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Il crimine dei colletti bianchi

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Il crimine dei colletti bianchi
 

La teoria delle associazioni differenziali

La teoria delle associazioni differenziali è stata elaborata, per la prima volta, dall'anglofono Sutherland negli Anni Trenta del Novecento ed è idonea ad interpretare soprattutto lo white collar crime. Come precisato da Ponti & Merzagora Betsos (2008)[1], in un'associazione differenziale la scelta criminosa “non si riferisce a tutte le norme e leggi penali, ma solo a talune: p.e., in un'associazione differenziale di malavitosi prevarranno le definizioni favorevoli alla violazione delle leggi contro il furto, la rapina, lo sfruttamento della prostituzione, ma può esserci rispetto per le norme che riguardano gli obblighi e la morale familiare; ancora, in un'associazione differenziale di commercianti disonesti o di imprenditori senza troppi scrupoli, prevarranno le definizioni favorevoli all'evasione fiscale, alle frodi commerciali e nei bilanci, alla concorrenza sleale e simili, mentre verranno rispettate altre norme”. Molto dipende, dunque, dalla “tipologia” dell'ambiente criminale prevalentemente frequentato dagli infrattori.

Nella Criminologia contemporanea, quasi tutti i Dottrinari, nel nome di sani principi democratico-sociali, negano che il soggetto povero sia maggiormente propenso alla delinquenza. Viceversa, San Tommaso Moro, nell'“Utopia”, parlava di una “spietata miseria che rende ladri”. Anche Beccaria, nelle sue Opere, interpretava il furto come frutto della “miseria e della disperazione”. Nel 1867, in una Statistica criminologica, von Mayr sosteneva che la sottrazione dolosa di generi alimentari cresceva con l'aumentare del prezzo del frumento. Tali asserti sono privi di qualsivoglia fondamento scientifico. Anzi, molti Censimenti criminologici hanno dimostrato che l'aumento del PIL non provoca alcuna diminuzione del numero complessivo di furti. Di più, secondo Ponti & Merzagora Betsos (ibidem)[2] “il merito di Sutherland è quello di non essersi occupato esclusivamente dei reati perpetrati dagli appartenenti alle classi più sfavorite, come, per lo più, aveva fatto, sino ad allora, la Criminologia, così avallando la convinzione di una relazione diretta ed esclusiva tra delinquenza e pauperismo, ma di aver indirizzato i suoi studi verso un settore della delinquenza che era stato, sino a quel momento, trascurato, quello dei reati commessi dai dirigenti delle imprese industriali, finanziarie, commerciali e dai professionisti: i colletti bianchi”. Finalmente, con Sutherland, terminava il concetto della “povertà criminogenetica”. Sotto il profilo definitorio, Merzagora & Travaini & Pennati (2016)[3] precisano e ribadiscono che “il criminale dal colletto bianco è quella persona con elevato status socioeconomico che viola le leggi deputate alla regolamentazione delle proprie attività occupazionali”.

Con Sutherland, s'infrange il mito lombrosiano del delinquente psicopatico. Egli, infatti, come citato da Merzagora & Travaini & Pennati (ibidem)[4], afferma che “la patologia sociale o individuale non spiega [lo white collar crime] […] solo un singolo soggetto può essere gravato da disturbo psichico, non certo un'azienda […] I grandi imprenditori sono capaci, emotivamente equilibrati e la patologia, nel loro caso, non gioca alcun ruolo. Non vi è alcuna ragione per ritenere che la General Motors abbia un complesso d'inferiorità, che l'Alluminium Company of America abbia un complesso di Edipo, che la Armour Company abbia pulsioni di morte o che la DuPonts desideri tornare nel grembo materno”.

Tuttavia, il panorama criminologico è assai meno nitido di quello che si potrebbe pensare. P.e., secondo Merzagora & Caruso & Morgante & Travaini (2016)[5] la ratio della “tara mentale” non è del tutto superata, in tanto in quanto “se non tutti gli imprenditori, i managers, gli amministratori delegati e via dicendo delinquono, pur nella medesima posizione e con le stesse opportunità, la differenza non potrebbe risiedere (anche) in diverse caratteristiche psicologiche o addirittura psicopatologiche ?”. I predetti Autori, nel 2016, non intendono rivisitare a-criticamente gli asserti di Lombroso, ma è pur vero che certe “influenze personologiche” discendono da una psiche mal-educata o disturbata. I deliri di onnipotenza, anche nello white collar crime, recano sempre un'eziologia mentale, più o meno patologica che essa sia.

Sutherland prosegue nell'influenzare e nell'affascinare Autori degli Anni Duemila. P.e., Ruggiero (2015)[6] distingue tra almeno quattro cc.dd. “crimini dei potenti”. Per Ruggiero (ibidem)[7] esiste, infatti, anzitutto un “crimine operativo di potere”, in cui “gli individui violano quelle stesse regole da loro poste e quegli stessi valori professati”. P.e., si pensi alle condotte moralmente contraddittorie in tema di credo politico. In secondo luogo, esiste un “crimine di potere gangsteristico”, ove “da parte dei potenti vengono perpetrati reati convenzionali, come nel caso degli imprenditori che investono nel mercato della droga o finanziano sequestri di persona. I delitti di questo genere sono di solito commessi in periodi di crisi e di urgente bisogno di denaro”. La terza tipologia è costituita dal “crimine di potere delegato”, il quale si verifica “allorché i potenti si alleano con la criminalità, specie quella organizzata, la usano come braccio armato e danno in appalto l'esercizio della violenza a quest'ultima per i propri fini”. In quarto ed ultimo luogo, Ruggiero (ibidem)[8] cataloga, all'interno del crimine dei colletti bianchi, il “crimine di potere associato”, che è “analogo [a quello delegato], ma su un piano più paritario. Gli esempi sono quello dello smaltimento dei rifiuti in siti clandestini o il traffico di armi”.

Sempre sotto il profilo definitorio, negli USA, il National White Collar Crime Center ha affermato che il crimine dei professionisti, spesso insospettabili, è un complesso di “atti illegali o immorali che violano la responsabilità di cui sono depositari gli autori, per la fiducia accordata loro pubblicamente, commessi da un individuo o un'organizzazione, solitamente nel corso di un'attività occupazionale legittima, da parte di persone di status sociale elevato o rispettabile, per un guadagno personale o dell'organizzazione” (Helmkamp & Ball & Townsend – 1996 - )[9].

Nella Letteratura criminologica esistono pure, in Punch (1999)[10], i crimini dei “colletti blu”, ovverosia degli operai muniti di mansioni medio-direttive. Secondo tale Autore degli Anni Novanta del Novecento, i salariati infedeli percepiscono “mancette” per far usare, ad esempio, il telefono aziendale per fini personali, per coprire i ritardi, l'assenteismo, l'appropriazione indebita, la negligenza, il sabotaggio”. I “colletti blu” di Punch (ibidem)[11] sono senz'altro dediti ad una delittuosità bagatellare meno etero-lesiva dello white collar crime in senso stretto.

Un grave errore abolizionista (rectius: qualunquista) consiste nel qualificare i reati dei colletti bianchi alla stregua di infrazioni a pericolosità astratta, dunque non socialmente pericolose. A tal proposito, Ceretti & Merzagora (1986)[12] hanno sfatato il mito della non-antisocialità dello white collar crime, ovverosia “fra le strategie adoperate dal criminale dal colletto bianco per giustificarsi vi è quella del gabellare i reati da lui commessi per reati senza vittima. Questo non è vero, e del danno di questa forma di criminalità è stata data ampia dimostrazione già da Sutherland, il quale ha affermato che gli effetti dei reati dei colletti bianchi si fanno sentire per periodi molto lunghi e su moltissime persone, senza però colpire un soggetto specifico in un momento preciso”.

Sotto il profilo macroeconomico, infatti, lo white collar crime adultera un sistema IS/LM, fondato sul delicato equilibrio tra le seguenti variabili: investimenti, spese, lavoro, moneta. Il crimine dei colletti bianchi, seppur nel lungo periodo, provoca un pericoloso effetto destabilizzante, che sconvolge, anzitutto dal punto di vista commerciale e finanziario, la concorrenza perfetta. Il beneficio di breve periodo del crimine professionale viene presto smentito dalle negative conseguenze sula pacifica convivenza collettiva. Dal punto di vista groziano, il crimine dei colletti bianchi reca danno al “contratto sociale” stipulato ne cives ad arma veniant, come dimostra la dilagante corruzione nell' URSS degli Anni Ottanta del Novecento. Oppure ancora, negli Anni Sessanta e Settanta del Novecento, la Bancarotta della Equity Funding ebbe un costo sociale, per la Pubblica Amministrazione, superiore a quello di tutti i reati di strada mediamente commessi negli USA in dodici mesi. Si ponga mente pure ai 40.000 risparmiatori coinvolti nel crac del Banco Ambrosiano. Analoga osservazione vale pure per dipendenti ed azionisti della Parmalat in Italia, ma anche in Brasile, Argentina, Uruguay, Messico, Africa ed Australia. La pericolosità non astratta dello white collar crime è ribadita pure da Merzagora & Travaini & Pennati (ibidem)[13], ovverosia “nella realtà, questa criminalità procura vittime primarie, che sono quelle dirette ed immediate; vittime secondarie, relative all'indotto, che può essere anche il più inaspettato [...]; vittime terziarie, intangibili, poiché viene minato il buon nome e la fiducia nell'intero sistema.

A parere di chi redige, encomiabile, in Italia, è lo sforzo della Guardia di Finanza, la quale ha concretizzato numerosi progetti scolastici al fine di evidenziare, anche a beneficio dei più giovani, la profonda anti-socialità del crimine dei professionisti. Parlare di una pericolosità macroeconomica astratta dello white collar crime significa negare la ratio di normative basilari, come le disposizioni penali della legge fallimentare o la disciplina penalistica dell'antiriciclaggio, pur se, nel breve periodo, i danni non sono visibili. Alterare con dolo un sistema IS/LM significa pregiudicare il benessere economico di un'intera popolazione, la quale dovrà poi patire l'ineludibile e doloroso intervento aggiustatorio di quella che Keyns chiamava “la mano invisibile”.

Purtroppo, nella percezione nazional-popolare, lo white collar crime prosegue ad essere percepito alla stregua di una gamma di delitti “non socialmente pericolosi” o non destabilizzanti per l'ordine costituito. A tal proposito, Merzagora & Travaini & Pennati (ibidem)[14] evidenziano che “vi è il pregiudizio secondo cui questo tipo di criminalità è meno fisicamente immediato di quel che potrebbe essere quello, per esempio, di uno scippo, e addirittura che esso potrebbe non essere percepito dalle stesse vittime, che divengono, così, vittime invisibili”. Ciononostante, nell'ottica di Keyns, il danno del crimine dei colletti bianchi non è solo o puramente morale, ma anche e materialmente fattuale. E' assai pericolosa la “de-moralizzazione” criminologica dei delitti professionali. Gli atti di corruttela inficiano l'equilibrio macroeconomico delle predette quattro variabili tradizionali, ovverosia: investimenti, spese, lavoro e moneta. Lo white collar crime reca a veri e propri tracolli patrimoniali di calibro nazionale, come dimostrano gli esempi dell'Argentina e dello Zaire.

Inoltre, giustamente, Martucci (2011)[15] nega che il crimine dei colletti bianchi non possa sfociare in omicidi volontari. P.e., in Francia, l'”affaire Stavisky” recò ad un suicidio assai misterioso e ad un'altrettanto ambigua morte di un Magistrato. Oppure ancora, Barbieri & Travaini & Caruso & Ciappi & Merzagora (2019)[16] hanno riservato uno Studio ben accurato all'omicidio Ambrosoli ed ai suicidi, o presunti tali, di Calvi e di Sindona. Anzi, Martucci (ibidem)[17] riferisce la profetica frase di Calvi, pronunziata poco prima della morte, “per un tale ammontare di denaro, le persone possono uccidere”. Analogo, in India, è stato il “leading case Bophal”, città ove, nel 1984, la negligenza sprezzante di Warren Anderson recò a circa 15.000 vittime per la fuoriuscita di una sostanza velenosa, stoccata senza le debite misure di sicurezza dalla multinazionale statunitense Union Carbride.

Tantomeno va dimenticato che i “crimini dei potenti” hanno quasi sempre stretti legami con la criminalità organizzata. P.e., Kerner & Mack (1975)[18] sottolineano la perenne presenza delle mafie, in tanto in quanto “nella criminalità degli affari rientra sia la persona rispettabile, che commette illeciti per incrementare il proprio profitto, sia il soggetto appartenente al mondo del crimine, anzi ad una rete criminale, che cerca di acquistare potere e buona reputazione inserendosi nel mondo degli affari, ancorché illeciti”.

La realtà calabro-sicula conferma appieno gli asserti di Kerner & Mack (ibidem)[19], poiché esistono ambienti finanziari nei quali l'ingresso è possibile solamente grazie a compromessi con la malavita locale. Del pari, Quinney (1970)[20] postula “la necessità di una distinzione tra crimine dell'economia ed economia del crimine: solo la seconda è assimilabile alla criminalità organizzata”. In effetti, anche nella fattispecie dell'Italia, il mafioso tipico ha abbandonato la violenza fisica per concentrarsi sul crimine finanziario, ormai lontano dalle periferie rurali della Sicilia o della Calabria d'un tempo. Sottile è pure l'anglofono Punch (ibidem)[21], il quale separa l'”organizational crime” (criminalità economica) dal più grave “organized crime” (criminalità organizzata). Nella realtà concreta, ognimmodo, le due summenzionate espressioni coincidono, giacché non v'è mafia senza white collar crime.

Molti Dottrinari, nella Criminologia italiofona, parlano di “reato organizzato”, tanto per le consorterie mafiose quanto per la criminalità dei colletti bianchi. Senza dubbio, sotto il profilo della tecnica penalistica, il crimine dei professionisti è quasi sempre agito entro associazioni per delinquere che seguono il paradigma di cui agli Artt. 416 o 416 bis CP. Le suesposte tesi sono avvalorate pure da Merzagora & Caruso & Morgante & Travaini (ibidem)[22], a parere dei quali “il requisito della violenza può essere assente […]. L'organizzazione è l'arma del criminale economico; addirittura, per il criminale dal colletto bianco, è ciò che la rivoltella o il coltello sono per il criminale comune: semplicemente uno strumento per ottenere soldi dalle vittime”. Altri Autori hanno rimarcato che la criminalità dei “dirigenti” mira al conseguimento stabile tanto di denaro quanto di prestigio, mentre la criminalità predatoria “comune” si fonda solamente sull'appropriazione illegale di denaro o di altre utilità materiali. D'altra parte, anche nella ratio del TU 309/90, un conto è il grande narcotrafficante transnazionale, un altro conto è il piccolo spacciatore di quartiere.

L'italiofono Di Nicola (2002)[23] afferma, forse a ragion veduta, che, negli Anni Duemila, ormai lo white collar crime intreccia legami indissolubili e tassativi con le mafie, in tanto in quanto “la criminalità economica è [sempre, ndr] una criminalità con connotati di organizzazione e, dunque, dev'essere attuata con modalità imprenditoriali: divisione del lavoro, specializzazione, razionalità […]. E' sempre più frequente che uno stesso tipo di illecito sia perpetrato […] con metodi molto simili da gruppi di professionisti o imprenditori e da un'organizzazione criminale di stampo mafioso”. Ciò è confermato pure nella realtà criminologica elvetica. Sempre secondo Di Nicola (ibidem)[24] esistono “interdipendenze” pressoché ontologiche tra lo white collar crime e la criminalità organizzata, che ha abbandonato il Meridione italiano per rivolgersi a piazze finanziarie internazionali. P.e., sempre a parere di Di Nicola (ibidem)[25], nella Russia di Putin, “davvero non si riesce a capire se dover temere più la mafia o la classe politica corrotta. Le due non si distinguono più bene, non sembra esistere più un taglio netto”. Nel Russian Gate del 2016, si è manifestata per intero l'arroganza di gruppi criminali organizzati infiltratisi all'interno della burocrazia nazionale ed internazionale.

Secondo Weisburd & Waring (2001)[26] il criminale dal colletto bianco, più che temere il carcere, evita “sanzioni informali […] che colpiscono meno quei criminali convenzionali caratterizzati da una minore stabilità sociale”. P.e., il professionista che delinque reca una notevole ansia afferente a punizioni come “la perdita del lavoro, i nocumenti economici, i riflessi sulla famiglia […] il danno alle relazioni amicali e [soprattutto, ndr] la perdita della reputazione nella comunità”. Il non essere più “perbene” può tangere gravemente il professionista che delinque e che ha investito la propria carriera sulla ratio della “rispettabilità sociale”. Anche negli Anni Trenta del Novecento, Sutherland reputava che, per il colletto bianco, la perdita di prestigio costituisce una sanzione ancor più dolorosa della temporanea privazione della libertà personale. Il professionista deviante di manifesta assai legato e condizionato dalla stima, o meno, dell'opinione pubblica. Simile è pure il parere di Sgubbi (1990)[27], secondo il quale il reo di white collar crime manifesta una gelosa custodia della propria reputazione sociale. Uno dei pochi lati positivi del “crimine professionale” è l'assenza di tare psicopatologiche nel voler delinquere. Dunque, di nuovo, viene smentita l'iper-psichiatrizzazione del crimine postulata, in maniera financo ossessiva, da Lombroso e da Ferri. In effetti, a parere di Merzagora & Caruso & Morgante & Travaini (ibidem)[28] “il criminale economico opera secondo razionalità e, quindi, costui sarebbe del tutto scevro da problemi psicopatologici […]: Ma esistono particolarità psicologiche del delinquente degli affari che lo distinguono dall'uomo d'affari non criminale ?”. A parere di chi redige, senza dover costantemente scomodare le neuroscienze, probabilmente il professionista che delinque patisce, in misura minima, dei disturbi della personalità, ma bisogna evitare il rischio di psicologizzare ipertroficamente la criminalità dei potenti sino al punto di ipotizzare infermità o seminfermità mentali scriminanti. Infatti, non tutte le patologie mentali escludono il deliberato consenso doloso. Pure Merzagora & Caruso & Morgante & Travaini (ibidem)[29] chiosano affermando che “sembrerebbe di palmare evidenza che spiegare in chiave di particolarità psicologiche o, peggio, psicopatologiche un comportamento che solitamente viene definito razionale sia per lo meno arduo, se non proprio logicamente impossibile”. A parere di chi scrive, il rischio, anche nell'ambito dello white collar crime, è quello di costruire una medicina forense onnipotente ed onnipresente che impedisce al Magistrato qualunque altra valutazione di matrice giuridica.
 

La psicologia del criminale dal colletto bianco

Il professionista che delinque non ha tratti psicopatologici, in tanto in quanto calcola bene vantaggi e svantaggi del proprio agire. Secondo Becker (1968)[30] il deviante economico applica la teoria dei costi/benefici, ovvero “secondo questo approccio, si sostiene che alla base di ogni comportamento e, quindi, anche di quello criminale, vi è un calcolo di tipo utilitaristico e, quindi, una componente assolutamente razionale […] Tutti fanno calcoli quando intraprendono un'attività, che siano professori o maniscalchi, e computano i ricavi e le perdite, come si fa con le attività illecite quali il furto, la corruzione o il crimine organizzato”. Dunque, come si può notare, Becker (ibidem)[31] nega ogni patologia mentale in capo al delinquente finanziario.

Del pari, Travaini (2008)[32] ribadisce che, con lucidità, il criminale dal colletto bianco valuta “i costi diretti, connessi all'organizzazione o all'esecuzione del reato; e quelli indiretti, collegati al rischio di essere individuati e condannati. Tra i costi del crimine suscettibili di valutazione sono pure da considerare il rimorso per la violazione dei valori etici, il contrasto con l'educazione civile e religiosa e l'eventuale compromissione dei legami affettivi”. Quindi, pure Travaini (ibidem)[33] nega il mito lombrosiano dello “psicopatico dietro alla scrivania”. Similmente, come affermano Ponti & Travaini (2000)[34], Becker è nella ragione allorquando sostiene che il professionista infrattore è talmente razionale da non delinquere o da delinquere di meno qualora la minaccia del carcere riesca a svolgere una funzione special-preventiva. All' opposto, l' infermo di mente pone in essere la recidiva senza alcuna calcolo dei costi e dei benefici. Anche nella Criminologia anglofona, gli Autori convengono sul fatto che che agisce lo white collar crime possiede una ben nitida consapevolezza del rischio di essere recluso in carcere.

Viceversa, Cornelli (2013)[35] ipotizza che, nel criminale dal colletto bianco, la traumatofilia raggiunga livelli patologici, in tanto in quanto “un approccio freddamente razionale può funzionare, a meno che il criminale economico non sia un patologico amante del rischio […] Taluni businessmens sono coinvolti in comportamenti delittuosi per amore del rischio o per la necessità di sentirsi costantemente stimolati ed eccitati”. La tesi di Cornelli (ibidem)[36] va considerata con molta cautela, dal momento che essa apre la strada a mitigazioni sanzionatorie per infermità/seminfermità mentale. Ipotizzare l'esistenza concreta di uno “psicopatico dietro alla scrivania” può condurre il Magistrato a valutare come minorata l'intensità della volizione dolosa.

Molti rei di white collar crime, per discolparsi, effettuano un rinvio al concetto di “lealtà” verso i superiori. Ovverosia, il professionista afferma sovente di aver agito per il bene della società o della banca e di aver ricevuto poche utilità “secondarie” al fine di non mettere in pericolo il patrimonio aziendale. La ratio della “lealtà” verso i datori di lavoro risulta meno credibile nelle fattispecie di peculati e di atti di malversazione, danneggianti l'intero sistema pubblico. In tal caso, spesso, l'infrattore/pubblico ufficiale corrotto tende a presentare lo Stato come un'entità impersonale, la cui lesione non tange, nel concreto, l'insieme dei consociati.

Anche Cressey (1953)[37] nega la rilevanza della psicopatologia nei crimini dei professionisti. Detto Autore precisa soltanto che “chi è investito di un ruolo professionale in cui la fiducia rappresenta un aspetto importante, la viola quando è in grado di applicare delle razionalizzazioni che gli permettono di giustificare ai propri occhi l'appropriazione delle somme o dei beni che gli sono stati consegnati, minimizzando il danno o negandolo tout court. Fra le possibili razionalizzazioni o neutralizzazioni c'è quella secondo cui: così fan tutti”. Come si può notare, di nuovo, pure Cressey (ibidem)[38] non utilizza la variabile della “patologia psichica” nel contesto dello white collar crime. Parimenti, Merzagora & Travaini & Pennati (ibidem)[39] hanno catalogato, in procedimenti penali per corruzione, molte espressioni auto-assolutorie come “ se non avessi operato in modo illegale, attraverso la corruzione, la mia azienda non sarebbe stata competitiva … Praticamente, guardi, lo facevano tutti … Questo lo facevano tutte le imprese”.

Viceversa, negli Anni Quaranta del Novecento, Cleckley (1941)[40] ha ipotizzato che il businessmen corrotto reca spesso una “mask of sanity”. Ovverosia, Cleckley (ibidem)[41] precisa che “il termine psicopatico rinvia, di solito, ad un soggetto preda di accessi d'ira, incapace di sopportare le frustrazioni e di contenere gli impulsi aggressivi. Ma non è sempre così. I tratti più rimarchevoli di taluni psicopatici sono la freddezza emotiva e la mancanza di empatia e di rimorso […] [Il criminale dal colletto bianco] ha una maschera, perché è uno psicopatico che si presenta immune da grossolani sintomi psichiatrici, neppure eccentrico. Egli è l'incarnazione della persona ben adattata; appare dotato di una solida salute mentale […] [Egli manifesta] fascino, buona intelligenza, egocentrismo, assenza di deliri, inaffidabilità, mancanza di sincerità, incapacità di rimorso e vergogna, mancanza di risonanza nelle relazioni interpersonali, condotta sessuale superficiale e scarsamente integrata, incapacità nel perseguire un progetto di vita”. Dunque, Cleckley (ibidem)[42], per la prima volta nella storia della Criminologia, afferma la possibile esistenza di patologie psichiche in capo al responsabile di white collar crime. Finalmente, cadeva la “mask of sanity” recata dal professionista corrotto o corruttibile. Il summenzionato Autore, nel 1941, smentiva Lombroso e negava che il lemma “psicopatologia” dovesse essere riservato esclusivamente ad infrattori violenti, caratterizzati da “scoppi di rabbia, esplosività e crudeltà”. Cleckley (ibidem)[43] sostiene che i responsabili di criminalità economica “sono in assoluto i manipolatori, i bugiardi ed i falsificatori di verità più abili al mondo. E sono così convincenti perché sono i primi a credere alle proprie bugie”.

Negli Anni Settanta del Novecento, anche Hare (1994)[44] parlava di “delirio mentale” nei colletti bianchi, in tanto in quanto “taluni psicopatici sono mentitori patologici ed esperti manipolatori, al punto da risultare persone affascinanti, carismatiche, popolari, ammirate. Gli psicopatici si sentono in diritto di essere come sono, non trovano niente che non vada in loro e, semmai, danno la colpa agli altri per le conseguenze delle proprie azioni”. Negli USA, gli uomini d'affari dediti ai crimini finanziari sono stati pure definiti “psicopatici di successo”, in tanto in quanto il loro autocontrollo e la notevole disponibilità di Avvocati consentono ai medesimi di evitare quasi sempre il carcere.

Analogamente, Christie & Geis (1970)[45] affermano che “il machiavellismo è la propensione [patologica, ndr] a manipolare gli altri per raggiungere i propri scopi. […] Ed esistono molte caratteristiche che lo avvicinano alla psicopatia, cioè poco o nullo coinvolgimento nelle relazioni interpersonali; scarsa considerazione per la morale, sostituita da un atteggiamento meramente utilitaristico; utilizzo di adulazione e inganno nei confronti degli altri; assenza di grossolana patologia e semmai spiccata razionalità; basso impegno ideologico, surrogato da una visione incentrata sul presente o di breve periodo; modesta inibizione nei rapporti sociali; cinismo; desiderio di potere”. Similmente, Verbeke & Ouwerkerk & Peelen (1996)[46] hanno osservato che il machiavellismo psicopatologico si caratterizza “per il basso livello etico delle decisioni che il soggetto assume”. Negli Anni Duemila, Boddy (2011)[47] ha coniato l'espressione “psicopatici aziendali” ed è giunto ad asserire che “alcuni psicopatici sono violenti e finiscono in carcere, altri costruiscono le loro carriere nelle aziende”. Boddy (ibidem)[48], nel proprio Censimento criminologico, ha riscontrato tratti mentali patologici in ben 346 colletti bianchi australiani, di cui 119 occupanti cariche dirigenziali. E', dunque, smentito il mito lombrosiano dello squilibrato povero, sporco e brutalmente violento.

 

[1]Ponti & Merzagora Betsos, Compendio di criminologia, 5a edizione, Raffaello Cortina, Milano, 2008

[2]Ponti & Merzagora Betsos, op. cit.

[3]Merzagora & Travaini & Pennati, Colpevoli della crisi ? Franco Angeli, Milano, 2016

[4]Merzagora & Travaini & Pennati, op. cit.

[5]Merzagora & Caruso & Morgante & Travaini, Lo psicopatico dietro la scrivania, in Rassegna italiana di Criminologia, 10, 1, 2016

[6]Ruggiero, Perché i potenti delinquono. Feltrinelli, Milano, 2015

[7]Ruggiero (ibidem), op. cit.

[8]Ruggiero (ibidem), op. cit.

[9]Helmkamp & Ball & Townsend, (a cura di), Definitional Dilemma: Can and Should There Be a Universal Definition of White Collar Crime ? National White Collar Crime Center, Morgantown, WV, 1996

[10]Punch, Dirty Business. Exploring Corporate Misconduct, Analysis and Cases, Sage Publications, London, 1999

[11]Punch (ibidem), op. cit.

[12]Ceretti & Merzagora, (a cura di), La criminalità dei colletti bianchi e altri scritti. Unicopli, Milano, 1986

[13]Merzagora & Travaini & Pennati (ibidem), op. cit.

[14]Merzagora & Travaini & Pennati (ibidem), op. cit.

[15]Martucci, L'omicidio nella criminalità economica: caso limite od opzione strategica ? Rassegna italiana di Criminologia, 2, 2011

[16]Barbieri & Travaini & Caruso & Ciappi & Merzagora, La morte di Michele Sindona: l'autopsia psicologica come risorsa in un caso storico, in Rassegna italiana di Criminologia, 2, 2019

[17]Martucci (ibidem), op. cit.

[18]Kerner & Mack, Delitto organizzato e delitto professionale: un approccio comparativo, in Quaderni di Criminologia clinica, 4, 1975

[19]Kerner & Mack, op. cit.

[20]Quinney, The Problem of Crime, Dodd/Mead, New York, 1970

[21]Punch (ibidem), op. cit.

[22]Merzagora & Caruso & Morgante & Travaini (ibidem), op. cit.

[23]Di Nicola, La criminalità economica organizzata: implicazioni di politica criminale, in Rivista trimestrale di diritto penale dell'economia, 2002

[24]Di Nicola (ibidem), op. cit.

[25]Di Nicola (ibidem), op. cit.

[26]Weisburd & Waring, White Collar Crime and Criminal Careers, Cambridge University Press, Cambridge, 2001

[27]Sgubbi, Il reato come rischio sociale. Ricerche sulle scelte di allocazione dell'illegalità penale, Il Mulino, Bologna, 1990

[28]Merzagora & Caruso & Morgante & Travaini (ibidem), op. cit.

[29]Merzagora & Caruso & Morgante & Travaini (ibidem), op. cit.

[30]Becker, Crime Punishment: An economy approach. In Journal of Political Economy, 2, 1968

[31]Becker (ibidem), op. cit.

[32]Travaini, L'approccio economico-razionale. In Ponti & Merzagora Betsos (a cura di), Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina, Milano, 2008

[33]Travaini (ibidem), op. cit.

[34]Ponti & Travaini, L'approccio economico-razionale di Becker. Una possibile via per comprendere la criminalità, in AA.VV., Studi in ricordo di Giandomenico Pisapia, Vol. 3, Criminologia, Giuffrè, Milano, 2000

[35]Cornelli, Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica. Feltrinelli, Milano, 2013

[36]Cornelli (ibidem), op. cit.

[37]Cressey, Other's People Money. A Study in the Social Psychology of Embezzlement, Free Press, New York, 1953

[38]Cressey (ibidem), op. cit.

[39]Merzagora & Travaini & Pennati (ibidem), op. cit.

[40]Cleckley, The Mask of Sanity: An Attempt to Reinterpret the So-Called Psychopatic Personality, Mosby, Oxford, 1941

[41]Cleckley (ibidem), op. cit.

[42]Cleckley (ibidem), op. cit.

[43]Cleckley (ibidem), op. cit.

[44]Hare, Predators: The disturbing world of the psychopaths among US, in Psychology Today, 27, 1, 1994

[45]Christie & Geis, (a cura di), Studies in Machiavellianism. Academic Press, New York, 1970

[46]Verbeke & Ouwerkerk & Peelen, Exploring the contextual and individual factors on ethical decision making of salepeople. In Journal of Business Ethics, 15, 11, 1996

[47]Boddy, Corporate Psychopaths. Organizational Destroyers. Palgrave Macmillan, London, 2011

[48]Boddy (ibidem), op. cit.