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La criminalità: dato ontologico o costruzione mass-mediatica?

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La criminalità: dato ontologico o costruzione mass-mediatica?

 

La devianza è una costruzione sociale?

Esiste un intimo legame tra quello che Garland definiva “social control” e la strutturazione collettiva delle devianze. D'altra parte, è noto che il soggetto borderline è “etichettato”, in maniera pressoché automatica, per il fatto di aver posto in essere condotte, più o meno etero-lesive, collettivamente valutate come anti-giuridiche o, più semplicemente, come anti-sociali. P.e., Lombroso (1876)[1] postulava la sussistenza di “tare biologiche” criminogene. Oppure, meno deterministicamente, Sampson & Laub (1995)[2] sottolineano che gran parte delle carriere criminali dipende dalla “presenza/assenza di un controllo da parte della famiglia nella fase precoce della socializzazione”. Interessante è pure Merton (1959)[3], per il quale il deviante reca una “predisposizione al rischio” di stampo traumatofiliaco. A sua volta, Cohen (1955) [1974][4] ha approfondito la problematica della “esposizione ad una subcultura che opera secondo valori e norme diversi da quelli della società predominante [mainstream]”. Degni di nota sono pure Gottfredson & Hirschi (1990)[5], a parere dei quali il soggetto infrattore e borderline non ha una sufficiente capacità di autocontrollo. Oppure ancora, secondo l'italiofono Barbagli (1995)[6], il delinquente non sa gestire “una valutazione razionale dei rischi e delle opportunità”. In ogni caso, a prescindere dalle singole teorie e dai vari dettagli rimarcati, giustamente Bevilacqua et al. (2010)[7] affermano che, in linea generale, “devianti [antisociali, ndr] e criminali [antigiuridici, ndr] sono indotti a compiere azioni che, violando repertori di norme morali e/o di leggi penali, li candidano a subire forme di controllo e di restrizione della libertà ad opera di agenzie specializzate […]. Esiste un problema sociale – l'incidenza dei comportamenti devianti e criminali - […] che dev'essere spiegato grazie alla formulazione di teorie testate empiricamente, che possono fornire alla politica un indirizzo per limitare l'impatto di tali fenomeni sulla vita associata”.

Secondo svariati Autori contemporanei, le agenzie di controllo sociale commettono spesso l'errore di etichettare devianza e crimine sulla base di impulsi irrazionali provenienti dai mass-media, i quali generano forme ipertrofiche di “social control” anche a fronte di condotte socialmente eccentriche ancorché non anti-giuridiche o etero-lesive. Trattasi del perenne jato tra delittuosità anti-normativa e devianza rilevante sotto il mero profilo sociale, in tanto in quanto non sempre l'anti-socialità coincide con l'anti-giuridicità penalmente rilevante.

La suesposta distinzione tra infrazione sociale ed infrazione giuridica è stata ben analizzata da Becker (1987)[8], a parere del quale “i gruppi sociali creano la devianza, stabilendo le regole la cui infrazione costituisce devianza e applicando queste regole a persone particolari che etichettano come outsiders. Da questo punto di vista, la devianza non è una qualità dell'azione commessa, ma piuttosto la conseguenza dell'applicazione, da parte di altri, di regole e sanzioni al trasgressore. Il deviante è uno a cui l'etichetta è stata applicata con successo”. Per conseguenza, si comprende agevolmente che il Diritto Penale altro non è se non uno strumento di affermazione del potere della classe dominante, ovverosia, come sottolinea Durkheim (1893)[9] “la questione criminale permette di rilegittimare i valori socialmente condivisi e di rafforzare l'autorità politica tramite la punizione del reo”. In altre parole, come direbbe Ruggiero, la Giuspenalistica traduce ed incarna il Diritto/i diritti dei “potenti” in un determinato contesto storico, sociale e territoriale. Parimenti, Sutherland (1986)[10] precisa che il Diritto Penale di un dato Ordinamento socio-giuridico serve ad un “esercizio fortemente discrezionale del potere da parte delle agenzie di controllo – in primis, le forze di polizia […] e la magistratura – grazie ad un'applicazione fortemente selettiva delle norme stesse che tende a colpire quasi sempre i membri delle classi subalterne”. Assai nitido e sintetico è pure Harcourt (2008)[11], secondo cui “oggetto dell'analisi criminologica diviene la reazione sociale alla devianza ed alla criminalità, ovvero l'insieme di categorizzazioni, narrazioni, pratiche, norme, procedure, conoscenze e rapporti di potere che fanno sì che determinati comportamenti vengano percepiti, descritti, analizzati e trattati come devianti e che coloro che li mettono in atto siano pubblicamente sanzionati, poiché costituiscono una minaccia per la vita associata”. A parere di chi redige, in epoca contemporanea, il Diritto Penale statunitense, onnipresente e neo-retribuzionista, costituisce il più evidente esempio di una politica criminale “dei potenti” volta ad annichilire qualsivoglia forma di ribellione sociale. La Giuspenalistica, negli USA degli Anni Duemila, non tollera nemmeno la pur minima devianza meramente antisociale o solamente anti-conformistica. Tutto viene “ordinamentato” per il tramite del Diritto Penale.

Tale rigidità criminologico-giuridica è messa in risalto pure da Rinaldi & Saitta (2017)[12], i quali invertono la prospettiva tradizionale, ovverosia “la devianza va considerata come un effetto, prodotto in modo non intenzionale, del funzionamento quotidiano di un insieme di apparati amministrativi (scuole, servizi sociali, tribunali, ospedali, prigioni) entro i quali opera uno stuolo di esperti (educatori, psichiatri, poliziotti, avvocati, giudici, assistenti sociali) che utilizzano, nello svolgimento del proprio lavoro, strumenti teorici e conoscenze empiriche prodotti spesso proprio nell'ambito delle scienze umane e sociali”. Come si può notare, Rinaldi & Saitta (ibidem)[13] focalizzano la loro trattazione su “istituzioni totali” che malsopportano non soltanto l'anti-giuridicità, ma pure la semplice anti-socialità non etero-lesiva. A sua volta, il Diritto Penale vigente sostiene e supporta le predette agenzie di controllo sino a giungere agli estremi della repressione istituzionale delle libertà individuali. Anzi, secondo Vidoni & Guidoni (2004)[14], si forma un'inconscia “cooperazione dei destinatari del processo di etichettamento. I meccanismi di controllo, infatti, basandosi su una relazione di potere fortemente asimmetrica tra controllori e controllati, tendono a plasmare le identità di questi ultimi e partecipano direttamente alla produzione di ciò che sarà successivamente rappresentato come il soggetto criminale”. Dunque, in Vidoni & Guidoni (ibidem)[15], il “soggetto criminale” etichettato accetta egli stesso di entrare nell'ingranaggio di quella Giuspenalistica onnipotente che, in definitiva, si rivelerà come un Leviatano che divora “controllati e controllori”. Analogamente, siffatto processo di auto-accettazione inconsapevole dell'etichettamento è ribadito pure da Lemert (1981)[16], a parere del quale “la percezione e la proiezione di sé del soggetto stigmatizzato mutano qualitativamente, fino a stabilizzarsi entro ruoli sociali devianti ben definiti nel corso di prolungate e reiterate interazioni conflittuali con le agenzie di controllo”. Lemert (ibidem)[17] prosegue affermando pure che il deviante auto-accetta “l'allontanamento e l'esclusione” dal tessuto sociale; sicché la “reazione sociale” non è nemmeno più oggetto di contestazione da parte di coloro che commettono i cc.dd. “delitti dei deboli”.


Le Statistiche criminologiche

Per tradizione consolidata, lo Studio di Durkheim del 1897 sul suicidio viene considerato come la prima Statistica criminologica degna di tal nome. In realtà, una Statistica socio-criminale contiene sempre una selezione dei dati che poi determina il risultato finale; pertanto, non esistono Ricerche prive di una soggettiva ri-elaborazione dei dati, poiché molto dipende dalla scuola di pensiero cui appartiene il singolo criminologo. D'altra parte, la tipica Statistica criminologica reca, sotto il profilo ontologico, un “contesto” territoriale, temporale e sociale e non si limita ad un arido incasellamento di cifre. Provvidenzialmente, in epoca contemporanea, ogni zona geografica ospita uno o più istituti di Statistica, sicché, come sottolineato da Goffman (1968)[18], “la complessità delle informazioni che devono essere trattate si riduce considerevolmente grazie al ricorso ai dati ufficiali, beneficiando altresì di una divisione del lavoro che permette a sociologi e Criminologi di intervenire sui dati resi disponibili da latri (le agenzie di controllo che operano nel campo penale)”. Tuttavia, vale tutt'oggi il perenne monito di Atkinson (1978)[19], ovverosia “i dati devono essere [tassativamente] validi: devono, cioè, essere stati prodotti dalle forze di polizia e dal sistema giudiziario, applicando schemi di classificazione scientificamente fondati”.

 

Anche Dal Lago (2000)[20] insiste molto sulla scientificità necessaria delle Statistiche criminologiche, in tanto in quanto “i dati devono essere attendibili e comparabili; devono, cioè, essere raccolti applicando, in modo costante e coerente nel tempo, le stesse procedure di rilevazione”. P.e., Dal Lago (ibidem)[21] sottolinea che quasi sempre le “fonti ufficiali” sono troppo “eterogenee” tra di loro, poiché coinvolgono soggetti assai diversi, come la PG e l'AG e le autorità carcerarie. Inoltre, il predetto Criminologo italiofono del 2000 rimarca che la “razionalizzazione” dei dati varia sotto il profilo spazio-temporale. P.e., nella Ricerca di Durkheim sul suicidio del 1897, i parametri di raccolta delle variabili variavano da Ordinamento a Ordinamento e ciò provocava asimmetrie nella stesura finale della Statistica. Non si deve nemmeno dimenticare che ciascun sistema socio-penalistico ha delle proprie, specifiche peculiarità, giacché, come evidenziato da Palidda (2015)[22], “i dati ufficiali sulla criminalità sono soggetti a variazioni importanti in relazione […] alla propensione denunciatoria della popolazione, alle priorità che governano l'azione di carattere preventivo/repressivo da parte delle forze di polizia o alle scelte organizzative e alle procedure di selezione che caratterizzano l'operato delle procure e dei tribunali”. Detto in altri termini, ciascun Ordinamento giuridico reca una propria politica criminale, con valori e finalità che variano tanto a livello meta-geografico quanto dal punto di vista meta-temporale. P.e., i reati di un Paese islamico ben difficilmente coincidono con le infrazioni tipicamente predefinite dal Codice Penale di uno Stato europeo.

Analogamente, l'estrema difficoltà nel redigere Ricerche criminologiche comparate è messa in evidenza pure da Vidoni & Guidoni (ibidem)[23], a parere dei quali “[variano grandemente] le procedure di produzione dei dati ufficiali sulla criminalità. Questi ultimi, infatti, sono generati nel corso del funzionamento ordinario delle organizzazioni che operano nel campo penale. All'interno di queste organizzazioni, poliziotti e magistrati, riconoscono, definiscono, classificano, giudicano e registrano le diverse forme di criminalità. Studiare il modo in cui i dati ufficiali sono creati, dunque, significa mettere in luce i criteri, espliciti ed impliciti, usati dagli esperti del sistema penale per classificare azioni e persone.

A parere di chi scrive, le osservazioni di Vidoni & Guidoni (ibidem)[24] risultano preziose per sfatare il mito kelseniano di una Giuspenalistica “pura”, ovvero priva degli inevitabili condizionamenti politici e, più in generale, pre-giuridici. Il Magistrato non è “bouche de la loi qui parle”, bensì è e rimane un burocrate assoggettato anch'egli alle direttive meta-normative del Legislatore. D'altra parte, anche Kitsuse & Cicourel (1963)[25] reputano che non esistono Statistiche criminologiche assolutamente certe ed immuni da condizionamenti de jure condendo, in tanto in quanto tutto dipende dalle “modalità selettive e classificatorie “ scelte dal sistema penale. Non esiste una Criminologia “reine” nel senso di Kelsen, poiché la nomogenesi condiziona anche il lavoro del Criminologo; donde, il perenne e concreto rischio di una Criminologia serva del potere politico dominante. P.e., come evidenzia Harcourt (ibidem)[26] gli Studi ragionati sulla devianza degli stranieri spesso rendono la falsa idea xenofoba di un extracomunitario tendente alla delinquenza, mentre, nella realtà concreta, talune rilevazioni numeriche sono soltanto sintomo di approcci razzisti ed aggressivi della PG nei confronti dei residenti non autoctoni.

L'italiofono Melossi (2002)[27] giunge al punto di negare l'assoluta attendibilità delle Statistiche criminologiche, in tanto in quanto le cifre e le percentuali non riflettono sempre la realtà fattuale, bensì variano a seconda delle “classificazioni sociologicamente rilevanti”. P.e., i controlli “rafforzati” della PG a carico degli stranieri non significano che questi delinquano più della popolazione indigena. Similmente, Kitsuse & Cicourel (ibidem)[28] negano tale “oggettività” delle Ricerche, in Criminologia, “dal momento che un comportamento non è deviante o criminale in sé, indipendentemente dalle pratiche socialmente organizzate che lo identificano e definiscono come tale”. A parere di chi commenta, tuttavia, rimane un residuo di criminalità “ontologica” che prescinde dal contesto sociale. P.e,. basti pensare alla pedofilia, al genocidio o alla tortura. Interessante è pure la Statistica di Taylor (1982)[29] sui suicidi nel Regno Unito. Pure in tale fattispecie, è emersa l'esistenza di “condizionamenti” che hanno inficiato il mito di una Ricerca assolutamente certa ed incontestabile. P.e., in Taylor (ibidem)[30] prevalgono delle “classificazioni” erronee del concetto di “morte dovuta ad altre cause”. Oppure ancora, sempre nel predetto Criminologo anglofono, abbondano “rappresentazioni di senso comune [e] raffigurazioni mediatiche del gesto estremo”. In tutti questi casi, il dato numerico perde oggettività. Quindi, di nuovo, le dispercezioni sociali prevalgono sulla consistenza ontologica dei fatti penalmente rilevanti.
 

Le distorsioni cognitive mass-mediatiche.

Nella Criminologia degli Anni Duemila, prevale la ratio dell'”interazionismo”; ovverosia, si nega, non senza esagerazioni, l'ontologia del crimine, il quale, viceversa, è percepito alla stregua di una costruzione sociale collettiva, politica e, soprattutto, mass-mediatica. Secondo Melossi (ibidem)[31], “dal momento che, nella società contemporanea, i mass-media – la fabbrica dell'immaginario – costituiscono l'agenzia più importante di produzione e diffusione di significati […] si è rovesciata l'impostazione precedente […] Invece di chiedersi, infatti, se l'esposizione ai media e alle loro immagini potesse indurre le persone alla violenza e al crimine, […] si è cominciato a lavorare sul rapporto tra le immagini mediatiche e la reazione sociale alla devianza”.

Soprattutto negli USA, il condizionamento televisivo è stato ed è basilare nella percezione nazional-popolare della criminalità. Il legame tra dispercezioni criminologiche ed opinione pubblica risulta talmente intenso che, giustamente, lo statunitense Schudson (1987)[32] valgono pure nel contesto dell'odierno scenario televisivo italiano. Viceversa, la popolazione giovanile tende a preferire, nel bene o nel male, gli impulsi cognitivi veicolati dalla rete web. Del pari, Chibnall (1977)[33] evidenzia che “la devianza, intesa in senso lato, è molto notiziabile. Gli eventi riconducibili al campo della devianza hanno una serie di proprietà [televisivamente] considerate idonee a fare di una storia una buona notizia […] possono essere facilmente drammatizzabili, possono solleticare desideri proibiti […]. In più, consentono categorie morali semplici, applicabili ai ruoli stabiliti, quali quelli di vittima e carnefice”. In effetti, la cronaca nera introduce lo spettatore medio in un ambito “dionisiaco” assai emozionante e piacevolmente trasgressivo. Anche la rete Internet permette al navigatore cybernetico di entrare in dinamiche “noir” senza dover patire una reale esposizione al pericolo. Ne consegue un'esaltazione della traumatofilia tipicamente adolescenziale.

Interessante è la prospettiva delineata da Surette (1998)[34], a parere del quale “a causa del carattere notiziabile del delitto, ciò che i media fanno, in definitiva, è prendere l'evento – raro – del crimine e trasformarlo nell'immagine – comune – della criminalità”. In buona sostanza, la televisione o lo web consentono un viaggio gratuito nel proibito agìto da estranei. Dunque, i mass-media interagiscono con l'identità sadica nascosta dello spettatore. Secondo Ericson & Baranek & Chan (1987)[35] “in Canada, la quota delle notizie dedicata alla devianza va dal 45 % al 71 %, a seconda del canale televisivo considerato […]. In Italia, la criminalità riceve molto più spazio nei Tg in prima serata che in tutti gli altri paesi europei considerati nella Ricerca”. In effetti, l'italiano medio è molto influenzato dai vari notiziari televisivi. D'altra parte, soltanto gli addetti ai lavori sono in grado di attingere, direttamente e quotidianamente, a trattazioni criminologiche serie e meno spettacolarizzate. La Criminologia impiega categorie cognitive raffinate ancorché non comunemente diffuse.

Le televisioni provocano autentiche distorsioni cognitive presso l'opinione pubblica e, come notato dall'Osservatorio europeo sulla sicurezza (2017)[36], “una prima conseguenza è la credenza nella forte diffusione e nella crescita costante della criminalità, della vittimizzazione e della violenza, che porta all'affermazione di cinismo e diffidenza. Nell'ultimo decennio [2007-2017, ndr], in Italia, la quota delle persone convinte che la criminalità, negli ultimi cinque anni, fosse aumentata è stata sempre compresa tra il 75 % e l' 88 % nella varie rilevazioni annuali, quale che fosse il reale andamento registrato dalle Statistiche. I più suscettibili a questo effetto sono gli individui socialmente più isolati, come gli anziani”. Anche Internet, che, di solito, tende ad azzerare le asimmetrie informative, nel caso della criminogenesi altro non fa che amplificare allarmismi collettivi fattualmente infondati. I beneficiari di siffatta insicurezza sociale, artificiosamente generata, sono, come prevedibile, i partiti politici che cavalcano i malumori popolari in cerca di voti. Per conseguenza, i mass-media alimentano posizioni razziste non giustificate dalla realtà concreta.

Le televisioni, unitamente a molti siti web, provocano timori infondati che, specialmente negli USA, si concentrano sul trinomio stupro-omicidio volontario-rapina. All'opposto, nessuna attenzione è riservata al ben più diffuso white collar crime, che inquina gravemente le macro-economie internazionali. Come rilevato da Graber (1980)[37], “gli omicidi e le rapine, nei quali si condensano azione, dramma ed immediatezza,, pur essendo eventi piuttosto rari, godono della più ampia copertura [televisiva] […]. Negli USA, i reati non violenti sono il 47 % del totale, ma solo il 4 % nelle notizie”. Anche nei mass-media italiani, l'omicidio volontario, di per sé poco frequente, rimane al centro dei dibattiti e delle cronache offerti dal piccolo schermo. Tale stravolgimento della realtà fattuale vale pure per la fattispecie dello stupro. Ovverosia, come riferito da ISTAT (2015)[38], “lo stupro, se compiuto in strada e da sconosciuti, riceve una buona copertura, malgrado [in Italia] le violenze compiute da estranei risultino essere una quota largamente minoritaria in questo tipo di reato (solo il 4,6 % in Italia nel 2014). Al contrario, alle violenze compiute all'interno delle case e ad opera di persone conosciute viene data molta meno rilevanza, anche da parte della polizia”. Di nuovo, come riferisce ISTAT (ibidem)[39], le notizie ben dettagliate afferenti agli stupri sono assai gradite dal pubblico televisivo, che sfoga, per tal via, il proprio cinismo sadico normalmente represso. L'abuso sessuale, se narrato con ossessività in televisione, stuzzica curiosità morbose mai totalmente sopite nemmeno dopo la fase evolutiva dell'adolescenza. Nella cronaca nera, pure l'adulto riscopre recondite pulsioni sessuali proibite.

P.e., negli USA, come evidenziato da Dixon & Maddox (2005)[40], “la vittima preferita della criminalità, nei media [ancorché non nella vita reale, ndr], è una donna bianca e di classe media. Il tipico colpevole è maschio, disoccupato e nero, negli Stati Uniti, oppure di origine straniera in Europa […]. La storia che vogliono i media è quella dei delitti commessi nei quartieri bene. La vittimizzazione delle minoranze è invece raramente raccontata: essere una vittima tipica non significa essere una vittima notiziabile”. Questa manipolazione irrealistica della cronaca nera conduce inevitabilmente alla xenofobia ed al rigetto delle condotte borderline non etero-lesive. In effetti, Surette (ibidem)[41] , precisa che “sono stigmatizzate e criminalizzate [sempre] le minoranze […] I media insistono sul ritratto stereotipato del balordo, del delinquente incallito, non redimibile (una volta si diceva: il mostro) che agisce per avidità, prepotenza o perversione […]. Lungi dal predisporre politiche di intervento sociale o di riduzione del danno, questa rappresentazione evoca misure repressive e preventive atte a ridurre il rischio per le vittime e per le forze di polizia, aumentando la sorveglianza delle categorie ritenute pericolose”. Entro tale ottica, naturalmente, la ratio rieducativa della detenzione non ha alcun diritto di cittadinanza. Anzi, i mass-media pretendono Criminologi non professionali e propensi alla spettacolarizzazione macabra del crimine. Assai lucido è pure Garland (2007)[42], a parere del quale “l'approccio della guerra alla criminalità, promosso in grande stile a partire dalla metà degli Anni Sessanta negli Stati Uniti, è divenuto ormai, per molti paesi, il linguaggio dominante nel discorso politico e, di conseguenza, mediatico […]. La criminalità non è dovuta alle diseguaglianze, alla discriminazione o a qualsiasi altro fattore che veda come responsabile la società e le sue istituzioni, ma a predatori avidi e squilibrati che possono dunque essere repressi senza sensi di colpa”.

A parere di chi redige, siffatto approccio a-tecnico alla criminalità domina nella Francia degli ultimi decenni, ove è scarsa l'attenzione dello welfare statale verso le periferie degradate in cui risiedono nordafricani disagiati e culturalmente abbandonati. Del resto, pure il neo-retribuzionismo occidentale confonde le cause del disagio sociale con i suoi effetti. Inoltre, la pseudo-Criminologia della “zero tolerance” sostituisce la ratio della rieducazione penitenziaria con quella della neutralizzazione del delinquente infrattore.

Tutto ciò premesso, Graber (ibidem)[43] nota: “non sorprende che i forti consumatori di cronaca nera rimproverano alla polizia e, soprattutto, all'AG di essere troppo indulgenti con il crimine”. In particolare, la suesposta osservazione vale anzitutto nei confronti del presunto aumento della criminalità minorile e/o giovanile. Quindi, il populismo televisivo richiede la presenza capillare di poliziotti che si atteggino a giustizieri, specialmente a carico di persone straniere ritenute moleste e socialmente pericolose. Del pari, Surette (ibidem)[44] rimarca che “l'effetto [della demagogia mass-mediatica, ndr] è la richiesta di più polizia, prigioni e risorse per il sistema penale”. Torna, dunque, il falso mito di una Giuspenalistica onnipresente ed in grado di neutralizzare persino le eccentricità comportamentali non etero-lesive. D'altronde, anche negli USA, il Diritto Penale si manifesta alla stregua di un Caronte implacabile privo di qualsivoglia garantismo accusatorio.

Senza dubbio, ognimmodo, le Statistiche criminologiche a-tecniche amplificano la problematica della criminalità. A tal proposito, Fishman (1978)[45] evidenzia che “alla base delle [presunte] ricorrenti ondate di criminalità che fanno la loro comparsa sui mezzi di informazione stanno, piuttosto che variazioni nei comportamenti criminosi, dei processi di tematizzazione che coinvolgono più testate contemporaneamente. I media tendono a scoprire un nuovo tipo di minaccia o di figura deviante tutti insieme, influenzandosi a vicenda […]. Se il tema scelto, il concetto unificante incontra il favore delle altre redazioni e della politica, […] esso prevarrà sui temi alternativi […] dando l'impressione del dilagare del fenomeno”. Fishman (ibidem)[46] indirettamente fa appello all'assoluta necessità di un metodo scientifico nella redazione delle Statistiche criminologiche, in tanto in quanto una Criminologia politicizzata è nemica dello Stato di Diritto nonché della ratio rieducativa carceraria. Anche Cohen (ibidem)[47] si dichiara nemico di una “amplificazione della devianza […] [perché] l'introduzione di misure più repressive ha l'effetto di alienare i soggetti etichettati come devianti dalla gente c.d. normale, portando ad una proliferazione di stereotipi che inducono la polizia, sottoposta ad un'aumentata pressione sociale, ad un maggiore accanimento”. Una Criminologia seria e a-partitica si trasforma in garanzia dell'Ordinamento democratico-sociale. Sempre Cohen (ibidem)[48] si dissocia dal “panico morale” indotto dalle televisioni, che generano “ondate emotive nelle quali un episodio [bagatellare, ndr] o un gruppo di persone vengono definiti come una minaccia per i valori di una società; i mass-media ne presentano la natura in modo stereotipato, e altre autorità erigono barricate morali”

 

Note:

[1]Lombroso, L'uomo delinquente, Hoepli, Milano, 1876

 

[2]Sampson & Laub, Crime in the Making; Pathways and Turning Points Through Life, Harvard University Press, Cambridge, 1995

 

[3]Merton, Struttura sociale e anomia, in Teoria e struttura sociale [1947], Il Mulino, Bologna, 1959

 

[4]Cohen, Ragazzi delinquenti [1955], Feltrinelli, Milano, 1974

 

[5]Gottfredson & Hirschi, A General Theory of Crime, 1. Edition, Stanford University Press, Stanford, CA, 1990

 

[6]Barbagli, L'occasione e l'uomo ladro: furti e rapine in Italia, Il Mulino, Bologna, 1995

 

[7]Bevilacqua et al., A population-Specific HTR2B Stop Codon Predisposes to Severe Impulsivity, in Nature, 468, 7327, 2010

 

[8]Becker, Outsiders. Studi di sociologia della devianza [1963], Torino, Edizioni Gruppo Abele, 1987

[9]Durkheim, De la division du travail social, PUF, Paris, 1893

 

[10]Sutherland, La criminalità dei colletti bianchi e altri scritti [1939], Unicopli, Milano, 1986

 

[11]Harcourt, Against Prediction: Profiling, Policing and Punishing in an Actuarial Age. University of Chicago Press, Chicago, 2008

 

[12]Rinaldi & Saitta, Devianze e crimine: antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, PM, Varazze, 2017

 

[13]Rinaldi & Saitta, op. cit.

 

[14]Vidoni & Guidoni, La criminalità, Carocci, Roma, 2004

 

[15]Vidoni & Guidoni, op. cit.

 

[16]Lemert, Devianze, problemi sociali e problemi di controllo [1967], Giuffrè, Milano, 1981

 

[17]Lemert (ibidem), op. cit.

 

[18]Goffman, Asylums. Le istituzioni totali [1961], Einaudi, Torino, 1968

 

[19]Atkinson, Discovering Suicide. Studies in the Social Organization od Sudden Death, Macmillan, London, 1978

 

[20]Dal Lago, La produzione della devianza: teoria sociale e meccanismi di controllo, Ombre Corte, Verona, 2000

 

[21]Dal Lago (ibidem), op. cit.

 

[22]Palidda, Italian Police Forces in the Neoliberal Turn, in European Journal of Policing Studies, 3, 1, 2015

[23]Vidoni & Guidoni (ibidem), op. cit.

 

[24]Vidoni & Guidoni (ibidem), op. cit.

 

[25]Kitsuse & Cicourel, A Note on the Uses of Official Statistics, Social Problems, 11, 2, 1963

 

[26]Harcourt (ibidem), op. cit.

 

[27]Melossi, Stato, controllo sociale, devianza: teorie criminologiche e società tra Europa e Stati Uniti, Bruno Mondadori Editore, Milano, 2002

 

[28]Kitsuse & Cicourel (ibidem), op. cit.

 

[29]Taylor, Durkheim and the Study of Suicide, Macmillan, Londono, 1982

 

[30]Taylor (ibidem), op. cit.

 

[31]Melossi (ibidem), op. cit.

 

[32]Schudson, La scoperta della notizia [1981], Liguori, Napoli, 1987

 

[33]Chibnall, Law and Order News, Tavistock, London, 1977

 

[34]Surette, Media, Crime and Criminal Justice: Images and Realities 2nd edition, Wadsworth, Belmont, 1998

 

[35]Ericson & Baranek & Chan, Visualising Deviance, Open University Press, Milton Keynes, 1987

 

[36]Osservatorio europeo sulla sicurezza, X Rapporto sulla sicurezza e insicurezza sociale, 2017

 

[37]Graber, Crime News and the Public, Praeger, New York, 1980

 

[38]ISTAT, La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia, Roma, 2015

 

[39]ISTAT (ibidem), op. cit.

 

[40]Dixon & Maddox, Skin Tone, Crime News, and Social Reality Judgments: Priming the Stereotype of the Dark and Dangerous Black Criminal, in Journal of Applied Social Psychology, 38, 2005

 

[41]Surette (ibidem), op. cit.

 

[42]Garland, La cultura del controllo. Crimine e ordine sociale nel mondo contemporaneo [2001], Il Saggiatore. Milano, 2007

 

[43]Graber (ibidem), op. cit.

 

[44]Surette (ibidem), op. cit.

 

[45]Fishman, Crime Waves as Ideology, Social Problems, 25, 5, 1978

 

[46]Fishman (ibidem), op. cit.

 

[47]Cohen (ibidem), op. cit.

 

[48]Cohen (ibidem), op. cit.