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Flessibile, adattabile e bilanciato

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Flessibile, adattabile e bilanciato

La mentalità del comunicatore.

  • Se una cosa non funziona: fa altro.
  • Se non sa cosa fare: si inventa qualcos’altro.

Paradigmi.

  • Il buon comunicatore è responsabile al 100% dei risultati che ottiene (o che non ottiene).
  • Il buon comunicatore ricerca chiedendo dati, fatti, numeri e risponde alle richieste con dati, fatti e numeri.
  • Il buon comunicatore sa spostarsi dalle proprie convinzioni, emozioni e credenze, sa scambiarsi di posizione con il proprio interlocutore e sa compensarsi direzionandosi verso il proprio obiettivo.

In poche parole.

Siamo responsabili di come costruiamo (rappresentiamo) la relazione con gli eventi che accadono.

Come la prendiamo (o ce la prendiamo) è una nostra precisa responsabilità.

Questa consapevolezza ci consente di:

  • Cambiare punto di vista
  • Modificare la strategia

Quello che facciamo non è un caso ma una precisa scelta.

Come diceva Albert Einstein:

«i problemi che affrontiamo non possono essere risolti allo stesso livello di pensiero in cui eravamo quando li abbiamo creati».

A che serve questo ragionamento?

  • A rappresentarsi obiettivi e muoversi flessibilmente.
  • A gestire la propria direzione in relazione all’obiettivo aziendale. 
  • A creare ed ampliare spazi soluzione.
  • Ad essere maggiormente in grado di comprendere le tendenze, rimando aperti ai continui cambiamenti multimediali.

La mentalità è il motore immobile dell’azione comunicativa che sta alla base di ogni piano di comunicazione, editoriale e di scrittura.

Dunque.

Concretezza, flessibilità e responsabilità concorrono ad indirizzare le nostre scelte.

Il come lo facciamo, indirizza il cosa dobbiamo fare.

Il come lo diciamo, orienta il cosa dobbiamo dire.

Ma come concretamente la mentalità personale (come modo di pensare s-cambiabile, aperto, flessibile ed in continua evoluzione) permette di gestire efficacemente la costruzione di piani e scelte editoriali?

Facciamo un passo indietro.

I piani editoriali sono documenti programmatici e fluidi, capaci di adattarsi e modellarsi finalizzati alla definizione e all’organizzazione delle scelte comunicative che svilupperemo per pianificare e pubblicare in un determinato arco temporale.

Ma chi influenza questo processo di creazione e scelta comunicativa nella pubblica amministrazione?

I gruppi di pressione o interesse.

Il gruppo di interesse si attiva in modo da esercitare influenza sulle decisioni dei decisori pubblici, siano essi i rappresentanti del potere legislativo, dell'esecutivo, delle Authority e degli enti di controllo o della funzione di implementazione realizzata dalla pubblica amministrazione.

Gli opinion Leader.

L'opinion leader è un utente attivo dei media che interpreta il significato o il contenuto dei messaggi mediatici. Tipicamente l'opinion leader è tenuto in grande considerazione da coloro che accettano le sue opinioni.

Facciamo un passo avanti.

Il piano editoriale: come scelta strategica di chi, cosa, come e quando comunicare è il frutto di un processo di co-design (negoziazione con le pressioni ed i tempi in gioco) volto alla concretizzazione del processo di amministrazione per consenso.

Ci stiamo, dunque, dicendo che la capacità di apertura al dialogo, continuo cambio di punti di vista, allargamento a prospettive diverse, ascolto e gestione delle resistenze, negoziazione e rilancio concorrono alla co-creazione di strategie comunicative magmatiche in grado di gestire le pressioni?

Determinando, così, le scelte editoriali ed il potenziamento del processo di amministrazione per consenso?

Dipende.

Da cosa?

Dal linguaggio.

Quindi.

Nella gestione delle decisione comunicative propedeutiche alla costruzione di piani editoriali efficaci: la capacità personale (mentalità) come apertura al dialogo, continuo cambio di punti di vista, allargamento a prospettive diverse, ascolto e gestione delle resistenze, negoziazione e rilancio concorrono alla co-creazione di strategie comunicative magmatiche in grado di gestire le pressioni. Determinando, così, le scelte editoriali coerenti ed il potenziamento del processo di amministrazione per consenso.

Ma oltre alla mentalità, qual è l’elemento centrale in grado di farci fare la differenza?

Il linguaggio.

Un passo indietro.

Il piano editoriale è un piano di comunicazione sviluppato sulla base di un business plan e serve a definire: il tipo di comunicazione, i canali di comunicazione (“quali social scegliere e perchè”), le tipologie di contenuti, la frequenza di pubblicazione. Spesso si tende a confondere il piano editoriale con il calendario editoriale che, invece, è solo la lista delle pubblicazioni organizzate con determinate cadenza ed una precisa alternanza di argomenti e tipologie di contenuti. In pratica, il calendario editoriale non è altro che la punta dell’iceberg.

Ma cosa c’è sotto l’iceberg?

  • Studio del brand
  • Studio del target e dei competitor
  • Declinazione del posizionamento nel mercato
  • Declinazione degli obiettivi principali
  • Declinazione della strategia e dello stile di comunicazione
  • Declinazione degli obiettivi intermedi (utili a raggiungere gli obiettivi principali)

Lo scopo finale, dunque, del piano editoriale è quello di pianificare e ideare un piano di comunicazione efficace per poter dare visibilità e creare ingaggio.

Focalizziamoci ora sul linguaggio.

Semplice, chiaro, diretto, comprensibile, accessibile, aperto, incisivo e ed inclusivo. Che si prenda cura dei dettagli. Attraverso tecniche di editing collaborativo.

Le persone leggono, principalmente, da smartphone questo, nella definizione del linguaggio, significa anche prestare attenzione all’ordine, alla semplificazione ed alle parole in modo funzionale ed usabile. Uno strumento utile per analizzare l’uso delle parole territoriali maggiormente utilizzate è Google Trends. Attraverso l’analisi delle parole più usate dagli utenti è possibile rendere più incisivo il contenuto del messaggio.

Questo diventa fondamentale per centrare il “tono della voce” sul bisogno dell’utente.

Ma ci sono delle nemiche sempre pronte a limitare il nostro tono:

le generalizzazione, le cancellazioni e le deformazione.

Le tecniche di editing collaborativo, attraverso un linguaggio: semplice, chiaro, diretto, comprensibile, accessibile, aperto e incisivo concorrono alla centratura del tono di voce più coerente rispetto al target e all’obiettivo comunicativo.

Ma delle nemiche sono sempre pronte a limitare il nostro tono.

Vediamole.

Passo indietro, prima.

Partendo dal presupposto che nella comunicazione (scritta e orale) risultiamo chiari solo quando siamo stati in grado di descrivere precisamente: chi, cosa, dove, come e quando. Viene da sè che quando non siamo precisi gli altri hanno più spazio per interpretare. E capire quello che vogliono capire, aprendosi così a delle naturali domande di chiarimento. Nella comunicazione della pubblica amministrazione, del resto, la storia insegna che non ci siamo capiti e non lo sapevo sono frasi d’uso comune.

Mezzo passo avanti.

Un vecchio adagio recita: l’efficacia della comunicazione si misura con la risposta che si riceve.

Se dopo una nostra comunicazione ci fanno delle domande, facciamoci delle domande.

Ora.

La generalizzazione.

Rappresenta quel procedimento verbale con il quale parti di parole utilizzate vengono staccate dalla loro esperienza originaria e giungono a rappresentare l’intera categoria.

Esempio.

“Il mio collaboratore non mi ascolta mai!”.

“Sei sempre il solito”.

“Siete tutti uguali”.

Sempre, mai e tutti aprono alle domande quando, rispetto a cosa e chi.

E generano dubbi.

La cancellazione.

Rappresenta quel procedimento verbale con cui, selettivamente, prestiamo attenzione ad alcune dimensioni dell’esperienza e ne escludiamo altre. Comunicando solo una parte.

Esempio.

L’Ateneo è chiuso, risponderò al mio rientro.

La domanda che sorge spontanea, diceva Lubrano, è quando rientri?

La deformazione.

Rappresenta quel procedimento verbale che ci permette di operare cambiamenti nella nostra esperienza di dati sensoriali. La deformazione è il procedimento che ha reso possibili tutte le creazioni artistiche dell’uomo.

Van Gogh ha potuto dipingere quei cieli solo perché era in grado di deformare la propria percezione spazio-temporale al momento della creazione, per Walt Disney vale lo stesso ma, lavorativamente, spesso vengono utilizzate per inventare risposte avventate e lasciare spazio al dubbio.

Esempio.

So che siete annoiati dalle cose che dico.

Sai benissimo cosa voglio dire.

In questi casi è sempre il come fai a saperlo che si pone come domanda.

La precisione linguistica è una delle caratteristiche del buon comunicatore. Questa precisione risponde a cinque domande: chi, cosa, dove, come e quando. Se il comunicatore, prima di una comunicazione scritta o orale, non sa rispondere alle stesse, saranno gli altri, precisamente, a formulargliele.

Ora.

È chiaro che lavorare nella comunicazione significa capire e farsi comprendere velocemente. Significa gestire pressioni da chi vuole comparire o apparire. Significa sapersi rapportare con il tempo a disposizione (che è sempre meno di quello che si crede). Significa essere predisposti a negoziare con credibilità. Significa sapersi spostare da convinzioni limitanti e da punti di vista circoscritti. Significa essere precisi nel chiedere e nell’esporre. Significa, in poche parole, saper lottare.

Lottare? Si.

Cavarsela, esatto.

Come?

Attraverso l’allenamento dei tre presupposti principali per poter sopravvivere a questi centri di stress a cuore aperto: chiamati uffici comunicazione. Peggio, se trattasi, anche, di aree.

Il primo, la pazienza.

Lottare significa avere pazienza. Pazienza di aspettare.

Pazienza è credere nella luce che penetra dalla fessura, anche nel buio della notte. Pazienza è accettare il dominio dell’avversario (o il dominio delle mie incapacità) con la consapevolezza che il nostro ultimo respiro, sarà quello che lo sconfiggerà. Alle richieste oggi per ieri, stiamo calmi.

Il secondo, la robustezza.

Una statistica si dice robusta se produce risultati inferenziali che sono relativamente insensibili a modifiche nelle assunzioni del modello statistico. In altre parole, sei robusto quando un evento non previsto - variabile - non ti indebolisce. Nella comunicazione la variabile in gioco è quella della “sopravvivenza” e quanto robusta sarà la nostra tempra non lo determineranno solo la struttura e l’efficienza fisica ma soprattutto le capacità intellettuali e quelle morali. La lotta, del resto, è sempre una questione di sopravvivenza. Ma in questo caso l’avversario sono solo io. E più che la forza, in questo ginepraio, siamo chiamati ad usare la testa.

Il terzo, l’abilità.

Quanto sarò capace, domani, di ottenere senza eguali, ciò che desidero?

Quanto saprò tradurre sul campo l'esperienza della sofferenza per rendere migliore ogni nuova sfida?

Quanto sono consapevole che è tutta una questione di abilità nella gestione della mia stessa emotività?

Lottare è sempre una questione di abilità che si fondono ed integrano dal confronto nato da uno scontro. Ecco perché una sconfitta, un errore, un fallimento in più possono sempre servire a non chiamare direttamente la neuro.

I comunicatori convinti delle proprie idee non vedono l’ora di realizzarle.

Ma bisogna sapere aspettare. Le idee ed i desideri hanno bisogno di tempo.

La pazienza nutre il desiderio.

I comunicatori innamorati di sé stessi, non vedono l’ora di dimostrare quanto valgono. Ma iniziamo a valere qualcosa quando smettiamo di guardare solo i pregi. E ci concentriamo su quello che è possibile migliorare.

La robustezza rinforza la volontà.

I comunicatori innamorati della vita sanno che per quanto possa essere dura la salita l’unico modo per arrivare a fine mese è fare tesoro dei propri fallimenti.

Ogni abilità si sviluppa contro corrente.

Il comunicatore è un lottatore.

Non dimenticatelo.