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La delittuosità maschile nella Criminologia contemporanea

delinquenza maschile
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La delittuosità maschile nella Criminologia contemporanea

 

L’ambito criminologico della delinquenza maschile

Sin dagli ormai lontani Anni Cinquanta del Novecento, Wolfgang (1958)[1] rimarcava che “sono i maschi […] a ricorrere maggiormente ad azioni criminose, a rappresentare i soggetti maggiormente vittimizzati a séguito di attività violente, ad essere selezionati in misura più rilevante dalle agenzie del controllo sociale formale come criminali, a fare ingresso all’interno del sistema di giustizia penale, a fare esperienza della detenzione più di quanto viene registrato generalmente tra le donne“. In epoca recente, pure Messerschmidt (2016)[2] ha confermato le predette osservazioni di Wolfgang (ibidem), in tanto in quanto, sotto il profilo statistico prima ancora che criminologico, consta che la popolazione maschile è più esposta ai rischi della criminogenesi rispetto alla popolazione femminile. Molto dipende pure dai fattori abitativi, nel senso che il maschio criminale tipico è giovane, è celibe e, soprattutto, proviene da aree urbane degradate. Anzi, negli Anni Duemila, la Criminologia occidentale reputa che sussista una cospicua “cifra oscura”di devianza maschile non ufficialmente denunziata e registrata. Senza dubbio, ognimmodo, come notato da Beirne & Messerschmidt (2015)[3] “il crimine politico, quello organizzato e quello dei colletti bianchi è monopolio pressoché assoluto dei maschi”. P.e., il pensiero corre ai fenomeni mafiosi del Meridione italiano, in cui i ruoli anti-normativi delle donne risultano assai limitati. Oppure ancora, si ponga mente al fatto che il c.d. “regolamento di conti”di tipo omicidario vede protagonisti soprattutto uomini, specialmente all’interno dei contesti del narcotraffico e della criminalità organizzata. D’altra parte, la stessa scienza criminologica è gestita, in maniera prevalente, da Operatori di sesso maschile, come osserva Javaid (2018)[4]. Parimenti, Tomsen & Hobbs (2017)[5] asseriscono che “il rapporto maschilità-crimine è un topos classico all’interno della produzione della cultura popolare”. Quest’ultima osservazione vale, nella letteratura e nelle arti cinematografiche, anche in epoca contemporanea, nonostante la presenza più che quarantennale di forti movimenti ideologici a difesa dell’emancipazione femminile.

Naturalmente, come puntualizza Fariello (2016)[6], “non dobbiamo sostenere che le donne non siano in grado di compiere crimini o condotte devianti e violente”, pur se raramente, a parere di chi redige, la violenza muliebre si manifesta con connotazioni fisiche. Similmente, dal lato opposto, Dekeseredy (2011)[7] nega che “tutti i maschi siano indistintamente criminali per via di predisposizioni naturali, del loro corredo genetico o ormonale, o di programmi evolutivi necessari, o per mera influenza ambientale; né bisogna rafforzare l’idea che le condotte devianti e criminali compiute da maschi rappresentino una variabile costante all’interno dei diversi contesti socio-culturali”.

A parere di chi scrive, nessuno dei summenzionati Dottrinari ha rimarcato la distinzione necessaria tra devianze anti-sociali e devianze anti-normative in senso proprio. In effetti, come osservava sovente Christie, non tutte le devianze borderline recano profili di anti-giuridicità. Il più delle volte, certune condotte eccentriche e disturbanti non conducono alla consumazione di reati. P.e, l’adolescente ed il tossicomane pongono in essere comportamenti anti-conformisti ancorché non etero-lesivi.

D’altra parte, il neo-retribuzionismo statunitense è fallito nella misura in cui la Common Law ha preteso di sussumere entro il campo precettivo del Diritto Penale qualsivoglia devianza, anche se socialmente innocua e, dunque, astrattamente pericolosa sotto il profilo giuspenalistico. Anche nella Criminologia italiana, è essenziale interpretare il “potere criminale”del maschio all’interno dei condizionamenti sociali. Molti Autori italiofoni, a tal proposito, hanno evidenziato che la delinquenza del maschio non è mai un fattore “pre-sociale”basato semplicisticamente su profili genetici o razziali. Ogni carriera criminale è frutto di un determinato contesto di crescita, ivi compresa l’eventuale precarietà abitativa. Esistono sempre dei presupposti della delinquenza, maschile e non; pertanto, soprattutto in ambito giovanile, sarà indispensabile verificare in che misura il nucleo domestico abbia o non abbia veicolato certuni disvalori anti-giuridici. Basti pensare, del resto, all’importanza dell’educazione pregressa nell’ambito dello white collar crime. Oppure, si ponga mente alla pedagogia tradizionale delle famiglie rom.

Da tutto ciò si evince che le variabili culturali e pedagogiche cagionano, nel maschio, tendenze devianti che non dipendono dall’etnia intesa alla stregua di un fattore genetico anziché educativo. E’ basilare, nella Criminologia post-lombrosiana, mettere in evidenza i condizionamenti evolutivi e non le presunte predisposizioni genetiche, ammessa e non concessa la correttezza degli orribili lemmi “predisposizione genetica”. Tale contrarietà ad un approccio medico-determinista è condiviso pure da Rinaldi (2016)[8], a parere del quale “un approccio critico non può che contrastare ogni postura universalizzante della maschilità, così come ogni spiegazione meramente biologica o bio-mitica del comportamento aggressivo, deviante e/o criminale associato ai maschi, svelando, invece, l’esistenza di modi differenziali di fare la maschilità facendo il crimine“. Anche Simone (2010)[9] reputa che le devianze illegali del maschio non sono mai pre-sociali, bensì “dipendono dall’età […], dalla sessualità, dalla dimensione [educativa, ndr] etno-razziale […] dall’appartenenza di classe, dalle convinzioni religiose, dal grado di istruzione, dal luogo in cui si abita, dalla distribuzione disuguale di risorse, di opportunità, di potere, dall’accesso differenziale alle risorse, dal diverso modo in cui alcuni maschi sono sottoposti e trattati all’interno delle organizzazioni deputate al controllo sociale, dall’accesso selettivo persino negli ambienti e nelle organizzazioni criminali, dal trattamento penitenziario, dal modo in cui alcuni maschi sono sottoposti a controlli terapeutici, a processi di medicalizzazione e ad altre forme di restrizione”. Come si può notare, in Simone (ibidem), le variabili prevalenti sono quelle di matrice educativa, anziché genetica. I veri influssi criminogenetici sono legati a doppio filo con la pedagogia, sia sotto forma di stimoli espliciti, sia sotto forma di insegnamenti impliciti ed assai condizionanti. Il maschio infrattore è tale, anzitutto e soprattutto, nella misura in cui egli è o è stato male-educato, per nulla influendo presunti malfunzionamenti psico-fisici ereditari.

Né va dimenticato che la Criminologia è una scienza eminentemente maschile; dunque, come precisato da Naffine (1997)[10] “i criminologi [maschi] hanno trascurato profondamente il significato etico, culturale ed intellettuale dell’aver ignorato la maschilità altrui -e anche la propria- nella misura in cui hanno svolto il ruolo di costruttori di significati selezionando alcuni oggetti di ricerca ed escludendone altri […]. Si sono dimenticati di problematizzare che studiavano maschi, e, in particolare, non hanno riflettuto abbastanza sul fatto che essi stessi (ovvero i Criminologi) sono soprattutto maschi, e che, in quanto tali (soprattutto bianchi, tutti istruiti e, pertanto, di classe media), possono guardare il mondo in modo specifico [dunque maschile] e, particolare, e non in modo neutro ed universale”. Anche secondo Stanko & Hobdell (1993)[11] “la Criminologia […] ha dato per scontata gran parte degli assunti sessisti, maschilisti, patriarcali ed etero-normativi su cui questo regime ideologico si regge”. Filo-femministi sono pure Daly & Wilson (1988)[12], ad avviso dei quali una certa Criminologia andro-centrica “ha ipostatizzato la maschilità come condizione in possesso di caratteri essenzialmente criminogeni. Se i Criminologi hanno riflettuto sul femminile, come avvertono le Criminologhe femministe, con derive sessiste, essi -pur focalizzando l’interesse quasi esclusivamente sui maschi- hanno raramente prestato attenzione al rapporto tra maschilità e condotte devianti e criminali. In particolare [la Criminologia maschilista] non ha analizzato […] il modo in cui i maschi possano cercare di ottenere uno status, mantenere una reputazione o, più generalmente, disporre di potere”.

A parere di chi commenta, fatto salvo il dovuto rispetto nei confronti di un sano e costruttivo femminismo, in epoca attuale abbondano figure femminili nella Criminologia europea e nord-americana. Pertanto, pare superato tale “andro-centrismo” novecentesco di stampo lombrosiano. Inoltre, l’utilizzo dei calcolatori elettronici nelle Statistiche criminologiche contemporanee rende oggettivamente più difficile ipostatizzare la maschilità del crimine e/o sottovalutare i ruoli delinquenziali delle donne.

Per il vero, è necessario, purché entro i limiti del ragionevole, abbandonare il tradizionale binomio dicotomico maschilità/ femminilità. Infatti, come postulato da Messerschmidt (2000)[13] non esiste un solo tipo di maschilità, bensì sussiste “una serie di maschilità, non soltanto in competizione con il femminile, ma anche in conflitto tra loro nell’accaparramento del potere. [Si tratta di uomini] appartenenti a diversi contesti istituzionali, occupazionali o informali. [Essi sono] espressione di differenze di classe, razza/etnia, età, sessualità, corporeità”. Assai utile è pure la ratio sociologica del “potere”, nel senso che, come sottolinea Daly (2001)[14], “fare il crimine, per alcuni maschi, può corrispondere ad una risorsa utile a fare (anche) la maschilità all’interno di specifici percorsi condizionati da forze ed opportunità strutturali; […] un certo tipo di violenza statale ed istituzionale, militare o poliziesca e [altre] condotte criminali, che potremmo riassumere nella categoria dei crimini dei potenti, possono fare riferimento a configurazioni maschili egemoni particolari”. Quanto sostenuto da Daly (ibidem) riporta alla mente certuni violenti “codici d’onore” della criminalità organizzata calabro-sicula. Oppure, la mente corre alla “violenza iniziatica”tipica dei gruppi delinquenziali formati da giovani maschi in età adolescenziale. In ogni caso, la quasi totalità dei Dottrinari, in tema di devianze criminali maschili, ha individuato rapporti stretti e costanti tra le seguenti cinque variabili fondamentali: maschilità, classe sociale, razza, età e sessualità. Si tratta, infatti, di parametri al cui variare variano pure gli epifenomeni del crimine maschile. Anzi, in maniera più approfondita, Masserschmidt & Tomsen (2012)[15] hanno sottolineato che “spesso, i processi di criminalizzazione, in modo selettivo, colpiscono maschilità svantaggiate, marginali e minoritarie”.

Chi redige applica l’asserto di Messerschmidt & Tomsen (ibidem) anzitutto e soprattutto ai gruppi di giovani immigrati di seconda generazione, residenti in periferie metropolitane degradate e connotati da un pessimo inserimento socio-scolastico. Ad ogni modo, è prioritario rimarcare che, soprattutto nell’ambito della criminalità organizzata ed in quella giovanile, l’aggressività etero-lesiva consta in una “prova di virilità”e di “coraggio”all’interno del contesto del gruppo deviante. Ossia, come nota Polk (1994)[16] “il compimento di condotte devianti e criminali -fare il crimine, dunque- consiste in una delle possibili modalità che un soggetto mette in atto anche per fare la maschilità, soprattutto in tutti quei casi e quelle condizioni in cui questi non ha accesso a risorse simboliche e materiali legittime”. In effetti, specialmente in età evolutiva, il reato, più o meno bagatellare che sia, costituisce un atto iniziatico che consente l’ingresso nel sotto-gruppo deviante. Spesso, l’adolescente maschio infrattore delinque al fine di essere accettato da altri coetanei anch’essi infrattori. La sfida all’ordine costituito viene percepita alla stregua di un segno di maturità e, sovente, di dominio nei confronti del mondo femminile.

 

Teorie criminologiche sulla “egemonia maschile”

Prima degli Anni Ottanta del Novecento, il ruolo del maschio nella società era inteso in senso “statico”, ovverosia predominava una visione patriarcale, sebbene più o meno contestata, e, all’interno delle dinamiche sociali, le funzioni del maschio erano assai ben definite all’interno del nucleo familiare tradizionalmente inteso.

Per la prima volta nella storia della Criminologia, Connell (1987)[17] ha parlato delle maschilità, anziché della maschilità di stampo patriarcale, nel senso che, a parere della predetta Criminologa australiana, “[bisogna] analizzare la maschilità come modalità di strutturazione delle pratiche sociali e non, semplicemente, come un tipo sociale di prassi. Una tale elaborazione permette di guardare alla maschilità in relazione ad una serie di processi di strutturazione (tra i quali, ad esempio, la razza e la classe sociale) e di considerare, in termini dinamici, l’esistenza di una serie tipologica di maschilità”. Dunque, come si può notare, Connell (1987) intende affermare che l’essere maschio è una qualità senz’altro psico-fisica, ma anche socialmente condizionata. Inoltre, nelle società umane, non esiste un solo modo di esercitare la natura maschile, la quale reca multiformi manifestazioni, così come multiformi e mutevoli sono le strutture sociali meta-temporalmente e meta-geograficamente.

A parere di Connell, specialmente nelle Pubblicazioni degli Anni Duemila, il maschio è tale in virtù di almeno quattro tipi di relazioni:

  1. le relazioni di potere: si tratta di relazioni che operano nel nome dell’autorità, della violenza e dell’ideologia. Tali dinamiche di potere si manifestano soprattutto nelle istituzioni, nello Stato, ma anche nella sfera domestica
  2. le relazioni di produzione, fondate sulla divisione del lavoro e delle mansioni tra i sessi, a livello professionale e pure familiare
  3. le relazioni emotive, che determinano i ruoli nella c.d. “sfera intima” del matrimonio, della sessualità e del rapporto con la prole
  4.  le relazioni simboliche, costituite dal ruolo del maschio entro una determinata società ed entro un determinato periodo storico

Quindi, Connell afferma che il genere maschile parte sì da attributi fisici, ma esso è anche “genere [maschile] relazionale”, dunque “l’essere maschio non è solo un’espressione della biologia […, bensì anche una particolare configurazione della nostra organizzazione sociale e di tutte quelle attività e di quelle pratiche quotidiane che da essa sono governate”(Connell, 2006)[18]

Connell (1996)[19] insiste con vigore estremo sui condizionamenti sociali nei confronti del genere, poiché maschilità e femminilità, benché fisicamente distinte, “non vanno intese come tipi caratteriologici fissi, bensì come configurazioni di attività, generate in situazioni particolari, entro una struttura di relazioni in continua trasformazione”.

A parere di chi redige, Connell (1987, 1996 e 2006) estremizza le variabili legate alla socializzazione, ma, senza dubbio, ciascuna epoca storica e ciascuna struttura sociale influenza la modalità dell’essere maschio. Basti pensare, ad esempio, ai mutati compiti del padre nell’ educazione della figliolanza dal Novecento in poi. Come si nota, la maschilità di stampo patriarcale è un lontano ricordo, in tanto in quanto non esiste una tipologia di maschio “pre-sociale” o “a-sociale”.

P.e., esiste una “maschilità egemone”, che è o dovrebbe essere frutto di rappresentazioni mass-mediatiche in cui il maschio è il leader, il divo, il campione, l’uomo di successo in grado di dominare virilmente qualunque avversità. Un’altra tipologia ricorrente è quella della “maschilità subordinata”, la quale vede maschi dominanti che prevalgono su altri maschi socialmente/economicamente esclusi e destinati alla sottomissione. Oppure, si ponga mente alla “maschilità complice”, caratterizzata dall’esistenza di un sotto-gruppo di maschi che affiancano gli uomini di potere per trarne benefici indiretti. Infine, diffusa è anche la “maschilità marginale”, ove il maschio di pelle bianca domina e concede alcuni ruoli secondari ad altri uomini provenienti da etnie considerate “inferiori”. In tutte queste tipologie dell’essere maschio, comunque, reca un ruolo fondamentale l’ordine sociale costituito e la distribuzione del potere altrettanto socialmente determinata. Secondo Connell (1996), una sotto-categoria della maschilità marginale è costituita dalla “maschilità di protesta”, definita come “una prassi collettiva che rivendica il suo diritto al potere maschile in condizioni strutturali [rectius: sociali, ndr] che non offrono alcuna opportunità e risorse per il potere”. A tal proposito, Rinaldi & Saitta (2017)[20] hanno commentato che “la maschilità di protesta è un’elaborazione sociologica del concetto di protesta virile, di derivazione psicanalitica […]. E’ un’espressione utilizzata per spiegare la violenza [anti-giuridica] delle sub-culture maschili come forma di distanziamento e di difesa maschile dall’identificazione inconscia con il femminile. Questo concetto, in particolare, […] intercetta tutte quelle situazioni marginali dove la pretesa di possedere il potere, fondamentale per la maschilità egemone, è continuamente resa nulla da debolezze economiche e culturali”.

L’ ipotesi fondamentale di Connell (1987, 1996 e 2006 ) è che la mancanza, nel maschio, di un ruolo egemone, dunque di un lavoro stabile e di una rispettabilità sociale, genera la delinquenza e l’aggressività, intese come reazioni psicologiche alla frustrazione. Dunque, a parere di tale Autrice, la criminalità maschile discende quasi sempre da un mancato riconoscimento delle potenzialità del maschio. A differenza della donna, l’uomo necessita di una sufficiente “egemonia”; viceversa, la sua rabbia sfocia in condotte distruttive che, in fondo, altro non sono se non una ribellione ad un ordinamento socio-lavorativo-familiare reputato eccessivamente ginocentrico o, ognimmodo, non gratificante.

La “maschilità egemonica” costituisce senz’altro il frutto collettivo maggiormente conforme al patriarcato rigido e rigoroso. Tuttavia, di nuovo, bisogna ribadire che il maschio egemone è, o, viceversa, non è tale per costruzione sociale. L’egemonia maschile è anch’essa una tipologia comportamentale calata in un ben preciso contesto storico e geografico. Anche Messerschmidt & Tomsen (ibidem) sottolineano fortemente la “socialità” della maschilità egemone, la quale “ha [sempre e ontologicamente, ndr] un carattere relazionale; essa, dunque, non avrebbe alcun significato al di fuori del rapporto con le femminilità e le maschilità non egemoniche. […]. Potremmo affermare che la maschilità egemone corrisponde alla configurazione gerarchica dinamica […] che la maschilità assume in contesti e durante assi temporali specifici”. Del pari, pure Connell & Messerschmidt (2005)[21] ribadiscono più e più volte la natura sociale, dunque relativa e non assoluta, della maschilità egemone, che è una variabile fisica, ma anche storica, in tanto in quanto “gli attori sociali fanno il proprio genere in accordo con le aspettative istituzionalizzate […] esistono maschilità (e femminilità) multiple […] le maschilità sono processuali e sono prodotte a livello contestuale, situazionale e interazionale”. Nel genere, il dato biologico rimane sacro ed immutabile, ma va storicamente contestualizzata la modalità di agire, nel concreto, il genere.

A parere di chi scrive, non esiste “fluidità”, bensì “modalità”. La “base psico-fisica” è immutabile, ma, successivamente, la maschilità e la femminilità vanno incontro anche ad una costruzione e crescita sociologicamente influenzata. P.e., l’egemonia del patriarcato è ormai tramontata, pur se prosegue intatta la naturalità e la necessarietà del binomio organico maschio-femmina. In effetti, la maschilità, nel senso non fisico, ma caratteriale, dipende, secondo Messerschmidt (2016) “dal modo in cui viene costruito il genere al livello sociale delle culture o delle nazioni”. Dunque, esiste una “modalità culturale” di vivere il proprio genere, più o meno “egemone” a seconda dell’ambiente storico e geografico. Sempre Messerschmidt (2016) parla delle varie tipologie di maschilità come “costruzioni contestuali ed interazionali”. P.e., un paterfamilias degli Anni Duemila esercita ruoli diversi rispetto al c.d. “capofamiglia” dei primi del Novecento. Quanto or ora asserito vale anche nel contesto della criminalità maschile, nel senso che l’infrattore maschio delinque nei modi e nei limiti determinati dal contesto sociale di appartenenza.

 

La criminalità maschile

ìE’ pienamente condivisibile l’asserto di Schrock & Schwalbe (2009)[22], secondo cui “le condotte e le pratiche violente –tra cui aggressività, molestie, linguaggio derogatorio e violenze di tipo psicologico- possono essere messe in atto per marcare, testare e comunicare, con valenza simbolico-comunicativa, la maschilità dei loro autori. A partire dalla socializzazione di genere e sessuale, ai giovani maschi sono rivolte pressioni sociali a conformarsi al ruolo di genere maschile normativo e ad utilizzare pratiche -tra cui proprio le condotte violente- quali mezzo per fare e significare la maschilità (normativa)”. Siffatta affermazione di Schrock & Schwalbe (ibidem) risulta perfettamente verificata nei gruppi (semi)devianti giovanili composti da individui ancora in età evolutiva. Si ponga mente pure al lessico ricercatamente becero e borderline veicolato dai mass-media consumati dagli adolescenti maschi. Altrettanto corrispondente al vero è quanto sostenuto da Giddens (1990)[23], ovverosia “la condotta violenta viene utilizzata come risorsa per costruire la maschilità e la stessa vittima può essere utilizzata per validare, anche in termini simbolici, lo status maschile del suo o dei suoi aggressori, all’interno di scenari in cui le maschilità vengono costruite in termini drammaturgici”. In effetti, e non solo in ambito giovanile, lo stupro di gruppo è uno degli strumenti maggiormente diffusi per rafforzare la maschilità di tipo egemonico. Inoltre, sovente, le aggressioni di matrice sessuale costituiscono una sorta di rito iniziatico finalizzato all’ingresso simbolico nel mondo maschile. In proposito, Giddens (ibidem) parla della violenza sessuale di gruppo come di uno “scenario per la costruzione della maschilità”. In effetti, la violenza fisica costituisce un mezzo privilegiato nelle mani del maschio “dominatore” di stampo patriarcale.

Del pari, le aggressioni in danno di omosessuali contribuiscono a rafforzare lo stereotipo dell’uomo virile che si erge a difesa della sessualità tradizionale. Secondo Franklin (2004)[24] “le costruzioni culturali della maschilità sembrano giocare un ruolo di primo piano nella produzione delle condotte violente anti-omosessuali. La violenza agita in gruppo serve a rafforzare i legami tra i membri del gruppo ed i suoi valori, ha una funzione prevalentemente comunicativa, nella misura in cui essa è orientata in danno di un target specifico (i soggetti percepiti come omosessuali) da cui gli aggressori prendono le distanze, rivendicando la propria maschilità in modo violento, riportando alla norma quanto viene considerato come una trasgressione dei rapporti e dei confini naturali tra i generi, punendo i traditori della maschilità etero-normativa”. A parere di chi redige, Franklin (ibidem) non rimarca a sufficienza che le aggressioni omofobe costituiscono, sempre sotto il profilo del simbolismo sociologico, la difesa del maschio “egemone” nei confronti della famiglia eterosessuale fondata sulla centralità della sposa/madre, protagonista e custode del focolare domestico. A prescindere dalla valutazione dell’omosessualità in sé, Tomsen (2009)[25] sottolinea che “le pratiche violente a danno di altri maschi percepiti come non-eterosessuali possono essere considerate strumentali al processo di rafforzamento dei legami (omo)sociali maschili […] [Esse] celebrano il potere maschile ed assumono la forma di rivendicazione pubblica della maschilità eterosessuale”.

A parere di chi commenta, sotto il profilo emozionale, la violenza omofoba è quasi sempre una forma di difesa inconscia della Madre. L’adolescente che ha patito carenze affettive in età infantile è spontaneamente portato alla condivisione dell’eterosessualità. Analogamente, Rinaldi (2012)[26] precisa che “mettere in atto condotte maschili violente [a prescindere, per ora, dall’infinito e diverso discorso sull’omofobia, ndr] significa partecipare a [rituali sociali, ndr] in cui l’individuazione di vittime ha, in modo interscambiabile, sia l’obiettivo che l’effetto drammaturgico di rafforzare la maschilità (egemone) dell’aggressore” Tutto ciò indipendentemente dall’eventuale violenza in danno di omosessuali piuttosto che di eterosessuali.

In effetti, come osservato da Dekeseredy (1990)[27] “il rafforzamento dei legami omosociali e la proiezione di un’immagine dominante maschile, che il soggetto utilizza per avere un effetto sulla vittima, sui propri pari e persino su se stesso, sono processi che troviamo anche nelle analisi relative alla violenza contro le donne”. Anzi, per Dekeseredy (1990), in talune società, come quelle integraliste islamiche, agire violenza verso la coniuge rafforza la maschilità egemonica del responsabile innanzi all’intera comunità locale. D’altra parte, Dekeseredy (2011)[28] nota, con molta lucidità, che “le trasformazioni in atto che investono le unità familiari sembrano aver intaccato anche le relazioni patriarcali; ragion per cui, la violenza domestica può essere intesa anche come uno strumento per ristabilire i legami maschili tradizionali tra pari”. Pure Alder & Polk (1996)[29] rimarcano che “oggi i maschi di classe lavoratrice perdono sempre di più il potere di esercitare la propria autorità nell’unico luogo ove è loro permesso: l’unità domestica. Quindi, il gruppo dei pari funge da amplificatore delle frustrazioni maschili e permette di elaborare neutralizzazioni utili a giustificare la violenza sulle proprie partner […] [I maschi egemonici] intendono evitare di perdere il proprio status di maschio tra i pari […] Essi rischiano di essere ridicolizzati come uomini che non riescono a provare di portare i pantaloni”

 

Note:

[1]     Wolfgang,Patterns of criminal homicide, University of Pensylvania Press, Philadelphia, 1958

[2]     Messerschmidt, Masculinities in the making. From the local to the global, Roman & Littlefield, Lahnam-Boulder - New York-London, 2016

[3]     Beirne & Messerschmidt, Criminology. A sociological approach, Oxford University Press, New York, 2015

[4]     Javaid, Male rape, masculinities and sexualities, Palgrave Macmillan, New York, 2018

[5]     Tomsen & Hobbs, Crime and Masculinity in Popular Culture, in Oxford Research Encyclopedia of

       Criminology, Oxford University Press, 29 marzo 2017

[6]     Fariello, Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato. Mimesis, Milano, 2016

[7]     Dekeseredy, Contemporary critical criminology. Routledge, New York, 2011

[8]     Rinaldi, Sesso, sé e società. Per una sociologia delle sessualità. Mondadori, Milano, 2016

[9]     Simone, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio, Mimesis, Milano, 2010

[10]   Naffine, Feminism and criminology, Polity, Cambridge, 1997

[11]   Stanko & Hobdell, Assault on men: masculinity and male victimization, in British Journal of Criminology,

       33, 1993

[12]   Daly & Wilson, Homicide, Aldine de Gruyter, New York, 1988

[13]   Messerschmidt, Nine Lives: Adolescent Masculinities, the Body and Violence, Westview Press, Boulder, 2000

[14]   Daly, Feminist criminology, in McGlaughlin & Muncie (a cura di), The Sage dictionary of criminology, Sage, London, 2001

[15]   Messerschmidt & Tomsen, Masculinities, in Dekeseredy & Dragiewicz, Routledge handbook of critical

       criminology, London-New York, 2012

[16]   Polk, Men who kill. Scenarios of masculine violence, Cambridge University Press, Melbourne, 1994

[17]   Connell, Gender and power. Society, the person and sexual politics, Polity Press, Cambridge, 1987

[18]   Connell, Questioni di genere, Il Mulino, Bologna, 2006

[19]   Connell, Maschilità, identità e trasformazioni del maschio occidentale, Feltrinelli, Milano, 1996

[20]   Rinaldi & Saitta, Devianze e crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, PM,

       Varazze, SV, 2017

[21]   Connell & Messerschmidt, Hegemonic Masculinity. Rethinking the Concept, in Gender & Society, 19, 6,

       2005

[22]   Schrock & Schwalbe, Men, Masculinity and Manhood Acts, in Annual Review of Sociology, 35, 2009

[23]   Giddens, La costituzione della società. Lineamenti di teoria della strutturazione. Edizioni di Comunità,

       Milano, 1990

[24]   Franklin, Enacting masculinity: antigay violence and group rape as partecipatory theater, in Sexuality

       research and Social policy, 1, 2004

[25]Tomsen, Violence, prejudice and sexuality, Routledge, London, 2009

[26]   Rinaldi, Analizzare ed interpretare l' omofobia: eterosessualizzazione, costruzione della maschilità e

       violenza antiomosessuale, in Rinaldi (a cura di), Alterazioni. Introduzione alle sociologie delle omosessualità, Vol. 9, Mimesis, Milano, 2012

[27]   Dekeseredy, Male support and women abuse: the current state of the knowledge, in Sociological Focus, 23,

       1990

[28]   Dekeseredy, Contemporary critical criminology, Routledge, New York, 2011

[29]   Alder & Polk, Masculinity and child homicide, in British Journal of Criminology, 36, 3, 1996