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Il colloquio degli educatori e degli esperti con le persone detenute in espiazione di pena

colloquio degli esperti
colloquio degli esperti

Abstract

Lo scritto descrive con quali modalità per gli educatori penitenziari e per gli esperti ex articolo 80 è corretto relazionarsi ai detenuti in espiazione della pena: quali domande fare, quali errori è bene evitare e come dovrebbe essere il setting per favorire un colloquio efficace e produttivo.

The paper describes how penitentiary educators and experts is correct to relate to prisoners in atonement: what questions to ask, what mistakes should be avoided and how the setting should be to encourage an effective and productive interview.

 

Indice

1. Introduzione

2. Il setting

3. Il linguaggio e l’ascolto

4. Le domande

5. Il colloquio di primo ingresso

6. Gestione della rabbia

7. Conclusioni

 

1. Introduzione

Da sempre, nella storia dell’uomo, è presente il ricorso all’utilizzo della comunicazione verbale come principale mezzo di espressione del proprio mondo e del proprio stato emotivo. Ciò vale in particolar modo per le persone ristrette negli istituti di pena, dove le risorse e gli strumenti che si hanno a disposizione sono limitati.

Per questo motivo, viene ad assumere un ruolo centrale il colloquio che la persona privata della libertà può avere con diverse categorie di persone e con varie finalità. I colloqui, che possono essere visivi o telefonici, possono avere infatti varia natura: investigativa, affettiva, terapeutica, valutativa, psicodiagnostica, sanitaria, socio-riabilitativa, rieducativa.

La considerazione dalla quale muovere riguarda la definizione dei soggetti destinatari del trattamento rieducativo.

In base all’articolo 1 della Legge 26 luglio 1975 n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà”), di seguito denominata “ord. penit.”, all’interno degli istituti di pena non ci si deve limitare ad esercitare sui soggetti detenuti una mera azione custodiale, ma si devono mettere in atto tutta una serie di complesse attività che possono sinteticamente essere definite come “trattamento”.

La normativa penitenziaria distingue due tipologie di trattamento, una più generica e una più specifica, definite relativamente “trattamento penitenziario” e “trattamento rieducativo”.

Il trattamento penitenziario è un concetto molto ampio, all’interno del quale sono ricomprese le regole generali di vita che vigono negli istituti di pena, nonché i diritti che devono essere garantiti ai detenuti e le opportunità che l’Amministrazione Penitenziaria deve offrire loro mediante attività e iniziative. Tale trattamento deve essere applicato a tutti i ristretti, a prescindere dalla posizione giuridica.

Il trattamento rieducativo, invece, incide esclusivamente sui soggetti condannati in via definitiva, poiché consiste in un complesso di interventi che hanno per obiettivo quello di redimere il reo, producendo il suo reinserimento sociale e possibilmente inducendo in lui una revisione critica del reato. È ovvio che per gli imputati, presunti non colpevoli fino al momento dell’eventuale condanna passata in giudicato (articolo 27, co. 2, Cost. e l’articolo 1, co. 5, ord. penit.), non possa essere prevista alcuna attività di rieducazione, ma soltanto una «offerta di interventi diretti a sostenere i loro interessi umani, culturali e professionali» (articolo 1, co. 1, D.P.R. 30 giugno 2000 n. 230 recante il titolo “Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà”).

Pertanto, il colloquio con finalità prettamente rieducative riguarderà esclusivamente i condannati in via definitiva poiché gli imputati (giudicabili, appellanti o ricorrenti che siano) sono persone teoricamente non bisognose di accedere ad un percorso trattamentale. 

Sebbene molte delle regole discusse nel corso di questo lavoro siano applicabili in capo a tutti gli operatori penitenziari, in questa occasione ci si occuperà in maniera analitica dei colloqui che con il soggetto detenuto hanno le due figure titolari per eccellenza del trattamento rieducativo: il funzionario giuridico-pedagogico (o educatore penitenziario) e l’esperto ex articolo 80 ord. penit..

A questo proposito, occorre evidenziare come molteplici siano in realtà gli operatori del trattamento:

  • educatori,
  • esperti ex articolo 80,
  • insegnanti,
  • ministri di culto,
  • volontari,
  • titolari di iniziative specifiche (di stampo culturale, ricreativo o sportivo),
  • operatori dei servizi per le dipendenze,
  • assistenti sociali e
  • lo stesso personale di polizia penitenziaria, che è chiamato a svolgere un ruolo anche nell’ambito della rieducazione.

Detto questo, però, si ritiene doveroso inquadrare come figure cardine del trattamento proprio gli educatori e gli esperti – a supporto di questa tesi si può fare riferimento alla composizione stessa del Consiglio di disciplina: la scelta è infatti ricaduta proprio sull’educatore e l’esperto ex articolo 80, oltre al Direttore che lo presiede. Inoltre, sono le uniche due figure abilitate a fare i colloqui di primo ingresso –, i quali, a differenza degli altri, sono chiamati ad avere un contatto più costante con i detenuti e ad utilizzare in maniera sistematica lo strumento del colloquio individuale.

In questo caso, il colloquio ha una duplice finalità: rieducativa e “di ricerca” (I. Merzagora e G. Travaini).

Attraverso lo scambio dialogico che si ha nel corso dei colloqui, si dà infatti compimento al mandato costituzionale (secondo l’articolo 27, co. 3, Cost., le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato), secondo cui alla pena deve essere attribuita una funzione rieducativa.

Allo stesso tempo, il colloquio serve a dare concretezza all’attività di osservazione scientifica della personalità del reo. Ciò significa che esso debba essere considerato come un momento valutativo e informativo, ovvero di ricerca e acquisizione di informazioni volte a dare risposta ad alcuni quesiti. In particolare, ci si deve chiedere se sia stato avviato o meno un processo di revisione critica del reato ed eventualmente stabilire il grado di ravvedimento del reo, formulare un giudizio prognostico in merito alla possibilità di recidiva e valutare l’idoneità del detenuto ad accedere a misure alternative alla detenzione. Altri quesiti riguardano il vissuto intramurario e la condotta precedente, contemporanea e successiva al reato, la natura del reato, i precedenti penali e i carichi pendenti, la storia familiare e la progettualità.

Naturalmente, ogni figura professionale si concentrerà sugli aspetti più conformi alla propria preparazione e al proprio ruolo.

Per esempio, il criminologo è chiamato ad indagare in modo specifico la storia criminale e criminogenetica, rispondendo a quesiti ben definiti relativi alla criminogenesi e alla criminodinamica (con l’espressione criminogenesi si fa riferimento all’evoluzione dei fatti che hanno portato all’evento criminoso e allo studio delle motivazioni alla base della commissione del reato. La criminodinamica, invece, è la ricostruzione dell’evento stesso, attraverso la definizione delle modalità e delle tempistiche con cui si è svolto il fatto reato): ricercherà le motivazioni alla base del reato, analizzerà la relazione diadica tra autore e vittima e ricostruirà le notizie concernenti la posizione giuridica.

Lo psicologo si focalizzerà maggiormente sull’indagine personologica, attraverso la valutazione dei fattori statici e stabili e degli aspetti distali e prossimali. Si concentrerà sulle informazioni anagrafiche: sviluppo fisiologico, composizione della famiglia, legami affettivi, carriera scolastica, percorso lavorativo, eventuali malattie o dipendenze, propositi per il futuro.

L’area educativa, invece, si configura come un punto di riferimento per tutti gli operatori del trattamento ed è chiamata a coordinare l’azione di tutto il personale addetto alle attività concernenti la rieducazione.

Pertanto, l’educatore dovrà condurre i colloqui in modo da reperire tutte le informazioni utili

  • alla cura del fascicolo del detenuto,
  • alla pianificazione degli interventi,
  • alla formulazione delle ipotesi trattamentali,
  • alla definizione della tipologia di approccio, ma soprattutto
  • alla redazione della relazione di sintesi e del programma individualizzato di trattamento, il quale dovrà essere concordato con le altre agenzie del territorio.

Ciò premesso, si vedrà di seguito con quali modalità per queste figure è corretto relazionarsi ai soggetti ristretti negli istituti di pena, quali domande fare, quali errori è bene evitare e come dovrebbe essere il setting, ovvero il contesto spaziale in cui avviene il colloquio, facendo riferimento all’arredamento e all’ubicazione della stanza, per favorire un colloquio efficace e produttivo.

Un colloquio è il parlare insieme di qualcosa in modo da rendere possibile l’incontro con l’altro e ciò presuppone il saper ascoltare, un’abilità imprescindibile per chi opera in ambito penitenziario.

Per accedere all’altro, dobbiamo mettere in gioco anche noi stessi, non crederci immuni dalla sofferenza e soprattutto non sentirsi “al di sopra”: anche un atteggiamento di neutralità, nel colloquio, è un errore quando è dovuto a comodità o ad un’effettiva incapacità di prendere posizione.

L’obbiettivo dell’intervistatore – e scopo del colloquio – è quello di riconoscere, dietro le affermazioni del detenuto, il suo mondo ed in particolare i suoi bisogni, le sue mancanze, i suoi riferimenti, i suoi desideri e tutto ciò che possa essere utile ad intraprendere un percorso di riabilitazione e risocializzazione.

A questo punto, si ritiene opportuna una breve descrizione dello spazio entro il quale dovrebbe avvenire il colloquio.

 

2. Il setting

Quello che si sta per descrivere è uno spazio ben diverso da quello in cui, nella stragrande maggioranza dei casi, avvengono i colloqui tra il detenuto e l’intervistatore, sia esso l’educatore o l’esperto ex articolo 80.

Eppure, l’idoneità del setting si rivela di fondamentale importanza al fine di favorire una comunicazione efficace e sincera tra le parti. Le caratteristiche fisiche del contesto in cui si svolge la conversazione, infatti, stimolando sensazioni positive o negative, finiscono per incidere notevolmente sulla buona riuscita del colloquio.

In primo luogo, per favorire la concentrazione e il senso di riservatezza del detenuto, dovrebbe trattarsi di una stanza collocata in una parte della struttura piuttosto silenziosa e appartata, o almeno lontana da luoghi di passaggio o esposti ad eccessivo rumore.

È bene, inoltre, che il personale di custodia si trattenga nelle immediate vicinanze della sala adibita al colloquio, ma che all’interno non vi sia altra persona all’infuori dell’intervistatore e dell’intervistato. L’eventuale presenza di terzi potrebbe inibire la capacità dell’utente di raccontarsi e tradire la riservatezza cui ha diritto.

All’interno dello spazio in cui si svolge il colloquio, un elemento indispensabile è rappresentato dalla porta, la quale segna un limite fisico, ma anche psicologico, al di là del quale è possibile dire le cose che non si direbbero al di qua.

Oltre alla porta, l’arredamento in generale è molto importante. La stanza del colloquio dovrebbe poter esprimere sobrietà e serenità. La presenza di un tavolo e di sedie comode risulta essenziale al fine di garantire una buona tenuta del colloquio. Infine, le pareti dovrebbero essere colorate per evitare che lo squallore finisca per travolgere tutto, intervistatore compreso (S. Ciappi).

La presenza di ambienti simili da dedicare ai colloqui non solo non è scontata, ma è spesso molto lontana dalla realtà, dove si fatica anche a trovare semplicemente una stanza in cui conferire con il detenuto, costringendo talvolta gli operatori ad arrangiarsi nei corridoi e i detenuti a portare il panchetto che hanno in dotazione nella cella.

 

3. Il linguaggio e l’ascolto

In primo luogo, come impone anche l’articolo 1, co. 4, ord. penit., i detenuti devono essere chiamati o indicati con il loro nome, pertanto ci si rivolge ed essi sempre chiamandoli per nome o cognome. Questo è anche un buon punto di partenza per scalfire il processo di deumanizzazione che il carcere pone in essere: far sentire al detenuto che esiste, che ha una sua identità e che non è solo un numero di matricola.

All’inizio del colloquio è buona norma salutare e ripetere il nome del nostro interlocutore più volte, allo scopo di dargli l’impressione di averlo aspettato.

L’accoglienza, però, non deve essere né troppo calorosa, né troppo indifferente.

Trattare il detenuto come un amico (o un potenziale tale) sarebbe un errore molto grave, da scontare in termini di credibilità e professionalità. D’altra parte, anche un’eccessiva freddezza e insensibilità sarebbero controproducenti poiché il rischio è che l’interlocutore si renda inaccessibile o poco disponibile ad un dialogo franco e sincero.

A questo punto, dopo averlo invitato a sedersi, si consiglia di spiegargli la situazione nella maniera più chiara possibile, descrivendo il motivo del colloquio e presentandosi: questo momento servirà a rompere il ghiaccio e mettere a proprio agio il soggetto che potrebbe apparire spaesato: non tutti sono habitué del carcere, potrebbero non conoscere neanche l’esistenza del trattamento rieducativo e della figura dell’educatore o del criminologo.

Per quanto riguarda l’annosa questione degli allocutivi, si ritiene sia consigliabile l’uso del lei, fatta eccezione per due casi.

Il primo è relativo ai giovani adulti, ovvero quei ragazzi al di sotto dei venticinque anni per i quali l’uso del lei potrebbe risultare una forzatura oltremodo pomposa, nonché probabile oggetto di ridicolizzazione. Raccomando in ogni caso di farsi autorizzare dal soggetto in questione, chiedendo se non preferisca invece farsi dare del lei.

Il secondo riguarda l’alta percentuale di stranieri che oggi affolla le carceri italiane: dobbiamo tener presente che in molte culture linguistiche si usa soltanto il tu, pertanto l’uso del lei rischia di confondere ancora di più l’utente, andando a complicare ulteriormente quella che con buona probabilità sarà una già faticosa conversazione.

È di fondamentale importanza, durante il colloquio, saper ascoltare l’altro, che significa prestare attenzione non soltanto alle parole, ma anche all’intonazione, al ritmo del discorso, alle difficoltà di enunciazione e anche al linguaggio del corpo.

Poiché tra i principali obbiettivi che si richiedono agli esperti dell’osservazione e del trattamento vi è la rilevazione del grado di revisione critica del reato, è a quest’ultimo che nello svolgimento di un colloquio occorre dedicare una particolare attenzione.

Saper ascoltare, però, significa anche evitare di precipitarsi verso la narrazione del reato, cercando di arrivarci soltanto dopo aver consolidato con il soggetto un clima di empatia. Molto utile, ad esempio, è farsi raccontare dettagliatamente tutto ciò che è avvenuto il giorno che ha preceduto la commissione del reato.

Inoltre, è sempre bene giungere alla narrazione del crimine dopo che l’interessato si è aperto su altri contenuti: farsi raccontare qualcosa della propria vita, per esempio una giornata piacevole che ricorda di aver trascorso, è un ottimo metodo sia per testare la capacità di narrazione del soggetto, sia per creare un clima di fiducia e confidenza.

Durante la narrazione, soprattutto del reato, è di vitale importanza non interrompere il detenuto se non strettamente necessario ed evitare giudizi, frasi moraleggianti e perfino espressioni facciali che possano in qualche modo tradire il nostro disappunto, o mostrare disgusto, imbarazzo, pena. Anche lasciarsi sfuggire un semplice accenno di sorriso quando si nota che l’intervistato è arrabbiato, può rivelarsi molto pericoloso, oltre che anti produttivo.

Inoltre, capita di frequente che i soggetti ristretti si presentino al colloquio chiusi, reticenti, scarsamente comunicativi, salvo poi aprirsi non appena si rendano conto che chi hanno davanti a sé non è lì per dispensare giudizi.

Per affinare le abilità di ascolto, si consiglia di applicare il modello elaborato da Ivey e Ivey (2004), ovvero il sistema VVVB.

Tale tecnica implica una particolare attenzione su quattro aspetti:

V=Visual contact. Durante una conversazione è sempre buona abitudine mantenere il contatto visivo. Guardare in faccia l’intervistato mentre parla serve per capire l’andamento emotivo del colloquio e l’impatto dei singoli temi affrontati. È molto utile anche analizzare il contatto oculare del detenuto mentre noi stessi parliamo, vedere se in generale è stato rigido, evitante, sensibile, oppure se tale contatto si è interrotto su particolari argomenti.

V=Vocal quality. Il tono della voce è foriero di numerosissime informazioni. Attraverso il tono della voce si dimostra o meno interesse verso ciò che si sta dicendo e anche le variazioni del tono costituiscono indizi importanti. Se si presta bene attenzione, a dirci molto sono le sottolineature verbali, come i cambi di tono o di volume, l’enfatizzazione di alcune parole, le esitazioni e le interruzioni del discorso e lo schiarirsi della voce, che quasi sempre è sintomo di fatica o disagio nell’affrontare quel discorso.

V=Verbal tracking. L’aderenza verbale è molto importante: se il soggetto ha una storia da raccontare, non bisogna cambiare argomento, al contrario occorre incoraggiare l’elaborazione di quella storia. Anche se, in caso di disagio, tenderà a cambiare argomento, noi dobbiamo avere pazienza, rispettare l’ordine del suo discorso, basarci sui suoi argomenti ed evitare di precipitarsi con una pioggia di domande nella direzione dell’argomento di nostro interesse.

Un fattore da valutare – e di cui non si deve aver paura – è rappresentato dai silenzi. Quando capita che la persona rimanga in silenzio, è opportuno guardarla negli occhi: se si nota che è rilassata, sarebbe auspicabile rimanere in silenzio, al contrario, se ci appare a disagio, si può introdurre un nuovo argomento, tenendo presente che quando un soggetto tace, spesso il pensiero segretamente formulato è “no”.

B=Body language. Nella nostra cultura, è considerata una distanza ottimale in un colloquio tra persone che non si conoscono bene quella superiore alla lunghezza di un braccio. Oltre ad usare gesti incoraggianti mentre il soggetto parla, è bene ascoltarlo leggermente protesi in avanti con il corpo, in modo da mostrare interesse. È invece sbagliato rimanere per tutto il tempo rigidamente ancorati alla sedia: sapersi alzare e muovere con scioltezza contribuisce a conferire al colloquio una parvenza di normalità e confidenzialità, aiutando l’utente a sentirsi a proprio agio e dunque ad aprirsi. Come suggerisce Silvio Ciappi, rimanere per tutto il tempo “in cattedra” può infastidire e dare più l’idea di un interrogatorio che di un colloquio.

In sintesi, oltre a prestare attenzione alle parole, è bene osservare:

a) il contatto visivo;

b) le caratteristiche vocali (l’intonazione, le variazioni vocali, la punteggiatura);

c) la conduzione verbale (se ci sono stati argomenti che il soggetto ha voluto evitare, argomenti sui quali si è concentrato di più, argomenti che lo hanno rasserenato o al contrario innervosito;

d) il linguaggio del corpo (la postura, i gesti, la distanza, il respiro, l’arrossamento della faccia ecc.).

Alla fine del colloquio sarebbe buona prassi chiedersi se si è parlato più noi o l’intervistato e se si è stati capaci di metterlo nelle condizioni di raccontare la sua storia. La risposta a queste domande costituisce una valida guida per impostare il colloquio successivo.

Il linguaggio da usare, affinché sia comprensibile ed accessibile a tutti, deve essere quello della quotidianità. In particolare, occorre sforzarsi di utilizzare lo stesso linguaggio dell’intervistato, gli stessi codici, evitando i vocaboli che potrebbe non conoscere.

Affinché il colloquio sia efficace, può essere utile per correggere il tiro e reindirizzare la conversazione, conoscere alcuni stili di discorso.

Può capitare, per esempio, che il soggetto sciorini le informazioni come fossero una valanga, saltando di palo in frasca e difficilmente, se non sapientemente “contenuto”, riuscirà a finire un discorso intrapreso.

Nello stile “orale”, invece, si cerca di utilizzare parole piacevoli e un tono mellifluo, cercando di addolcire ogni situazione dolorosa. Infine, ci sono casi in cui la persona si muove con rabbia e violenza, “sporcando” tutto attraverso il linguaggio: le situazioni, le persone di cui parla, lo stesso intervistatore.

Ascoltare le persone intervistate e dare loro la possibilità di parlare è molto importante. In alcuni casi, però, occorre non prestare attenzione, per esempio quando il nostro interlocutore parla insistentemente, quasi automaticamente, dello stesso argomento. In questo caso, può rivelarsi molto più utile distogliere lo sguardo e non mostrare interesse per l’argomento.

Si possono individuare alcune parole chiave del discorso dell’intervistato e su quelle tentare di insistere per fargli cambiare argomento.

Annuire con la testa e ripetere le parole chiave sono dei validi incoraggiamenti per sollecitare l’interlocutore a continuare a parlare, magari approfondendo l’argomento. Incoraggiare l’utente è molto importante anche per dargli l’impressione di interagire con lui e ridurre l’ansia che solitamente affligge i detenuti al momento del colloquio, i quali necessitano di fare un’impressione favorevole ai fini del percorso premiale.

Se il detenuto si trovasse di fronte un osservatore totalmente asettico, che non lasciasse trasparire alcun indizio sulle sue emozioni e i suoi pensieri, probabilmente si chiuderebbe a riccio e smetterebbe di parlare, tanto più se si considera che si stanno toccando aspetti della sua vita particolarmente delicati e con ogni probabilità imbarazzanti.

Ad ogni modo, la regola generale nel colloquio è parlare poco e usare termini semplici; lasciare spazio alle parole del detenuto e saper aspettare le sue risposte: fare pressioni e avere fretta è sempre una strategia controproducente.

Tra gli errori da non commettere, si deve annoverare la conduzione di un colloquio sbrigativo, ma anche prolungare troppo la discussione è sbagliato, poiché il rischio è che sia l’intervistato che l’intervistatore si affatichino eccessivamente, perdendo concentrazione e lucidità. Sono errori anche fare promesse vane, che si sa già di non poter mantenere e arrivare al colloquio con ipotesi già rigidamente costituite.

 

4. Le domande

Fare domande ha la funzione di far emergere i dettagli della vita e della storia del detenuto, guidando la conversazione. Ma un errore che non si può assolutamente commettere è bombardare l’intervistato di domande, lasciando che il colloquio diventi più un interrogatorio che una conversazione empatica. È sempre meglio rivolgere al soggetto una sola domanda alla volta, poiché le domande multiple danno facilmente l’impressione di un bombardamento; lo stesso vale per la ripetizione ossessiva della stessa domanda. Da evitare anche le domande guidanti, ovvero quelle domande che contengono già in sé la risposta.

Se si ha un pensiero è preferibile esplicitarlo direttamente con un’affermazione, piuttosto che sotto forma di domanda. Per esempio, alla domanda “lei non pensa che così facendo si sentirà ancora più giù?” è preferibile affermare “così facendo si sentirà ancora più giù”.

Qualora non sia strettamente necessario, si raccomanda infine di astenersi dal chiedere “perché”: tale interrogativo, infatti, tende a mettere a disagio le persone, evocando la sensazione di essere scrutati. Meglio sostituire il “perché” con il “come” ed in particolare, chiedere “come ti sei sentito in quel momento/quando…” al fine di aumentare l’efficacia comunicativa e la carica empatica.

Per guidare efficacemente il colloquio, può essere utile per l’intervistatore prepararsi una sorta di schema mentale con alcune domande interne alle quali cercherà di ottenere risposta nel corso della conversazione.

In primo luogo, si dovrà cercare di capire chi sia il soggetto che si ha di fronte, quindi chi siano le persone significative per lui, quelle implicate nella sua storia, nel reato e quali siano i suoi punti di riferimento.

Dopo, occorrerà comprendere quale sia il suo problema: quali le sue preoccupazioni, i suoi bisogni, i suoi disagi, che cosa gli stia capitando. Ma anche quali siano le sue risorse e i suoi desideri. Ad un certo punto del percorso, tali domande interne possono essere esplicitate direttamente al soggetto che si è chiamati a seguire.

Altre due domande a cui bisogna essere in grado di rispondere sono “quando” e “dove”: quando è successo? In concomitanza di un evento particolare? È importante collocare gli eventi all’interno di una cornice cronologica e indagare non soltanto sul momento oggetto di esame, ma anche su quelli immediatamente precedenti e successivi. Inoltre, occorre analizzare la situazione in cui l’evento si è verificato, l’ambiente e il contesto sociale.

Ai fini di esplorare gli stati emotivi del detenuto e il suo mondo interiore, il quesito forse più importante, che solitamente vale la pena esplicitare, riguarda il “come”: come si è sentito? Come ha reagito al problema? Come si sente nel ricordare?

Come già si è sottolineato, da usare con parsimonia nei confronti del detenuto sono i “perché”: è giusto chiedersi quali siano le ragioni che egli adduce a fondamento del problema, ma bisogna far attenzione a non farlo sentire attaccato o sotto interrogatorio.

Inoltre, si nota la tendenza da parte degli autori di reato a dare risposte stereotipate, sviando dalla questione centrale; in questo caso occorre mantenere un atteggiamento paziente e non giudicante, cercando di approfondire gradualmente la questione.

L’ultima domanda implicita che l’intervistatore dovrebbe porsi in ogni colloquio è “cos’altro”. Dobbiamo sempre chiederci se abbiamo dimenticato qualcosa e dopo esplicitare anche al detenuto tale interrogativo. Domandare all’utente “cos’altro le viene in mente” può rivelarsi utile per favorire l’apertura e dargli la possibilità di dipanare nuove questioni.

Le domande che invece devono essere direttamente rivolte all’interessato possono essere aperte o chiuse; bisogna fare attenzione a scegliere la tipologia più idonea all’interlocutore. Le domande aperte, spesso introdotte da “potrebbe” (“potrebbe fare un esempio”, “potrebbe raccontarmi…”) lasciano al soggetto lo spazio sufficiente per scegliere i contenuti e gli permettono di parlare più liberamente. Le domande chiuse, invece, quelle a cui si risponde semplicemente “si” o “no”, determinano risposte brevi.

Pertanto, si raccomanda di abusare delle domande aperte nel caso in cui si abbiano di fronte detenuti reticenti e di impiegare, al contrario, le domande chiuse nel caso di soggetti particolarmente loquaci, per porre un freno alla loro logorrea. Nella generalità dei casi, è bene trovare il giusto equilibrio tra domande aperte e chiuse.

Quando il nostro interlocutore appare troppo chiuso e restio a parlare, raccontare una propria storia personale può aiutare molto: mettendo in gioco se stessi, si contribuisce a creare quel clima di empatia e fiducia reciproca che con buone probabilità lo indurrà a sciogliersi. All’opposto, quando ci si trova di fronte quel soggetto che con lungaggine estenuante tenta di raccontarci tutta la propria vita, sarà d’aiuto un delicato cambio d’argomento: attraverso alcune domande chiuse si può fare in modo che il soggetto si focalizzi su tematiche più specifiche.

Tra le domande esplicite che si dovrebbero rivolgere al soggetto per farsi un quadro generale della sua personalità e del suo vissuto, si annoverano le seguenti:

  • Con chi viveva quando le è capitato ciò?
  • Potrebbe dirmi cosa è capitato di preciso?
  • Quando è successo questo fatto, lei in quei giorni cosa faceva?
  • Come si è sentito?
  • Cos’altro potrebbe aggiungere?

È molto importante anche che le domande siano poste con sufficiente chiarezza e affinché le domande siano chiare, è necessario usare lo stesso vocabolario del nostro interlocutore. Un linguaggio oscuro o tecnico avrà soltanto la funzione di allontanare il soggetto da noi, provocando in lui confusione e spavento.

Oltre ad usare una terminologia semplice, può essere d’aiuto, in alcuni casi, parafrasare, sintetizzando, quello che ha appena detto per essere certi di aver capito bene. Così facendo, si ha anche il vantaggio di produrre una chiarificazione dei concetti astratti rendendoli più concreti agli occhi dello stesso intervistato. Alcune persone hanno infatti la tendenza a ripetere più e più volte la loro storia, nel timore di non essere stati capiti bene. In questo caso, diventa importante individuare l’essenza del discorso e riferirla al soggetto stesso, in modo da accorciare e chiarificare il suo concetto.

Inoltre, può essere utile chiedere spiegazioni, per esempio in caso di cambio improvviso di argomento: “potrebbe dirmi perché adesso si è messo a parlare di X, se fino a poco fa parlava di Y?”.

Infine, dato che l’obbiettivo finale è quello di aiutare il soggetto a reinquadrare la propria vita in un’ottica più positiva, è sempre bene porre una serie di domande attraverso le quali sarà possibile scoprire i suoi punti di forza e le sue risorse: “Quali alternative le vengono in mente?”, “Quale tipo di soluzione le è stata di aiuto in passato?” e così via. Tale operazione, di certo non facile e alquanto faticosa, è fondamentale per insegnare al detenuto ad interrogarsi su se stesso e le proprie capacità.

Seguendo un modello di colloquio particolarmente avanzato, ma pochissimo usato nel contesto penitenziario, si può concludere il colloquio raccomandando al soggetto di svolgere alcuni esercizi.

Per esempio, lo si può invitare a tenere un registro, o una sorta di diario, in cui esplicitare i propri stati d’animo, sfogare le proprie frustrazioni, annoverare i successi ottenuti. Oppure, lo si può invitare ad allenarsi a tenere un nuovo comportamento durante una situazione particolare o con compiti specifici.

Altre tecniche di sperimentazione consistono nello stimolare il detenuto ad usare l’immaginazione, ricercando i mezzi e gli strumenti più idonei per fronteggiare una situazione particolare che potrebbe presentarglisi nel futuro. Infine, benché in carcere se ne faccia un uso del tutto marginale, può essere utile utilizzare il role playing, simulando con l’intervistatore una situazione al fine di rendere chiaro e concreto il comportamento che sarebbe opportuno tenere.

Ad ogni modo, in termini di esercizi ed esperimenti, sono aperte infinite possibilità e vale la pena lasciare spazio all’immaginazione del professionista che sarà chiamato a rapportarsi con il detenuto.

Ma come comportarsi quando di fronte ci si trova un soggetto non interessato al trattamento rieducativo e poco motivato al cambiamento?

Occorre intanto premettere che le ragioni del rifiuto a collaborare o più in generale la scarsa propensione al confronto dialogico possono essere molteplici.

Si pensi ad esempio ai soggetti affiliati ad organizzazioni criminali, nelle quali la condizione di omertà e assoggettamento derivante dal vincolo associativo impedisce la collaborazione con le Istituzioni. Inoltre, bisogna tener presente che in molte delle persone ristrette esiste un deficit di socializzazione al quale spesso corrispondono scarse capacità espressive e comunicative, oltre a poco sviluppate doti autoanalitiche. Infine, può darsi che a causa della pregressa adesione ad una trama valoriale tipica dell’universo criminale, in cui le definizioni devianti e delinquenziali sopravanzano quelle di conformità, il nostro interlocutore non riesca a cogliere il disvalore etico e sociale della propria condotta. Di conseguenza, potrebbe avere un’errata percezione dell’accettabilità dei suoi comportamenti o addirittura ritenerli doverosi, mostrandosi refrattario ad ogni tentativo di modificazione delle sue distorsioni cognitive.

Lavorare con queste persone può essere molto difficile ed è bene accettare che talvolta possa essere anche impossibile.

In fondo, è bene ricordare che il detenuto non è in nessun caso, nel nostro Paese, obbligato a seguire un percorso riabilitativo ed è nostro compito ribadire questo concetto al detenuto stesso.

Tutto ciò che si può fare, è proporre colloqui di approfondimento su questioni specifiche, invitandolo, se necessario, a presentarsi al colloquio per parlare di ciò che vuole: anche questo può rivelarsi un modo efficace di reperire informazioni funzionali all’osservazione scientifica della personalità del reo. Non ci dimentichiamo che tra gli obbiettivi vi è quello di raccogliere informazioni rilevanti sulla storia e la personalità del soggetto ristretto, al fine di concludere l’osservazione e stilare poi un documento, che sia la relazione di sintesi, il programma di trattamento o una perizia criminologica/psicologica. Pertanto, anche la poca volontà da parte del detenuto di sottoporsi ad un’indagine personologica o di presentarsi al colloquio è per noi fonte di preziose informazioni.

Quando si ha a che fare con i detenuti, capita spesso di trovarsi davanti persone che pongono in essere meccanismi difensivi e strategie di negazione o minimizzazione del fatto, per esempio attraverso lo scaricamento della colpa su altri soggetti o fattori.

È possibile, tuttavia, giungere ad una revisione critica del reato grazie ad alcuni elementi, come l’abilità del professionista, la capacità del soggetto di parlare apertamente e la possibilità di costruire nuovi modelli comportamentali grazie alle risorse che saremo in grado di far emergere nel corso dei colloqui.

Chi ascolta, può aiutare il detenuto a costruirsi una nuova identità mettendosi in gioco in prima persona, per esempio raccontando storie positive su sé stesso, rivelando qualcosa di sé e anche svelandogli le sue sensazioni personali.

Infatti, restituirgli un feedback, ovvero delle considerazioni su come altri probabilmente lo vedono, può essere utile affinché il soggetto capisca su quali aspetti intervenire e quali sono i punti di forza da potenziare.

Ovviamente il feedback deve essere “non giudicante”, ovvero privo di giudizi, ma quanto più preciso possibile. In questo modo, è possibile contribuire ad accrescere il grado di fiducia che il detenuto ha in sé stesso, insegnargli a vedere il futuro come “autodeterminabile” e a ricercare da solo tutti quegli skills che gli consentano di affrontare le varie situazioni una volta uscito dal carcere.

Anche impiegare una strategia descrittiva può essere utile: quando il nostro interlocutore non riesce a parlare di qualcosa, si può tentare di chiedergli di fare una descrizione di un elemento contingente al fatto: per esempio dell’ambiente in cui è avvenuto, di una persona, di ciò che in quel momento lo ha colpito ecc. in modo che possa sciogliersi. Capita spesso che descrivere “altro” sia l’input per arrivare poi a parlare del fatto stesso.

Per quanto riguarda il prendere appunti nel corso del colloquio, cosa che può essere estremamente utile per l’intervistatore, è bene ricordarsi che si può fare, ma senza esagerare, per non dare l’impressione al nostro interlocutore che non gli stiamo prestando la giusta attenzione o che ci stiamo distraendo. Inoltre, se il soggetto si rende conto che stiamo registrando tutto quello che dice, potrebbe spaventarsi e chiudersi oppure studiare meticolosamente le parole da dire e quelle da non dire.

 

5. Il colloquio di primo ingresso

Particolarmente importante è il colloquio di primo ingresso: in questo caso l’intervistatore è il funzionario giuridico-pedagogico e più raramente l’esperto ex articolo 80.

L’ingresso in carcere rappresenta una vera e propria frattura biografica, un momento delicatissimo che merita un’attenzione particolare.

Fin da ora, l’operatore deve chiedersi quali siano le principali fonti di preoccupazione per il neo-detenuto e quali opportunità e strategie sia più opportuno attivare.

Inoltre, già da questo momento, dovrebbe partire la raccolta di tutte quelle informazioni utili a farsi un’idea dell’identità della persona.

Pertanto, una volta rotto il ghiaccio e creato un clima di empatia e franchezza, si cominciano a chiedere notizie

  • della famiglia d’origine,
  • della famiglia che si sia eventualmente costituito,
  • dell’ambiente sociale,
  • del percorso scolastico,
  • delle attività lavorative svolte,
  • dell’infanzia e la pubertà e poi ancora,
  • i punti di riferimento,
  • gli amici,
  • gli interessi e gli hobbies,
  • le abitudini alimentari, sessuali e relative al sonno e
  • tutto quello che il detenuto abbia voglia di rivelarci.

Infine, con delicatezza, è necessario chiedere se faccia uso di sostanze stupefacenti, se abbia problemi di alcolismo o abbia un passato di tossicodipendenza.

In caso di risposte affermative, si deve chiedere se si sia mai rivolto ad un SerT o se da esso sia attualmente seguito.

Sempre con tatto e delicatezza, si deve anche chiedere quale sia il suo atteggiamento nei confronti della solitudine, se abbia mai tentato il suicidio o commesso atti auto-lesivi, anche al fine di attivare, eventualmente, la Grande Sorveglianza.

Alla fine del colloquio, si ha il dovere di informare il detenuto dell’esistenza e del luogo in cui trovare la “Carta dei diritti e dei doveri del detenuto e dell’internato”, un documento che descrive il regime detentivo al quale è sottoposto, i suoi diritti e i suoi doveri, le strutture e i servizi di cui può avvalersi.

Benché tale pratica non sia molto diffusa, comunicare al detenuto la presenza della Carta è molto importante, anche in virtù del fatto che il D.P.R. n. 136 del 2012, modificando gli artt. 23, co. 5 e 69, co. 2 del D.P.R. n. 230 del 2000, ha introdotto l’obbligo per la direzione di consegnare al nuovo giunto tale documento.

Qualora il nuovo giunto rifiutasse il colloquio di primo ingresso, sarebbe buona prassi affacciarsi alla cella per valutare la situazione ed invitarlo in prima persona a presentarsi al colloquio, tentando al contempo di rassicurarlo.

Se ancora rifiuta, è forse consigliabile lasciar passare qualche giorno prima di estendere un nuovo invito, non tralasciando nel frattempo di monitorare la situazione con l’ausilio del personale di custodia.

 

6. Gestione della rabbia

Lo stress rappresenta indiscutibilmente un elemento presente in tutti coloro che si trovano ristretti all’interno delle mura carcerarie.

Inevitabilmente, la reclusione comporta una graduale perdita di autostima ed un crescente senso di rabbia, ansia e disperazione. Questo perché, da un lato, agisce il pressoché nullo controllo sulla propria vita, con una sostanziale privazione della propria capacità di autodeterminazione, dall’altro, il sovraffollamento carcerario tipico del sistema italiano scatena disagi, conflitti e violenze.

Per affrontare il colloquio con un detenuto, è bene dunque possedere gli strumenti per gestire tali sentimenti onde evitare un’aggressione.

Se il detenuto si presenta al colloquio adirato, mostrarsi affettuosi ed eccessivamente accondiscendenti, non soltanto non serve a niente, ma può rivelarsi controproducente.

Un’idea potrebbe essere quella di insinuare nel soggetto da intervistare il dubbio che anche noi potremmo essere adirati, ma soprattutto fargli capire che vorremmo conoscere il motivo del suo stato d’animo.

Per gestire al meglio lo stato di rabbia, innanzitutto è utile conoscere il ciclo dell’aggressione, il quale è costituito da una progressione di fasi che possono avere durata e intensità differenti:

quiescenza → stimolazione → escalation → accelerazione → picco → de-escalation → risoluzione.  

Gli eventuali testimoni, solitamente, ricordano il primo momento, ovvero quello della calma e della tranquillità, mentre difficilmente riescono a cogliere le fasi successive.

A scatenare la rabbia deve essere un trigger, ovvero un elemento stimolante che non sempre è noto. In situazioni particolari, per esempio in mancanza di sonno o sotto l’uso di sostanze stupefacenti, certi stressors possono essere amplificati, percepiti in maniera più intensa rispetto a quando si è in condizioni normali.

Oltre alla disinibizione indotta da sostanze, il trigger può essere l’intensificazione di una stimolazione avversativa, ma anche la percezione di mancanza di alternative, provocazioni relazionali (reali o presunte), come una vera e propria intrusività da parte di un’altra persona. Poi ci sono i fattori stressanti maggiori, ad esempio una situazione di pericolo, una condizione di forte difficoltà o una minaccia o interpretazioni psicodinamiche intrusive.

A questo punto, si possono cogliere nella persona degli elementi di diversità rispetto alla fase della quiescenza, come un cambio di postura o di linguaggio: tali cambiamenti indicano che il soggetto sta entrando in uno stato di agitazione e per questo diventa fondamentale saper cogliere il cambiamento nell’altro.

In primo luogo, occorre osservare l’aspetto fisico: contratture mimiche e facciali, serratura dei pugni o dei denti, sguardo minaccioso. Allo stesso tempo, bisogna fare attenzione alle minacce verbali e all’aumento del volume della voce e/o all’emissione continua della stessa, che diventa quasi automatica.

Deve metterci in allarme anche il dettaglio nel descrivere le minacce, il quale può indicare una pianificazione, un pensiero organizzato.

Tra gli altri comportamenti da tenere in considerazione ci sono la gesticolazione, il passeggiare rapidamente o avanti e indietro e altri movimenti corporei ampi: i comportamenti motori macroscopici sono quasi sempre indice di uno stato di agitazione che, se non adeguatamente contenuto, sfocerà in agiti aggressivi.

Oltre a questi correlati comportamentali dell’aggressività, è bene valutare i fattori legati all’ambiente, poiché le persone frustrare o stressate hanno maggiori probabilità di mettere in atto comportamenti aggressivi.

Altri fattori di rischio a breve termine sono i disturbi paranoidei e/o presenza di allucinazioni di comando, i disturbi neurologici, la recente assunzione di droghe o alcool, una storia di abusi fisici ripetuti.

Per questo motivo, prima di presentarsi al colloquio, sarebbe consigliabile raccogliere informazioni sulla persona che ci si troverà di fronte ed in particolare sapere se il soggetto in questione è autore di precedenti aggressioni, soprattutto ai danni di operatori sociali e penitenziari. 

Una volta valutati questi fattori, è indispensabile indagare anche la disponibilità di armi, ovvero la possibilità per il soggetto di procurarsi qualsiasi oggetto atto ad offendere.

È proprio in questo momento, l’escalation, che si rende necessario fare una rapida diagnosi della situazione di pre-aggressione e porre in essere una serie di interventi verbali per evitare l’aggressione e ridurre il comportamento violento. È opportuno mantenere i feedback verbali fino alla progressiva risoluzione della crisi.

Se non si interviene adeguatamente, la fase successiva è quella dell’arousal, vale a dire una condizione di iper-attivazione: il livello dello stato della persona aumenta fino al punto di non riuscire più a cogliere gli stimoli fini. Si percepiscono soltanto i pericoli, non si è più in grado di fare inferenze corrette sulla realtà circostante, si fanno solo associazioni semplici. Non c’è più una gradazione di interventi, ma soltanto risposte comportamentali massimali, pensieri estremi, “tutto o niente, bianco o nero”, senza possibilità di mediazione.

La presenza di arousal fisiologico e mentale indica rabbia, uno stato emotivo soggettivo che può sfociare nel “picco”, il momento di massima attivazione motoria e minor capacità cognitiva di discriminazione e di valutazione. A questo punto, sul piano operativo, deve prevalere una logica di limitazione del danno e la ricerca della sicurezza.

Più la rabbia si diluisce nel tempo e meglio è e dei piccoli gesti di scarico della tensione, come battere il pugno sul tavolo, sono da considerare positivamente.

Dopo il picco comincia una fase di calata, detta de-escalation, che consiste in un graduale ritorno alla linea psicoemotiva di base.

Poiché il livello di arousal in questo momento è ancora elevato, il rischio di nuove manifestazioni di violenza permane alto e infatti, in alcuni casi, si reinnesca il comportamento aggressivo. Di conseguenza, in questa fase è necessario mantenere un monitoraggio attivo sulla situazione e astenersi da interventi intrusivi, fino alla definitiva risoluzione della crisi.

La fase di de-escalation è indotta da un insieme di interventi, verbali e non, mirati ad abbassare il livello di ostilità, riducendo progressivamente la rabbia e la predisposizione al comportamento aggressivo. Cercheremo ora di descrivere le azioni di desensibilizzazione volte a contenere lo stato di rabbia.

In emergenza, è necessario un intervento assertivo, mostrarsi calmi e assumere un atteggiamento positivo: può essere d’aiuto richiamare il soggetto a qualcosa di piacevole. Il tono della voce deve essere rassicurante, non giudicante e non provocatorio. Si deve parlare in maniera neutrale e concreta, ricordandosi che in quel momento la persona non riesce a seguire facilmente i nostri discorsi. Pertanto, è bene agganciarsi a cose semplici e fare ragionamenti poco articolati e complessi, usando frasi brevi e dal contenuto molto chiaro.

Bisogna interporre una distanza utile tra noi e il soggetto, dimostrargli rispetto ed evitare un contatto visivo troppo diretto, il quale provocherebbe in lui un ulteriore stato di ansia e agitazione. Occorre trovare il giusto equilibrio tra sicurezza e autocontrollo, senza apparire autoritari. È molto importante, in questa fase, dare spazio al nostro interlocutore, lasciarlo parlare e ascoltarlo, evitando di dare nostre interpretazioni, le quali potrebbero facilmente essere fraintese.

Da evitare assolutamente sono le promesse che si sa già di non poter mantenere. Al contrario, può essere d’aiuto accettare alcuni contenuti della conversazione, dichiarandosi d’accordo con alcune delle sue affermazioni: “capisco che…”.

Progressivamente, si possono suggerire alternative che da solo non vedrebbe e metterlo di fronte a delle piccole scelte. Dopodiché, è necessario imporre crescenti limiti prescrittivi o delle vere e proprie barriere, fino alla risoluzione dell’ostilità.

 

7. Conclusioni

Secondo Silvio Ciappi, l’empatia costituisce una “predisposizione naturale” che fa sì che la disponibilità a cambiare il nostro modo di vedere il mondo dipenda dalla capacità empatica del nostro ascoltatore: «nel colloquio clinico l’empatia è il risultato delle tecniche di ascolto attivo e di formulazione delle domande interne e esplicite. Per essere empatici è fondamentale domandarsi: abbiamo realmente sentito ciò che il paziente stava dicendo? Abbiamo capito il suo punto di vista? Abbiamo sentito il suo mondo come lui lo sente? Essere empatici significa anche instaurare un clima di fiducia reciproca che possa permettere una buona motivazione per il paziente al cambiamento, significa in altre parole far sì che il paziente riconosca la propria storia e che possa arricchirla di significati nuovi».

Ciò che conta è mostrare al nostro interlocutore che la sua storia è stata ascoltata e condivisa, poiché la condivisione di un’esperienza dolorosa ha un grande significato terapeutico. Condivisione non significa però “collusione”, vale a dire quel processo di socializzazione delle emozioni che deve assolutamente essere evitato. “Colludere” significa «condividere emozionalmente le stesse simbolizzazioni affettive entro un contesto comune e partecipato» ed è chiaro che trattandosi di un autore di reato, il contesto non possa essere “comune e partecipato”.

Non colludere non significa non essere empatici, significa semplicemente non accettare in toto quello che il reo dice e le richieste che avanza, ma sforzarsi al suo fianco di cercare una nuova strada da percorrere.

Letture consigliate

S. Ciappi, Psicopatologia narrativa. Funzionamento del Sé e pratica clinica, LAS, Roma, 2013.

E. Borgna, Come in uno specchio oscuramente, Feltrinelli, Milano, 2007.

I. Merzagora e G. Travaini, Il mestiere del criminologo. Il colloquio e la perizia criminologica, Franco Angeli, Milano, 2015.

A. A. Semi, Il metodo delle libere associazioni, Cortina, Milano, 2011.