Il pandorosa della Ferragni e l’errore di comunicazione: autentica o veridica?

Ferragni, pandoro e influencer
Ferragni, pandoro e influencer

Il pandorosa della Ferragni e l’errore di comunicazione: autentica o veridica?

 

Uno dei primi insegnamenti dedicati agli studenti di archivistica e di diplomatica al corso di Scienze della Comunicazione all’Università degli Studi dell’Insubria è la distinzione tra autentico e veridico.

Ma il titolo di questo articolo non riguarda forse il pandoro rosa della Ferragni? E che c’entra con l’archivistica e con la diplomatica una vicenda intrisa di etica professionale e comportamentale, fino a sfiorare le corde degli umani sentimenti?

Per chiarirlo, in estrema sintesi, possiamo introdurre un paio di concetti. L’autenticità riguarda l’autore giuridicamente individuato e dal quale proviene un’azione determinata, cui se ne attribuisce la paternità (principio di provenienza). La veridicità, invece, riguarda i contenuti dell’azione, indipendentemente da chi la fa. In questo contesto, è preferibile non aggiungere il concetto di genuinità per l’assenza di dubbi. Esamineremo, infatti, evidenze documentali (corrispondenza elettronica, video e audio) incontrovertibili.

Prima di proseguire, è opportuno riassumere i punti essenziali della vicenda.

La rinomata ditta Balocco si accorda per promuovere l’acquisto di un pandoro griffato Ferragni con lo scopo di devolvere una somma in beneficenza in favore dei bambini malati di cancro di un noto ospedale. Viene utilizzato, come in altre promozioni, il rosa, colore del brand, per cui lo chiameremo pandorosa. Del resto, è il nome stesso dell’affare commerciale, denominato appunto “Pandoro Pink Christmas”, per lo zucchero a velo di colore rosa realizzato appositamente.

Anche al fine di legittimare l’operazione, il bene è messo in vendita con una significativa maggiorazione di prezzo (a una media di 9,37 € contro i normali 3,68 €, cioè più del 250%). Solo in seguito si scoprirà che la Balocco aveva già donato una somma di rilievo e che, rispetto ai ricavi del pandorosa, nulla di aggiuntivo sarebbe stato devoluto in beneficenza, finendo con essere un progetto commerciale esclusivamente orientato al profitto. L’operazione in sé è spregiudicata, anche per aver associato la beneficenza a una delle corde emotive più forti, come quella dei bimbi ospedalizzati.

Non vi è dubbio che la Ferragni abbia riconosciuto l’errore, anche se tardivamente e, soprattutto, soltanto dopo l’esposto del Codacons, poi l’avvio del procedimento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (con il parere dell’Autorità per le garanzie delle comunicazioni), e l’istruttoria aperta dalla Procura della Repubblica di Milano e da quella di Prato, quando ormai la questione era diventata di dominio pubblico (oggi i media parlano anche di una ipotesi di reato per truffa ai danni dei consumatori).

Qual è la posizione difensiva? Con un post su Instagram, lieve di trucco e con vestito impossibile da definire di alta moda, la fashion influencer si rintana nell’attribuzione di colpa a “equivoci” e a un non meglio definito “errore di comunicazione”.

Non è dato sapere quale sia nello specifico. Tuttavia – a garanzia del pentimento – la Ferragni chiosa annunciando di voler devolvere un milione di euro in beneficenza. La comunicazione ai suoi milioni di follower (ultimamente in calo come, sembra, gli sponsor) poggia le basi sulla logica emotiva, forte di una narrazione passionale e ricca di commozione ostentata con perizia teatrale.

Premesso che risulta paradossale come un’influencer specializzata nella comunicazione abbia potuto commettere (o permettere di far commettere) un errore tanto grossolano quanto grave, il compito di chi tenta di ricostruire la verità degli atti è di indagare le evidenze documentali.

I documenti, gli archivi, le fonti primarie mettono davanti un quadro (il più possibile) oggettivo dell’andamento dei fatti, per intrinseca natura senza ricorrere al linguaggio non verbale delle emozioni, della forza persuasiva della comunicazione gestuale e della convinzione lacrimosa nei confronti del proprio pubblico.

Orbene, dal sito dell’Agcom scaturisce un’altra verità rispetto alle narrazioni da social, quella documentale. Scorrendo, dunque, le comunicazioni tra la ditta Balocco e lo staff della Ferragni, emerge come, in base al contratto di collaborazione stipulato l’11 novembre 2021, la donazione da parte della Balocco fosse avvenuta il 2 maggio 2022, cioè ben prima della campagna natalizia per il pandoro. Di conseguenza, dalle vendite non sarebbe dipesa la beneficenza in sé.

Infatti, tutta la campagna di comunicazione – tanto della Ferragni quanto della Balocco – si era incentrata sulla spinta all’acquisto del pandorosa proprio per trovare i fondi per la donazione che, invece, era stata già effettuata.

A onore del vero, occorre riconoscere ai manager della Balocco di aver tentato di dissuadere il team della Ferragni. Anzi, a quanto si legge nel provvedimento Agcom, una comunicazione riservata interna alla Balocco, in preparazione a una risposta verso chi insisteva nell’associare le vendite ai fondi in beneficenza, era lapidaria sui costi di ingaggio: «Mi verrebbe da rispondere che le vendite servono a pagare il vostro cachet esorbitante».

Ma c’è di più. A scorrere le carte, si scopre che la stessa Balocco avvertiva esplicitamente il team della Ferragni (la Fenice srl e TBS Crew) del rischio di una pubblicità ingannevole. Si trattava, dunque, di una donazione non legata all’andamento del prodotto sul mercato. A questo stato delle cose, risulta difficile pensare a un equivoco oppure a un errore di comunicazione.

Con “ingannevolezza”, termine utilizzato da Agcom, si chiude il procedimento dell’Autorità, di cui è importante riportare il passaggio sull’aumento del costo: «Una tale differenza di prezzo, peraltro non giustificata da una maggiore qualità degli ingredienti, rafforzava, agli occhi del consumatore, il convincimento che, nel maggior prezzo del pandoro griffato, fosse incluso un contributo alla citata donazione».

Le persone che hanno potuto seguire sui media lo sfogo e le scuse della Ferragni saranno rimaste colpite anche dalla sincerità apparente e dalla nobilita del gesto del dono. Peccato che sia macchiato della diffusione ai quattro venti, stile social. La beneficenza si fa, non si dice. E, sciorinata in questi termini, assume il sapore del lavaggio di coscienza.

Qualcuno potrebbe obiettare: intanto, lei ha donato un milione di euro. Vero. Ma lo ha fatto anche per porre un argine all’emorragia di follower disillusi e a scandalo scoppiato. Eppure, se da un lato ha perso follower, i seguaci più convinti continuano a difenderla, additando chi la accusa di essere accecati dall’invidia. In realtà, il lessico utilizzato è dozzinale, non è forbito e risente nella maggioranza dei casi di analfabetismo di ritorno.

E, da ultimo, resta da chiedersi: avrebbe potuto essere in grado di uscire con una comunicazione peggiore? Sì, quella in cui avrebbe potuto attribuire la colpa agli altri dello staff e non a se stessa, come opportunamente ha fatto. Certo, la colpa generica e indeterminata a un “errore di comunicazione” lascia comunque interdetti.

Infatti, la difesa della Ferragni stessa, a leggere ancora le carte, è assai debole. Si sostiene, dunque, che l’influencer avrebbe fatto soprattutto “pubblicità” all’ospedale destinatario della beneficenza, glissando sul fatto che le società incaricate hanno goduto complessivamente di un cachet da un milione di euro.

Lo sviluppo di una coscienza critica e, di conseguenza, di una comunicazione efficace, scaturisce anche dall’obbligo di verificare tutte le versioni di tutti i soggetti coinvolti, anche potenzialmente. I follower che hanno creduto alla versione unilaterale probabilmente non hanno letto la documentazione complessiva di questo fatto, che ha come unico riferimento il guadagno ed è incontrovertibile.

Certo che la Ferragni e la Balocco non fanno opere di bene come mission perché si tratta di imprese commerciali. Tuttavia, se si desidera ammantare le operazioni anche del buono e degli aiuti verso le persone in stato di necessità, è necessario farlo nella massima trasparenza, coerenza ed etica. E, certamente, senza megafono.

Torniamo al punto da cui siamo partiti. In archivistica, in diplomatica e nelle scienze storiche, si parla di indagine sulle fonti primarie. Possiamo, pertanto, concludere che il video della Ferragni è autentico, in quanto proviene da lei medesima, ma – stando ai fatti documentati – non è veridico.

E della lotta secolare tra autentico, veridico (e genuino) la diplomatica se ne occupa almeno dal XVII secolo, grazie al celebre trattato di Jean Mabillon. Gli archivi, dunque, dall’alto della loro terzietà, non perdonano e mettono da parte le reazioni passionali, le narrazioni compassionevoli e i pentimenti tardivi di parte.