieducativo della pena, la sentenza scolpisce il valore indiscutibilmente relazionale della risocializzazione. Un’opera tesa a favorirla, dunque, non può cominciare a sottrarre i due baluardi fondamentali della relazione: affettività e sessualità. Ricomporli, restituirli ai detenuti, sarà proficuo per la società intera, che dopo il tempo della pena potrà accogliere persone integre e più responsabili.
La possibilità di godere di un’affettività piena con i propri cari finisce tuttavia per dipendere dalle condizioni e dalle caratteristiche strutturali del carcere in cui si è reclusi, con evidente discriminazione di alcune persone detenute e dei loro cari, che potrebbero vedersi negata per lungo tempo la possibilità di incontrarsi nonostante la sentenza in commento. Persone che andrebbero ad aggiungersi a quelle escluse dal godimento di un diritto – pur ritenuto fondamentale! – per scelta espressa della stessa Corte (i ristretti in regime di carcere duro o di sorveglianza particolare).
Il rischio concreto di dilazione attuative, tuttavia, non si annida unicamente nei ben noti deficit strutturali dei penitenziari italiani, ma anche nella strumentalizzazione di tali carenze per evitare di dare seguito al principio affermato dai giudici costituzionali, specie se si considera che ad essere gravati dalle richieste di questo nuovo tipo di colloqui saranno i direttori delle carceri e, soltanto in seconda battuta, i magistrati di
sorveglianza. Stante la clausola inserita in sentenza che valorizza la gradualità dell’attuazione del principio e la compatibilità con lo stato degli istituti, è ben possibile che la predisposizione di locali dedicati ai colloqui intimi, anche laddove disponibili, sia posticipata il più possibile per allontanare le complicazioni che certamente deriverebbero dalla gestione delle visite nella quotidianità del penitenziario.
Senza contare che, anche una volta garantiti degli spazi idonei all’interno del carcere, risulterebbe opportuno – a parere di chi scrive – riservare la decisione circa la possibilità di fruire in concreto dell’affettività inframuraria al magistrato di sorveglianza. Se la stessa Corte evidenziava che la questione di legittimità non potesse essere risolta mediante il ricorso ai permessi premio, non potendosi condizionare l’esercizio di un diritto fondamentale ai requisiti della premialità, nella pars construens della pronuncia si afferma che possono ostare alla concessione del colloquio intimo anche «irregolarità di condotta e precedenti disciplinari». Sarebbe, dunque, preferibile evitare che a decidere sull’accesso a tale tipo di visite sia il direttore dell’istituto, lo stesso soggetto, cioè, che delibera le sanzioni disciplinari o che presiede il consiglio di disciplina che le irroga, per evidenti ragioni di garanzia e per evitare che questa novità si trasformi in uno strumento di disciplinamento.
Un intervento del legislatore risulta, allora, auspicabile. Non solo per emendare questa o quella disarmonia derivante dall’attuazione del principio contenuto nella sentenza in commento, ma anche e soprattutto per confrontarsi con l’insufficienza cronica di spazi all’interno delle carceri. La questione, più volte citata dalla Corte, non può essere ignorata se si vuole assicurare davvero alle persone recluse la possibilità di esercitare il diritto all’affettività, come pure le altre libertà loro negate.
Nel frattempo, resta la speranza di un’attuazione piena del dictum della Corte – per quanto possibile – da parte dell’amministrazione penitenziaria, in collaborazione con la magistratura di sorveglianza. E con i giudici, che sono chiamati – pur nel silenzio della pronuncia in commento – ad un uso sapiente di norme e principi, primo fra tutti quello di ricorrere alla custodia cautelare in carcere solo e soltanto come extrema ratio.
Alcune questioni aperte non trascurabili
L’indiscutibile importanza della pronuncia operata dalla Corte Costituzionale, che dispiega un ampio ragionamento sul diritto della persona oltre alla espiazione della pena, spingendosi a far emergere come la pena inflitta al soggetto non debba estendersi a persone a lui legate che non sono destinatarie della pena e non la debbono scontare in maniera indiretta, apre a ben guardare ad ulteriori riflessioni intimamente collegate con il diritto ribadito nella sentenza che ne opera una ricostruzione profonda ed articolata.
L’esercizio del diritto all’affettività nella sua accezione più profonda e completa, quindi alla sessualità della coppia, apre scenari e diritti ulteriori che, l’angusto spazio, per quanto garantito da riservatezza, di luoghi opportunamente approntati all’interno del carcere, non possono garantire e che comunque pongono ulteriori questioni.
Nel caso di detenute donne, che incontrano partner dell’altro sesso, possono inevitabilmente decidere di addivenire alla procreazione che una volta determinatasi apre il problema delle detenute gravide, a cui sarebbe garantita la facoltà di uscire dalla detenzione intramuraria. In stretto collegamento a tale libera determinazione si apre il tema del diritto del concepito, a non vedere la luce all’interno di un istituto penitenziario subendo la condizione detentiva da incolpevole. Ma tali questioni potrebbe spingere i detrattori del diritto alla affettività/sessualità a pretendere una sorta di controllo sulla idoneità-capacità procreativa con l’altrettanto aberrante limitazione di una libera e consapevole volontà genitoriale .
Il tema apre quindi ad una ulteriore riflessione che non può essere sorvolata ma che di contro richiede ed investe la più complessa riflessione circa la effettiva costituzionalità dell’istituzione carceraria così come la conosciamo nei suoi connotati di provazione / limitazione della libertà.
L’analisi concentrica del diritto alla affettività che riconosciuto amplia i soggetti coinvolti portatori a loro volta di loro propri diritti, financo quelli dei soggetti non ancora concreti ma che dalla manifestazione di questa affettività possono prendere vita, travolge la struttura carcere entro al quale tale diritto deve trovare rispetto e rispondenza evidenziando tutta l’inadeguatezza della struttura stessa che alla fine di dimostra per se stessa illegittima ed incostituzionale.
E’ per l'appunto in fondo a questo clinale che si deve riconoscere come la pena detentiva, oggi unica e dominante, non sia e non possa essere la pena adeguata in attuazione all’art. 27 della Costituzione, ma è divenuto non più procrastinabile il tempo per affrontare e risolvere una volta per tutte il tema della diversificazione delle pene, non già nella declinazione delle pene alternative, bensì nella nuova e costituzionalmente ispirata declinazione di diversificazione delle pene tali da rendersi differente e sempre più attenuate nel coso stesso della espiazione, essere differenti rispetti alla tipologia di reato, insomma individuarsi soluzioni rispetto alle violazione differenti ed appropriate rispetto alle violazioni stesse, evitando di curare “diversi mali con la stessa medicina”