I fondamenti concettuali della Criminologia
I fondamenti concettuali della Criminologia
Indice
I presupposti
Il rapporto tra la Criminologia e le altre Scienze
Le principali correnti di pensiero criminologico
I presupposti
I mass-media, in epoca contemporanea, confondono tra il Criminologo e l’inquirente. Inoltre, taluni pretendono di far concentrare la Criminologia esclusivamente su delitti violenti, come lo stupro e l’omicidio volontario, dimenticando, per tal via, ambiti altrettanto basilari come lo white collar crime. Questa visione televisiva delle scienze del crimine pretende di affrancare la Criminologia dai limiti e dalle competenze tecniche imposte dal Diritto Penale e dalla Procedura Penale.
Nella realtà concreta, il Criminologo si occupa del crimine, del criminale e della reazione sociale al crimine. Tuttavia, per crimine si deve intendere non soltanto la delittuosità omicidaria o sessuale. Inoltre, il criminale, nelle Scienze dell’investigazione, non è il pazzoide borderline delineato dai romanzi gialli. Infine, la reazione sociale al crimine non concede spazio a giustizieri o ad eroi, bensì essa si fonda su strumenti ben più prosaici, come le Statistiche di lungo periodo ed il rafforzamento delle tradizionali agenzie di controllo, quali la famiglia, l’ambiente scolastico o la comunità religiosa di appartenenza.
Del pari, gli aspetti pratici di cui si occupa il Criminologo nulla hanno a che fare con le movimentate avventure cinematografiche. P.e., la Criminologia si occupa di prevenire la criminalità, stroncando o riducendo la criminogenesi nelle periferie degradate. Oppure, essa allestisce strumenti di controllo sociale grazie alla collaborazione delle scuole dell’obbligo. Oppure ancora, il che non va sottovalutato, lo scienziato del crimine tenta di migliorare il trattamento penitenziario al fine di ridurre il tasso di recidiva dopo l’esperienza della reclusione.
Un’altra realtà tecnica assai sottovalutata è la natura multi-disciplinare della formazione del Criminologo, in tanto in quanto, come sottolineato da Francia & Verde (1986)[1], “è evidente che, per chi si occupa di Criminologia, saranno necessarie nozioni di Diritto, di sociologia, di psicologia, di psichiatria, persino di filosofia, posto che la Criminologia è stata anche definita come la scienza del male. Tutti questi saperi sono, però, integrati fra di loro e, per esempio, se la sociologia (o la psicologia) studia la società (o la psiche) e vede nel crimine uno dei propri ambiti di interesse, la Criminologia studia il crimine e vede nella società (o nella psiche) uno dei propri campi di interesse”.
Similmente, Ponti & Merzagora Betsos (2008)[2] evidenziano che “la Criminologia è una scienza multi-disciplinare, che richiede conoscenze diversificate, [ed è] una scienza interdisciplinare, nel senso che ha la necessità di dialogare con altre scienze”. In special modo, le scienze del crimine coniugano, senza alcuna antinomia, l’approccio sociologico e quello psicologico. D’altronde, gli epifenomeni della delittuosità sono intrinsecamente variegati; di più, i comportamenti devianti anti-giuridici e/o anti-sociali mutano nel corso degli anni, giacché lo scenario dell’illegalità è ontologicamente e temporalmente dinamico, non statico.
Ad ogni modo, la multi-disciplinarietà non diminuisce la scientificità della Criminologia, la quale, come rimarcano Hall & Lindzey (1966)[3], “al di là dei diversi contributi, è comunque una scienza, con le caratteristiche si sistematicità, controllabilità e capacità predittiva proprie, appunto, delle scienze”. Tale asserto di Hall & Lindzey (ibidem)[4] rinviene piena conferma, ad esempio, nei severi e dettagliati metodi di allestimento delle Statistiche criminologiche, nelle quali tutto è minuziosamente calcolato e nulla è a-tecnicamente lasciato al caso.
Anzi, Ponti & Merzagora Betsos (ibidem)[5] sottolineano che “la Criminologia è una scienza descrittiva, nel senso che illustra i diversi reati ed i rei, li classifica ed elabora tipologie; ma è pure una scienza eziologica, perché dei fenomeni e della scelta criminosa dei singoli propone delle cause. [Quindi,] poiché i fenomeni consistono nella violazione di precetti, può essere definita scienza causale-esplicativa a contenuto normativo”. Dunque, Ponti & Merzagora (ibidem)[6] propongono una visione integrale e non settoriale del lavoro del Criminologo, che non è chiamato solo ad una sterile raccolta di dati statistici, bensì anche ad una rielaborazione epistemologica dei fatti, la cui prevenzione si accompagna sempre alla semplice descrizione. Viceversa, la prospettiva criminologica non condurrebbe ad alcuna general-preventività.
Di solito, la scienza del crimine si attiene alle norme penali codicisticamente date e non le amplia per analogia, al fine di evitare un eventuale “etichettamento” di condotte borderline anti-sociali ancorché non anti-giuridiche. Ad esempio, una Criminologia che sconfinasse nel campo del de jure condendo potrebbe ridursi ad uno strumento dittatoriale al servizio di un tirannico Stato di polizia. Oppure, come accade già nella Giuspenalistica statunitense, sussumere nel Diritto Penale nuove fattispecie infrattive significa colpire, con la sanzione criminale e, dunque, con il carcere, condotte eccentriche anti-/a-sociali non etero-lesive. Taluni, viceversa, sostengono la natura utile e lodevole di uno studio del crimine in grado di suggerire al Legislatore la creazione di nuove fattispecie penalmente rilevanti. Dopotutto, il divieto dell’utilizzo dell’analogia nell’Ordinamento penale non impedisce al Criminologo di effettuare proposte ideate per un miglioramento della legislazione. In effetti, nella Dottrina criminalistica italiana, molti Autori reputano che la Criminologia spesso si fa interprete e portavoce di taluni malumori popolari che, se elaborati non in senso populistico, possono favorire una maggiore funzionalità della normazione penalistica.
Ad esempio, negli ultimi decenni, la “Human Criminology” ha individuato Norme certamente valide, ma contrarie ai Diritti fondamentali dell’Uomo. Oppure ancora, si ponga mente alla fattispecie del genocidio, legale sotto il profilo della forma, seppur contestabile sotto il profilo criminologico. Pertanto, l’intervento del Criminologo, con afferenza alla Giuspenalistica, può essere utile per smascherare un Diritto Penale tecnicamente valido, ancorché ingiusto, in tanto in quanto contrario alla ratio universale della protezione dell’essere umano. È poi vero, al contrario, che taluni regimi assoluti, come quelli nazi-fascisti, avevano creato una Criminologia completamente e bestialmente asservita alla ragion di Stato.
La scienza del crimine ha analizzato una vasta gamma di reati. Tra i più noti, vi sono l’omicidio volontario, seriale e non, e lo stupro. Tuttavia, dagli Anni Trenta del Novecento in poi, Autori come Sutherland si sono occupati pure della criminalità economica. Interessanti sono pure gli Studi sulla criminalità organizzata, sulla violenza domestica, sui serial killer e sul terrorismo. Infatti, provvidenzialmente e a prescindere dalle distorsioni mass-mediatiche, oggi i Criminologi non si focalizzano più quasi esclusivamente sulla delittuosità violenta di tipo fisico.
Siffatta varietà tematica comporta una speculare diversità di scuole di pensiero. A tal proposito, Forti (2000)[7] ha precisato che “la varietà dei fenomeni oggetto di Studio della Criminologia fa sì che risulti ben difficile che una singola teoria possa spiegare in modo soddisfacente ogni tipo di condotta criminosa. […] L’idea che una singola teoria sia sufficiente a spiegare tutti i crimini sarebbe tanto assurda quanto quella di immaginare, in medicina, una teoria generale della malattia, al posto di distinte teorie [per ciascuna patologia]”. Del resto, un medesimo reato può avere più di una causa, più di una manifestazione concreta, più di una modalità esecutiva e più di una conseguenza per la parte lesa, così come variegati sono gli approcci scientifici al crimine. Ad esempio, l’approccio psicanalitico è soggettivista, mentre la teoria dell’etichettamento mette in rilievo gli aspetti sociologici.
Il rapporto tra la Criminologia e le altre Scienze
Consta che, nella Dottrina criminologica, l’approccio psicologico è di tipo soggettivistico, mentre l’orientamento sociologico concentra, piuttosto, la propria attenzione sull’oggettività delle dinamiche riscontrabili all’interno delle agenzie di controllo.
L’interpretazione sociologica della delinquenza afferma che il tessuto collettivo influenza le condotte individuali. P.e., nei quartieri di periferia, il degrado abitativo può facilmente recare alla nascita di sotto-gruppi devianti. Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, il belga Lambert ed il francese Guerry elaborarono le prime Statistiche criminologiche allestite su base sociologica. Dunque, lo studio della tendenza a delinquere del singolo, nei predetti Dottrinari, veniva integrato da variabili afferenti alle condizioni sociali del reo. Ad esempio, Lambert e Guerry attribuivano molta importanza al fattore della scolarizzazione, a quello dell’inserimento geografico e a quello del contesto macro-economico da cui proveniva l’infrattore.
Come riferito da Frégier (1840)[8], nell’Ottocento, si reputava che “la delinquenza comune, o convenzionale, è agita soprattutto da appartenenti alle classi meno favorite [quindi] […] i fenomeni criminosi sono causati dalla povertà [ed esistono] classi pericolose cui è attribuibile un’innata mancanza di senso morale, all’un tempo responsabile della povertà, della depravazione e della criminalità ivi dilagante”. La teoria di Frégier (ibidem)[9] è oggi contestata dalla quasi totalità dei Criminologi. In effetti, fenomeni quali il crimine dei colletti bianchi dimostrano che anche le classi sociali maggiormente elevate si abbandonano sovente a forme di delinquenza sottili, eppur non meno anti-sociali. Anche negli Anni Duemila, è evidente che non sussiste alcuna correlazione tra l’antigiuridicità infrattiva ed il reddito disponibile. P.e., si ponga mente al consumo di cocaina, largamente diffuso pure nell’alta borghesia.
Tuttavia, molti Autori, soprattutto con attinenza alle grandi metropoli statunitensi, hanno rilevato che, sotto il profilo statistico, la precarietà abitativa favorisce la criminogenesi in alcune determinate “zone urbane” ove abbonda la delinquenza violenta. Pertanto, l’ambiente abitativo non è un fattore neutro.
In effetti, Ponti & Merzagora Betsos (ibidem)[10], pur non criminalizzando in maniera automatica i cittadini con minori disponibilità economiche, rilevano, ciononostante, che “anche se vi è un continuo ricambio degli abitanti, il tasso di criminalità [nelle periferie disagiate, ndr.] rimane costantemente elevato, il che sta ad indicare […] il valore criminogenetico dei fattori dovuti alle particolari caratteristiche dell’ambiente sociale”. Tant’è che le Ricerche sulle banlieue statunitensi o europee ipotizzavano una vera e propria “teoria ecologica del crimine”. A parere di chi redige, nella periferia cittadina, prevale una devianza violenta tanto cara alle cronache giornalistiche, ma, a prescindere dalle distorsioni mass-mediatiche, esiste pure un’infrattività proveniente dai “quartieri-bene”, pur se si tratta di condotte non palesemente etero-lesive o, comunque, non televisivamente strumentalizzate.
Negli USA, negli Anni Trenta del Novecento, Merton fondò la “Scuola sociologica dello struttural-funzionamento”, a parere della quale la “anomia” collettiva si verifica allorquando l’Ordinamento socio-giuridico propone all’intero consorzio civile i medesimi traguardi valoriali e patrimoniali, ma, nella realtà concreta, poi i meno abbienti non possiedono gli strumenti legali per salire tale scala sociale. Ne consegue che le minoranze emarginate e demotivate perdono la loro fiducia etico-politica nei confronti dell’ordine statale costituito. Per il vero, la tesi di Merton si attaglia perfettamente all’“american dream”, fatto di successo e prosperità economica; ovverosia qualora la finalità sociale non sia lecitamente raggiungibile, in tal caso nasce la “criminalità appropriativa”, che rende possibile, in modo illegale, la realizzazione del modello etico veicolato dall’Ordinamento.
Merton (1966)[11] specifica che “sono devianze anche il ritualismo, dove, pur di rispettare le norme, si abdica al successo sociale, e la rinuncia, che consiste nella noncuranza sia dei fini sia dei mezzi, come nel caso dei tossicodipendenti o di taluni vagabondi. [Anche] la ribellione sostituisce le mete culturali date con altre diverse per ottenere le quali non si disdegnano mezzi illegittimi, ed è questo l’atteggiamento che può essere proprio dei contestatori e, appunto, dei ribelli”.
Come si può notare, Merton (ibidem)[12] pone l’accento sulla moralità e sulla realizzabilità delle “mete sociali”. È, dunque, evidente che una collettività senza ideali, fuorché quello dell’arricchimento, cadrà inesorabilmente nell’anomia e nella contestazione generale patologica. Tale è la fattispecie degli USA, nei quali gli obiettivi economici predominano sui valori della moralità ed della solidarietà tra con-cittadini. Merton (ibidem)[13] mette in guardia, seppur implicitamente, dalla plutocrazia materialista ed atea; la a-moralità genera malcontento diffuso e forme di auto-alienazione, come la tossicodipendenza e l’alcolismo.
Interessante, sempre negli USA, è la “teoria delle bande criminali”, inizialmente destinata all’interpretazione della delinquenza giovanile generata all’interno delle zone urbane più disagiate. A tal proposito, Cohen (1963)[14] postula che “la sotto-cultura delinquenziale dei giovani di bassa estrazione sociale nasce dal conflitto con la cultura della classe media, dalla quale essi si sentono estranei ed esclusi, poiché è per loro impossibile o molto più difficoltoso conseguire i vantaggi ed il successo sociale di cui godono i loro coetanei dei ceti più favoriti. Questi giovani sperimentano, così, l’insuccesso, la frustrazione e l’umiliazione, a cui reagiscono disconoscendo le regole della cultura dominante e cercano di organizzare nuovi e diversi rapporti interpersonali con proprie norme e propri criteri di status”.
Gli asserti di Cohen (ibidem)[15] ricordano da vicino la ratio della “ribellione anomica” di Merton (ibidem)[16]. Tuttavia, a parere di chi scrive, la nozione di “classe” sociale costituisce un riferimento marxista eccessivo, che presuppone una “Criminologia del conflitto” eccessivamente politicizzata. In buona sostanza, secondo chi commenta, è fuorviante trasformare il Criminologo in un difensore intellettualoide e pseudo-progressista delle fasce di popolazione meno abbienti. Una Criminologia engagée rischia di tradursi in uno strumento gnoseologico a-tecnico e tutt’altro che meta-temporale e meta-geografico.
Negli Anni Sessanta del Novecento, i movimenti legati alla contestazione studentesca diedero vita alla teoria dell’etichettamento (labelling approach). Tale movimento di pensiero, come precisato da Becker (1987)[17], sostiene che “il deviante non è tale perché commette certe azioni, ma perché la società qualifica, etichetta come deviante chi compie quelle azioni […]. Non è la devianza a sollecitare la reazione sociale negativa, ma è la reazione sociale a creare la devianza […]. La devianza non è una qualità dell’atto commesso dalla persona, ma piuttosto una conseguenza dell’applicazione di norme e sanzioni ad un delinquente da parte di altri. Dunque, il deviante è una persona alla quale l’etichettamento è stato applicato con successo, e il comportamento deviante è un comportamento che viene etichettato come tale”.
Secondo il sommesso parere di chi redige, il labelling approach reca una potenza ermeneutica insufficiente, dal momento che sussistono infrazioni ontologicamente criminali. Ad esempio, il genocidio, pure all’interno della Human Criminology, è qualificato alla stregua di un delitto temporalmente e geograficamente perenne. Eguale osservazione vale pure per l’omicidio volontario, le parafilie violente od il furto non giustificato da uno stato di necessità. L’ontologia di certi crimini non è un retaggio bigotto, bensì essa dà una risposta a talune istanze morali insopprimibili nella/della dignità umana.
Le principali correnti di pensiero criminologico
Con il XX Secolo, nel Regno Unito, prese vita la corrente di pensiero del “nuovo realismo”, la quale concentrava la propria attenzione sulla Vittimologia e sottolineava, al contempo, la particolare vulnerabilità del ceto operaio. P.e, Ruggiero (1986)[18] metteva in evidenza che “la criminalità convenzionale, in particolare i reati di strada [street crime] colpiscono soprattutto le fasce meno abbienti ed indifese della popolazione […]. Andate a dirlo ad un operaio rapinato della paga o ad una donna violentata che il crimine non esiste”. Il nuovo realismo proponeva, per arginare la delinquenza, la “neighbourhood” [sorveglianza di vicinato]. Tali ronde contestavano il monopolio della forza pubblica tradizionalmente riservato alla PG, come asserito da Grozio nella propria teoria del “contratto” sociale. Chi redige nota che anche il fascismo, in Italia, si propose, almeno inizialmente, come un efficace servizio di ronda alternativa.
All’opposto, Lombroso metteva in rilievo non il danno subito dalla vittima, bensì le tare ereditarie sussistenti in capo all’“uomo delinquente nato”. L’intera produzione dottrinaria di tale Autore si colloca tra il 1835 ed il 1909, ovvero all’inizio dell’unità del Regno d’Italia. Particolarmente interessante è il pregiudizio lombrosiano nei confronti del Meridione italico, ove, come riportato da Curcio (2014)[19], Lombroso “individuava l’inferiorità razziale, genetica e psicologica delle popolazioni meridionali [ma] egli individuò nel latifondo e nel potere feudale dei grandi proprietari terrieri la causa dell’arretratezza dei contadini del Sud”. Come si può notare, l’antropologia del crimine di Lombroso mescola le solite, trite e retrite osservazioni razziste a lungimiranti vedute sociologiche. Sempre Curcio (ibidem)[20] precisa che “Lombroso si occupò di problemi sociali, sebbene egli sia noto quasi esclusivamente per aver rivolto l’attenzione all’uomo che delinque [ed] alle sue caratteristiche soprattutto biologiche […]. Il delinquente era [per lui] un individuo primitivo, una sorta di selvaggio ipo-evoluto, nel quale la scarica degli istinti e delle pulsioni aggressive si realizzava nel delitto senza inibizioni. In sintesi, con l’opera lombrosiana, i non conformi diventano i deformi, e viceversa”.
È più che evidente il legame di Lombroso con la teoria della (mancata) evoluzione, nel senso che l’uomo delinquente lombrosiano reca un corredo genetico malato, diverso, erroneo, che lo fa regredire alla dignità di un animale primitivo, assai propenso alla violenza fisica e materiale. Attualmente, la Criminologia rigetta le teorie degradanti di Lombroso, il quale, in definitiva, impiegava metodi non scientifici e creava una minoranza sociale isolata e composta da devianti non recuperabili attraverso il percorso rieducativo carcerario. Una consimile antropologia criminologica riduce il trattamento penitenziario alla custodia securitaria di soggetti non emendabili ed affetti da presunte disabilità psicofisiche. Naturalmente, una tale visione della Criminologia è contraria all’odierna tutela granitica della dignità del ristretto.
Tuttavia, rimane la voce isolata dei filo-lombrosiani Gatti & Verde (2004)[21], a parere dei quali “oggi, le moderne ricerche effettuate con tecniche di neuroimaging hanno riscontrato un’associazione tra comportamento antisociale violento ed anomalie fisiche (minor physical anomalies), espressione di un imperfetto sviluppo neuronale, collocabile verso la fine del terzo mese di gravidanza. Fra queste anomalie, ne ritroviamo alcune già citate da Lombroso, quali quelle relative ai lobi delle orecchie, l’asimmetria facciale, la minore conducibilità elettrica a livello cutaneo e, quindi, la diversa reattività”. Chi scrive si dissocia con vigore da tale asserto di Gatti & Verde (ibidem)[22]. (Ri-)legittimare la ripugnante nozione lombrosiana di “tara ereditaria” significa aprire la strada all’eugenetica nazista e, parimenti, a quella sovietica. A parere di chi commenta, è preferibile porre l’accento sulle anomalie delle agenzie di controllo.
Postulare una criminogenesi ereditaria costituisce un insulto inaccettabile all’eguaglianza socio-democratica dei consociati. Il deviante non è un disabile da neutralizzare, bensì un essere umano suscettibile di rieducazione e re-inseribile nella società.
D’altra parte, come osservato da Martucci (2002)[23], “Lombroso ed i lombrosiani si occuparono [anche] del brigantaggio bancario e della sua pericolosità, ma dovettero anche rendersi conto dell’inettitudine delle assunzioni dell’antropologia criminale a spiegare questo tipo di delinquenza. Era di immediata evidenza quanto la teoria dell’atavismo o quella del delinquente nato non fossero applicabili a questi delinquenti. L’autore è in imbarazzo davanti a soggetti che hanno i caratteri dell’uomo comune, che non presentano particolarità somatiche [ma che delinquono comunque] […] Lombroso è costretto addirittura a negare che si tratti di veri e propri criminali, chiamandoli, dunque, criminaloidi”.
Stimolante, sotto il profilo culturale, ancorché privo di applicazioni pratiche, è pure l’approccio psicanalitico alla criminalità. Freud individuava tre “istanze” delle psiche: l’“Es”, contenitore degli istinti, l’“Io”, ossia la componente psicologica ed il “Super-Io”, depositario dei valori morali connotanti la personalità. Nella Criminologia contemporanea, il Super-Io è reputato alla stregua di un potente freno inibitorio.
Ad esempio, Alexander & Staub (1978)[24] precisavano che “per spiegare il delitto, occorre analizzare le diverse modalità dello svincolarsi dal controllo del Super-Io, a cominciare dalla delinquenza fantasmatica, situazione in cui non vengono commesse azioni criminali, ma vi sono pulsioni anti-sociali che l’individuo disloca sul piano della fantasia, per esempio identificandosi con il criminale nella visione di un film, o provando ammirazione per famosi assassini, magari scambiando con costoro una fitta corrispondenza quando sono in carcere. Secondo Alexander & Staub (ibidem)[25] la delinquenza è “colposa” se provocata da negligenze non aggravate, “nevrotica” se cagiona conflittualità interiori, e, infine, “normale” quando il Super-Io è messo a tacere ed il rimorso è ridotto a livelli pressoché nulli.
Il Super-Io cede il posto all’Es pure nell’interpretazione criminologico-psicanalitica di Musatti (1961)[26], per il quale “all’origine dei delitti contro la persona vi è l’incapacità ad identificarsi con il prossimo, cioè a sentire il dolore e la pena altrui come se fossero nostri […]. Vi può essere, addirittura, una deficienza globale di identificazione con l’oggetto dell’impulso aggressivo”. Simile è pure l’analisi di Erikson (1974)[27], ovverosia “il concetto di identificazione è molto importante nella psicologia sociale […]. È essenziale, per la crescita del Super-Io, la presenza di buoni modelli [...] per l’edificazione dell’identità dell’atteggiamento degli altri nei nostri confronti. È, infatti, possibile che le altrui aspettative negative condizionino il comportamento, fino a realizzare la cosiddetta, auto-profezia che si auto-adempie, vale a dire che colui il quale si sente considerato un soggetto da cui non ci si può aspettare nulla di buono finisca per considerare se stesso come incapace di fare, appunto, qualcosa di buono”.
L’ottica di Erikson (ibidem)[28] è la medesima di Ponti & Merzagora Betsos (ibidem)[29], in tanto in quanto stimoli educativi umilianti, anche in ambito carcerario, abbassano l’auto-stima del soggetto e lo conducono inesorabilmente ad aumentare la propria aggressività. Del pari, Verde (2018)[30] critica negativamente “le tecniche [pedagogiche] lesive della dignità e della libertà dell’uomo impiegate al fine di ottenere conformità e rispetto delle norme”
[1]Francia & Verde, Criminologia: riflessioni sull’oggetto, in Criminologia, 7, 18, 1986
[2]Ponti & Merzagora Betsos, Compendio di Criminologia, 5a edizione, Raffaello Cortina, Milano, 2008
[3]Hall & Lindzey, Teorie della personalità, traduzione italiana Boringhieri, Milano, 1966
[4]Hall & Lindzey (ibidem), op. cit.
[5]Ponti & Merzagora Betsos (ibidem), op. cit.
[6]Ponti & Merzagora (ibidem), op. cit.
[7]Forti, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Raffaello Cortina, Milano, 2000
[8]Frégier, Des classes dangereuses de la population dans les grandes villes et des moyens de les rendre meilleures, Tomo I, Libreria de la Academia Real de Medicina, Paris, 1840
[9]Frégier (ibidem), op. cit.
[10]Ponti & Merzagora Betsos (ibidem), op. cit.
[11]Merton, Struttura sociale e anomia, in Teoria e struttura sociale, traduzione italiana Il Mulino, Bologna, 1966
[12] Merton (ibidem), op. cit.
[13]Merton (ibidem), op. cit.
[14]Cohen, Ragazzi delinquenti, traduzione italiana, Feltrinelli, Milano, 1963
[15]Cohen (ibidem), op. cit.
[16]Merton (ibidem), op. cit.
[17]Becker, Outsiders. Studi di sociologia della devianza, traduzione italiana Abele, Torino, 1987
[18]Ruggiero, La Criminologia critica? Un ricordo, in Criminologia, 7, 52, 1986
[19]Curcio, Genealogia e metamorfosi del razzismo in Italia, in Alietti & Padovan & Vercelli (a cura di), Antisemitismo, islamofobia e razzismo, Rappresentazioni e pratiche nella società italiana, Franco Angeli, Milano, 2014
[20]Curcio (ibidem), op. cit.
[21]Gatti & Verde, Cesare Lombroso: una revisione critica, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 34, 2, 2004
[22]Gatti & Verde (ibidem), op. cit.
[23]Martucci, Le piaghe d’Italia. I lombrosiani e i grandi crimini economici nell’Europa di fine Ottocento. Franco Angeli, Milano, 2002
[24]Alexander & Staub, Il delinquente, il giudice e il pubblico. Un’analisi psicologica, traduzione italiana Giuffrè, Milano, 1978
[25]Alexander & Staub (ibidem), op. cit.
[26]Musatti, Psicoanalisi e vita contemporanea, Boringhieri, Torino, 1961
[27]Erikson, Gioventù e crisi di identità, traduzione italiana Armando, Roma, 1974
[28]Erikson (ibidem), op. cit.
[29]Ponti & Merzagora Betsos (ibidem), op. cit.
[30]Verde, Tra Criminologia narrativa e Criminologia psicosociale: la nuova Criminologia clinica italiana. In De Mari (a cura di), L’io criminale. La psichiatria forense nella prospettiva psicoanalitica, Alpes, Roma, 2018