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Brevi considerazioni critiche a proposito della c.d. carriera alias

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Brevi considerazioni critiche a proposito della c.d. carriera alias

Da qualche tempo, come è stato riportato anche dagli organi di stampa, scuole e università avrebbero adottate procedure interne finalizzate a «liberare» gli iscritti dalle loro stesse generalità.

Si tratta, al di là della battuta, di provvedimenti i quali, ai fini dell’iscrizione e ai fini della carriera curricolare, consentirebbero agli studenti di eleggere, per sé stessi, il nome e il genere che essi medesimi preferiscono, e ciò… indipendentemente dal loro stesso nome anagrafico e indipendentemente dal loro stesso sesso biologico-anatomico, così come riportati dagli atti dello stato civile in conformità alla vigente normativa [1].

 Si tratta – lo annoto a scanso di equivoci – di una fattispecie diversa da quella (pur non scevra da problemi) sub L. 164/1982.

Ciò significa che l’Istituzione scolastica o universitaria, sulla base di un proprio provvedimento interno del quale non è dato conoscersi l’addentellato normativo-positivo, verrebbe a istituire una sorta di doppio binario in ordine all’identità anagrafica dell’iscritto: egli avrebbe, infatti, qualora richiedesse l’attivazione di siffatte procedure, un nome e un sesso per lo stato civile e un altro nome e un altro sesso per la carriera scolastica o universitaria.

E già verrebbe da domandarsi en passant se la personalità dell’individuo, ovverosia la di lui soggettività giuridica, sia essa in qualche modo sdoppiabile attraverso un arbitrario sdoppiamento dell’identità…

Di questo, le scuole e le università in parola (particolarmente quelle provinciali, dalla meno significativa tradizione) se ne sarebbero fatte gran vanto, con tanto di titoli a caratteri cubitali sulla stampa, fotografie a corredo, cartelloni e manifesti dal dubbio gusto (innanzitutto estetico) sulle facciate degli edifici, motti e «parole d’ordine» di regime ovunque disseminati, meno poetici, forse, rispetto a quelli un po’ âgée del Duce, ma compartecipi delle medesime (esecrabili) finalità propagandistiche.

Si tratta di una storia già raccontata: è l’ideologia che, come sempre, per affermare sé stessa, si pone e si impone quale verità e quale sapere assoluti; così relegando ogni dissenso nel campo dell’ignoranza e del pregiudizio ed evitando, prima ancora del confronto, lo stesso problema fondativo.

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Non è dato di sapersi quali siano le ragioni alla base di tali provvedimenti. Le ragioni vere, intendo dire, al di là delle formule più o meno vacue, le quali richiamano generici riferimenti a non meglio qualificate forme di libertà e di identità.

Ovviamente la matrice è liberal-radicale, come vedremo, ma il punto non è questo o non è solo questo...

Al di là di parossistiche tensioni verso forme alquanto stucchevoli di politicamente corretto, temo non sia arbitrario ipotizzarsi che, mancando sostanziali ragioni di «attrattiva» sul piano formativo, scientifico e dottrinale, e mancando una vera e propria qualità dell’Istituzione, data dall’autorevolezza del Corpo docente, dal rigore di un insegnamento robusto, da una valutazione severa in sede d’esame e da una selezione serrata che siano veramente formativi della persona e dello studente, tali espedienti siano da imputarsi a forme di discutibile ricerca di pubblicità; al tentativo, in altri termini, di conquistare, se non la prima pagina, almeno qualche trafiletto sulla stampa locale, e così di attrarre qualche iscritto in più, anzi… qualche entrata in più, proveniente dai cc.dd. diritti di iscrizione e da altre forme di finanziamento assurdamente parametrate alla quantità degli iscritti (e dei promossi) piuttosto che alla qualità della didattica (e della formazione-selezione).

È chiaro, però, che qualora l’iscrizione al corso di studii avvenisse sulla base di questi aspetti, ed essa fosse favorita da queste dubbie provvidenze amministrative, molto sarebbe da domandarsi innanzitutto sulla motivazione e sulla maturità intellettuale degli iscritti, eppertanto sulla loro qualità di studiosi, dal momento che l’iscrizione a un corso dovrebbe essere motivata essenzialmente, se non esclusivamente, da un serio interesse per la materia e da un profondo desiderio di indagarla e conoscerla, al di là, anzi indipendentemente, dai dati anagrafici riportati sul libretto personale e dalla loro rispondenza o meno a non meglio precisabili ed estemporanee sensazioni personali. Altra, invero, è la funzione della scuola (e dell’università) e altra quella dei centri di ascolto attuati presso consultorii o Istituti di psicologia.

Che poi tutto ciò avvenga anche con la connivenza, più o meno patente e più o meno convinta, di docenti autorevoli sul piano scientifico e organicamente strutturati all’interno dell’Istituzione di riferimento, quindi virtualmente liberi da condizionamenti esterni, sia ideologici, sia di carriera, ciò dà conto di una radicale, pericolosa e profonda decadenza generale (la quale è morale, prima ancora che scientifico-formativa), dalla quale difficilmente ci si potrà risollevare. E anche se sarebbe da auspicarsi un energico e risolutivo intervento a livello centrale (cioè innanzitutto ministeriale) – non facile, peraltro –, non è detto che esso possa sortire gli effetti sperati, sovrattutto considerando – e non taccio a proposito un filo di amarezza – che non si sottraggono a tali pratiche nemmeno Istituzioni universitarie tra le più prestigiose e autorevoli, d’indiscussa fama… fama – mi permetto chiosare – che gl’antichi maestri hanno faticosamente conquistata per ben altri meriti e con ben diversi mezzi.

Altri tempi, si dirà; ma io credo sia più corretto dire… altri uomini!

Aveva peraltro ragione Manzoni: “il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”; e la stessa cosa può dirsi con riguardo alla libertà, intesa in senso forte (classicamente), del quale il coraggio appunto ne è analogato.

Intelligentibus, pauca

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Il punto, tuttavia, non concerne queste miserie, anche se esse sono più eloquenti e più gravi di quanto icti oculi possa apparire. Il punto concerne tre aspetti direi fondativi: la natura del corpo umano; l’essenza e le funzioni delle cc.dd. generalità personali; il problema della identità in rapporto alla volontà. Vi sarebbe anche un quarto punto, a dire il vero, il quale tenderebbe a richiamare alla mente alcuni rudimenti della c.d. parte speciale del diritto penale: esso concernerebbe infatti il problema della falsità ideologica in atto pubblico (ex artt. 479 c.p. et 483 c.p.); quello della sostituzione di persona (ex art. 494 c.p.); quello delle false generalità (ex art. 495 c.p.) et coetera, ma forse esse restano questioni relegate al ciarpame delle cose vecchie e alla loro grigia nostalgia.

E con nostalgia di un tempo che peraltro non ho personalmente vissuto, mi domando: dove sono le Procure?

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Prima di tutto, comunque, bisogna capire se il corpo umano, la sua fisiologia, la sua anatomia, l’ordine del suo organismo siano dati oggettivi e oggettivabili, quindi conoscibili in sé e per se, per quello che essi sono in realtà, o se essi siano viceversa il prodotto o l’effetto di una convenzione lato sensu sociale, storica, culturale, geografica, ovvero il risultato, più o meno provvisorio, di un volutum dell’individuo medesimo che decide per sé stesso il come del proprio corpo, il modo della sua fisiologia, l’ordine anatomico del suo organismo et similia.

Credo che resti fuori da ogni possibilità di dubbio, compreso quello metodico di Cartesio, il dato secondo il quale il sesso di un vivente dipende essenzialmente ed esclusivamente dalla sua anatomia, vale a dire dal suo essere maschio o femmina in virtù e in ragione del di lui apparato genitale.

Credo resti fuori da ogni possibilità di dubbio, peraltro, anche il dato secondo il quale l’anatomia umana normale non dà conto di un tertium genus tra l’uomo e la donna.

Che poi l’anatomia patologica possa anche evidenziare problemi o anomalie legati al c.d. apparato genitale, esso è un diverso discorso, il quale appunto concerne la patologia e non la fisiologia e il quale, se rileva in ordine agl’aspetti prima considerati, punto rileva per confermarli e non già per smentirli. Lo stesso dicasi peraltro in ordine alla percezione eccentrica che la persona abbia o possa avere di sé, ovvero in ordine agli stimoli anomali cui ella possa risultare intimamente sollecitata e ai disturbi o alle devianze che la possano concernere sul piano psichico: nulla quaestio sul dato diagnostico, ma esso resta appunto diagnostico, cioè ricognitivo rispetto a una forma di disordine, non già evocativo di un ordine diverso da quello proprio della fisiologia psico-fisica dell’organismo.

E anche restando, per aderenza al tema, alla questione concernente i caratteri sessuali, ritengo possa bensì ampliarsi il discorso a ogni aspetto dell’anatomia umana normale: la posizione e la funzione del cuore, per esempio, come anche quelle dei polmoni, dell’encefalo, dell’apparato digerente et coetera, altrettanto palesano la verità di un ordine non convenzionale e non opinabile, come non opinabile è la loro fisiologia ed eventualmente la loro patologia. Anzi possiamo dire che patologia e fisiologia hanno un senso, proprio ed essenzialmente in quanto esse dànno rispettivamente conto dell’ordine e del disordine dell’organismo su di una base eminentemente oggettiva, come appunto oggettivo è il bene della salute e il male della patologia. Sensazioni, opinioni, impulsi, stimoli et coetera non rilevano sotto questi profili.

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Peraltro, qualora si neghi che sia il sesso a identificare il maschio e la femmina e a discernerli secondo un’inconciliabile dicotomia anatomica, non sarebbe dato di sapere che cosa possa effettivamente identificarli e distinguerli sul piano dell’oggettività. Se poi si opinasse l’assurda assenza di distinzione sostanziale tra maschio e femmina, relegando la stessa ad aspetti lato sensu culturali, emotivi et coetera, occorrebbe tosto spiegare la ragione stessa del dimorfismo anatomico e le diverse funzionalità biologiche dell’uno e dell’altra in ordine al fenomeno riproduttivo e non solo.

In altri termini, se il sesso dipendesse dall’opinione, vale a dire dalla c.d. identità di genere, cioè dal modo nel quale una persona si sente di essere in punto di sessualità, occorrebbe dire come mai due maschi, dei quali uno si senta femmina, ovverosia due femmine, delle quali una si senta maschio siano geneticamente e costitutivamente incapaci di procreare tra loro, pur essendo ambedue sani e fertili secondo l’ordine proprio dei rispettivi organismi. A allo stesso modo, peraltro, occorrebbe dire come mai la femmina che si senta maschio conservi la propria dote cromosomica e non la cambi secondo la di lei sensazione, come non cambia la sua il maschio che si senta femmina…

La verità, infatti, con buona pace di ogni relativismo e con buona pace di ogni inclusione, depone a favore dell’opposta tesi: il sesso non è né un’opinione, né una sensazione, né un fatto di identità, quanto piuttosto esso invera un dato anatomico oggettivo proprio del corpo, ed è segnatamente quest’aspetto che lo rende in sé normativo e regolativo in ordine alla stessa identità della persona. Non è quindi predicabile la tesi dell’identità di genere, ovverosia dell’identità che definisce il genere per effetto di una preminenza concettuale della psicologia sull’anatomia, ma è oppostamente il genere anatomico a stabilire l’ordine dell’identità sessuale sotto il profilo psicologico. Per opinare al contrario, senza fare dell’ideologia e senza scendere nel patetico, occorre prima rispondere alle precedenti questioni.

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L’apparato genitale, pertanto, come l’organismo umano nel suo complesso, non è un mobile componibile e scomponibile indifferentemente secondo il movimento della volontà del soggetto; non è esso qualche cosa che dipenda dalla sensazione personale e che, come e con la sensazione personale possa mutare e possa assumere qualsiasi dimensione, forma, struttura, contenuto et coetera. L’apparato genitale, per restare al tema in narrativa, infatti, palesa i caratteri suoi proprii ed esso è maschile o femminile a seconda di questi caratteri, così conferendo l’uno o l’altro sesso alla persona di riferimento, senza che a ciò concorrano altri e differenti aspetti e senza che altri e differenti aspetti – quelli psicologici, intendo dire – possano in qualche modo cangiarne la natura. L’apparato genitale, dunque, attiene all’anatomia ed esso dà conto di un dato appunto anatomico, non dipende dalla psicologia, né attiene a questa o palesa un aspetto della stessa, soggettivamente considerato o considerabile in casibus.

Peraltro – lo annoto ad abundatiam – il dato anatomico, cioè il dato legato alla forma del corpo e alla struttura dei suoi organi, il quale, per quanto ci interessa, determina il c.d. sesso fenotipico, determina anche il dato, altrettanto oggettivo, concernente il c.d. sesso genetico. Quest’ultimo, infatti, deriva dai cc.dd. cromosomi sessuali, i quali nel maschio e nella femmina naturalmente differiscono (xx per le femmine, xy per i maschi), proprio in virtù dei diversi apparati genitali ed endocrini che ne caratterizzano i rispettivi organismi e ciò comporta le note conseguenze in termini di equilibrio ormonale e di funzionalità biologica.

Ovviamente ciò non significa che non possano darsi discrasie tra sesso (anatomico) e c.d. identità di genere, cioè tra ciò che la persona è sul piano anatomico-fisico dell’apparato genitale – maschio o femmina –, e ciò che ella sente di essere attraverso un processo psichico di auto-identificazione: i piani del ragionamento sono però differenti, giacché il primo piano attiene – come detto – all’anatomia (al ciò che è), mentre il secondo attiene alla psicologia (al ciò che si sente), e in punto d’identità fisica, cioè in punto di identità che qualifica oggettivamente e discerne l’individuo, è la prima a dettare norma, non la seconda, anche perché, a dire il vero, la seconda resterebbe sempre e inevitabilmente prigioniera di un’intimità psichica, più o meno palese, più o meno stabile, più o meno volubile.

Allo stesso modo quanto testé rilevato non significa che non vi possano essere anomalie genetiche o fisiche in virtù delle quali il c.d. sesso fenotipico non corrisponda al sesso cromosomico (per esempio in medicina è nota la c.d. sindrome di Morris), o che non vi possano essere anomalie o disturbi concernenti l’apparato endocrino, e dunque la produzione di ormoni, la loro funzionalità o il loro equilibrio, proprio dovute ad alterazioni dell’ordine fisiologico lato sensu attinente all’apparato riproduttore, cosicché l’equilibrio della sessualità individuale venga compromesso o perturbato con conseguenze patologiche tra le più diverse a seconda dei casi. Anche sotto questo profilo, però, si tratta di considerazioni le quali non vanno a detrimento della tesi generale che ho cercato di sostenere, quanto piuttosto esse la rafforzano: si dà e si riconosce, infatti, la contingenza di una patologia, di uno squilibrio, proprio in virtù della fisiologia, senza l’ordine della quale non potrebbe infatti diagnosticarsi alcuna forma di disordine.

La cosa, però, a ben vedere, e fatte le dovute distinzioni, non vale solo per il sesso: una persona, per esempio, può ritenere di soffrire una determinata patologia cardiaca e invece essere perfettamente sana, come la stessa persona, all’opposto, può avvertire un senso di benessere e invece soffrire una patologia c.d. silente o asintomatica.

Invero, altra è la sensazione psicologia e altra è la realtà!

Altro, infatti, è ciò che è sotto il profilo anatomico-fisico, e altra è la percezione che si può avere del proprio corpo per le più disparate ragioni: il primo è un dato oggettivo, il secondo dipende da molti fattori, appunto psicologici, i quali possono variare sulla base di diversi aspetti; tra questi vi possono rientrare senz’altro la sensibilità, il carattere, i gusti personali, i condizionamenti sociali, le emozioni, i disturbi psichiatrici et similia. Ovviamente… tra le percezioni o le sensazioni psicologiche occorre a loro volta distinguere quelle sane o ininfluenti sotto il profilo della salute psichiatrica della persona, da quelle che all’opposto rappresentano e inverano veri e proprii sintomi, più o meno latenti, di autentiche patologie.

Ciò che mette capo alla questione – e mi limito a meri cenni, consapevole che la cosa andrebbe approfondita – è comunque rappresentato dalla necessità di non confondere l’anatomia con la psicologia e di non far derivare l’ordine della prima dal movimento della seconda.

Anzi, a ben intendere le cose è sempre l’anatomia a rappresentare il termine di giudizio e di valutazione oggettivi della psicologia, o comunque del dato o dell’aspetto psicologico; il quale ultimo, infatti, è sano ed esso è – se così posso dire – fisiologico e normale quando coincida con la prima, vale a dire quando le sensazioni, le emozioni, l’atteggiamento et coetera della persona siano effettivamente coerenti con l’ordine oggettivo del suo stesso corpo. Viceversa il dato psicologico risulta problematico o anomalo quando esso esprima un coacervo di sensazioni o di percezioni difformi in tutto o in parte dalla realtà o che addirittura la ricusino, neghino di riconoscerla, né impugnino l’obbiettività sostanziale et similia.

Per esempio, al di là delle questioni attinenti al sesso, se una persona oggettivamente sana avvertisse di essere gravemente ammalata e se ciò la facesse vivere una condizione di ansia, di insicurezza di disagio et coetera, della stessa giustamente si direbbe, sul piano psicologico, che ella soffre di ipocondria, giacché le di lei sensazioni e le di lei emozioni – posso anche dire la di lei «identità clinica» – differirebbero dalla realtà e dall’oggettività del suo stesso organismo. Lo stesso vale – faccio un ultimo esempio – per i casi di c.d. dermatillomania, ovverosia quando la persona avverta, per aberrazione psicologica, un’ingiustificata sensazione di prurito che la spinge a escoriarsi la pelle per grattamento, pur non soffrendo ella nessun disturbo dermatologico o di altra natura. Anche in questo caso la sensazione psicologica differisce dalla condizione anatomica esprimendo una coorte di problematicità del tutto assenti sul piano oggettivo, eppertanto dando conto di un problema, o comunque di un’anomalia, a livello psichiatrico.

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In punto di strettissimo diritto la questione non è meno rilevante.

È vero che il diritto conosce la persona quale soggetto – solo richiamo Rosmini che la definì “diritto sussistente” –, ed è vero che la capacità giuridica della persona medesima non dipende, come anche la di lei capacità di agire, dal sesso della stessa. Sotto questo rispetto, infatti, il carattere sessuale rappresenta un mero accidenti, e guai a farlo diventare un costitutivo della soggettività[2].

È altrettanto vero, però, che il carattere sessuale, se pur esso non leva e non mette in punto di soggettività o di capacità di agire, esso stesso dà conto di un aspetto alla stessa soggettività intimamente connesso, e non ininfluente per certuni aspetti del diritto. Si tratta dell’identità personale che ne è analogato.

La personalità o capacità giuridica, infatti, identifica sì la natura del soggetto in rebus iuris, ma il soggetto a sua volta dev’essere ancora identificato e distinto dagli altri soggetti in ragione degli elementi oggettivi che lo discernono sul piano fisico, sociale, familiare, personale et coetera. Altro è infatti il tema della soggettività o personalità e altro è quello dell’identità personale, anche se, come detto, tra i due vi è un’intrinseca connessione concettuale, tant’è vero che  condicio sine qua non della seconda, cioè dell’identità, è il riconoscimento della prima, cioè della soggettività. Solo il soggetto, infatti, ha un’identità stricto sensu intesa.

La persona umana, infatti, il soggetto che è soggetto di e al diritto, proprio in quanto essere umano, come altrove ho cercato di dimostrare (per brevità faccio un mero rinvio al mio ultimo Diritto e “nuovi” diritti. L’ordine del diritto e il problema del suo fondamento attraverso la lettura di alcune questioni biogiuridiche, Torino, Giappichelli, 2021), non è una res la quale si identifica per determinati caratteri lato sensu merceologici, per il peso, per la dimensione, per la funzione, per una precipua utilità et coetera, piuttosto ella si identifica e si qualifica attraverso il nome, attraverso il nome proprio che è prerogativa assoluta di lei in quanto persona; possiamo anche dire, con formula più corretta, in quanto soggetto dotato di capacità giuridica ex art. 1 c.c..

Solo la persona umana, infatti, ha un nome propriamente e tecnicamente detto, comprensivo di prenome e cognome giusta il disposto del art. 6 co. II c.c.; e solo la persona umana si identifica e si riconosce per effetto e in virtù di questo. Oltre che per ovvie ragioni di diritto naturale, infatti, a mente del citato art. 6 co. I c.c., “ogni persona ha diritto al nome, che le è per legge attribuito” e il diritto al nome è un diritto intimamente connesso alla soggettività dell’individuo, al suo essere appunto persona, tant’è vero che alcuni Autori fanno rientrare il citato diritto al nome, tra l’altro richiamato anche dall’art. 22 cost., tra i cc.dd. diritti della personalità.

Il nome, dunque, non è un carattere o segno elettivo della persona, un quid che la persona determina per sé e ad nutum secondo ciò che ella voglia e senta per sé, ma è ciò che ne attesta la soggettività e come la soggettività esso “le è per legge attribuito”. Non entro ora nel merito della questione legata al problema del fondamento della legge, poiché esso mi porterebbe fuori tema e allungherebbe troppo la trattazione. Rinvio a quanto già altrove osservato.

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Legato al nome poi è il carattere sessuale. Ogni persona, infatti, nasce e viene identificata in virtù del nome che dipende dal sesso, appunto essendovi nomi maschili per i maschi e nomi femminili per le femmine (vi sono alcune eccezioni, in verità, ma esse non incidono sulla questione in narrativa; per esempio si hanno i cc.dd. nomi epiceni o promiscui e i cc.dd. secondi nomi che in taluni casi possono non seguire la regola del genere, pel prevalere d’un diverso principio).

Oltre al buon senso la cosa è palesemente sancita dall’art. 35 del D.P.R. 396/2000 così come modificato dall’art. 5 co. II. della L. 219/2012, a mente del quale “il nome imposto al bambino  deve  corrispondere al sesso”. Dunque gli identificativi soggettivi dell’essere umano sono nome e sesso; essi sono coessenti e coessenziali, giacché il nome dipende dal sesso e il sesso si palesa (anche) attraverso il nome che identifica il dato soggetto. Considerando i cenni prima fatti, allora, possiamo concludere che se il nome  è analogato della soggettività, esso lo è anche sotto il profilo dell’identificazione sessuale. Ciò non significa – lo ribadisco – che la soggettività dipenda dal sesso, quanto piuttosto significa che il dato oggettivo della soggettività implica che il nome del soggetto corrisponda al sesso di lui.

Altri identificativi, i quali parimenti potrebbero rilevare sotto il profilo della identità, sono la data di nascita, eventualmente la paternità e la maternità – anche se oggi esse sono pressoché scomparse dai formularii amministrativi – la residenza, lo stato civile et coetera, di questi, però, non è mestieri di occuparsi ora in quanto attengono a un diverso ordine di questioni.

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Posto che il nome identifica la persona e posto che esso la identifica secondo il sesso fenotipico-anatomico che ella ha, e col quale ella è nata, occorre vedere se il diritto al nome sia esso un diritto disponibile, cioè un diritto in ordine al quale la persona possa operare qualunque opzione per le finalità dalla stessa elette secondo quel movimento della libera  autodeterminazione, il quale parrebbe richiamare il movimento di personalizzazione mounieriano.

Ebbene, già i richiami normativi prima proposti credo depongano a favore della tesi negativa, sia sotto il profilo penale, sia sotto il profilo civile, sia sotto il profilo amministrativo. Sol leggendo, invero, il combinato disposto tra l’art. 35 del D.P.R. 396/2000 e l’art. 494 c.p., a tacere d’ogni altro pur eloquente riferimento, risulterebbe che la persona non abbia diritto di imporre a sé medesima il nome che ella preferisce, per i fini che ella stessa elegge e nell’ambito delle circostanze che secondo la sua personale opinione le suggeriscono l’uso di una nuova identità o di più identità differenti tra loro.

Tantomeno credo sia legittima l’indicazione in atti pubblici, o comunque in documenti fidefacenti, di generalità alterate e non corrispondenti a quelle riportate nei registri dello stato civile; se così non fosse, invero, occorrebbe spiegarsi quale sia lo spettro applicativo della stessa disciplina dettata dall’art. 483 c.p., che punisce il falso ideologico del privato in atto pubblico; di quella dell’art. 479 c.p. che punisce la falsità ideologica del pubblico ufficiale, e specialmente di quella dell’art. 495 che punisce la falsa attestazione del privato sulla propria identità o sulle proprie qualità personali.

Che poi – e resto sul piano della stretta legalità positiva – alla legge possa derogarsi in forza di provvedimenti dalla dubbia legittimità, adottati da parte di organi scolastici o accademici, attraverso procedure dagli stessi elaborate per sé, e sicuramente eccedendo anche i limiti delle proprie competenze, anch’essa è questione di non poco momento, la quale dovrebbe sollecitare soverchie riflessioni ed energici provvedimenti dell’Autorità, salvo ammettersi che agli organi scolastici o accademici in parola competano prerogative di disciplina dello stato civile delle persone e della loro identità.

La cosa però mi sembra contrastare col disposto dell’art. 89 del D.P.R. 396/2000, il quale testualmente recita “chiunque  vuole cambiare il nome […] deve farne domanda al prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello nella cui  circoscrizione  è situato l’ufficio dello stato civile dove si trova l’atto di nascita al quale la richiesta si riferisce”. Non solo, ma anche considerando il problema sotto il profilo delle rettificazioni, cioè sotto il profilo inerente le cc.dd. pratiche transessualiste, pur mutando il termine normativo di riferimento, resta comunque esclusa una competenza in tale senso della scuola o dell’università. L’art. 1 della L. 164/1982, infatti, prevede che “la rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale  passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso  da  quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”.

Già questo basterebbe. Ribadisco allora la domanda di prima: dove sono le Procure? E aggiungo: dov’è il Ministero?

Considero in epilogo un’ultima cosa: essa riguarda la Giurisprudenza di legittimità. Ricordo, innanzitutto, che la Giurisprudenza, per quanto autorevole, non è essa fonte del diritto – come si direbbe in termini di rigoroso positivismo – né essa è altrimenti vincolante per gli stessi Giudici. Ebbene, la Cassazione – come è noto – con la pronunzia № 3877/2020 ha affermato che “l’attribuzione del nuovo nome […] consegue necessariamente all’attribuzione di sesso differente, al fine di evitare una discrepanza inammissibile tra sesso e nome”, e anche se tale pronunzia contraddice in parte la sentenza № 15138/2015, dove veniva affermato all’opposto che la rettificazione del nome poteva essere accordata anche prescindendo dall’intervento chirurgico di adeguamento (estetico) dei caratteri sessuali, l’ultima decisione della Corte aggiunge un motivo di censura in più alle prassi qui considerate.

È chiaro, però, che qualora si confermasse la pratica secondo la quale nome e sesso sono liberamente eleggibili dalla persona, a seconda dei varii contesti di riferimento – per quanto qui rileva dallo studente nella scuola o nell’università – ben presto si dovranno fare i conti con una pluralità di identità personali in ambiti anche molto diversi tra loro.   

Note

[1] Come è stato recentemente annotato (cfr. L’abolizione per norma della famiglia naturale, in Instaurare omnia in Christo, Udine, Comitato Iniziative ed Edizioni Cattoliche, 2022, LI, 1, Gennaio – Aprile 2022, p.8) “nessuno ha preso in considerazione l’«abolizione» per norma – per norma positiva dello Stato – della famiglia naturale. L’«abolizione» è stata decretata dalla Germania la quale considera la famiglia una «realtà culturale», esclusivamente culturale, di nessun rilievo naturale […]. Tanto che, come ha scritto qualche autore, ora i parenti si possono scegliere. I legami, i legami naturali, pertanto, dipendono dalle opzioni soggettive, sia quelli fra padri e figli sia quelli fra fratelli. La famiglia, in Germania, è stata così trasformata in una «comunità di responsabilità» (Verantwortungsgemeinschaft). A ognuno è «riconosciuto» il diritto di essere quello che vuole essere e, perciò, di vivere nella «famiglia» che vuole avere. Si tratta di un’ulteriore applicazione del cosiddetto principio di autodeterminazione assoluta.”. E ciò dà conto di un processo, non solo interno al c.d. Ordinamento europeo, proprio teso a «liberare» la persona anche dai vincoli naturali – quelli che derivano dall’anatomia del corpo, per restare al tema in narrativa, ma anche quelli familiari stricto sensu – i quali dipendono dagli stessi processi biologici della vita.

[2] Altra, per esempio, è la ditta che identifica l’impresa (art. 2563 c.c.); altro il marchio che identifica il prodotto (art. 2569 c.c.); altra la ragione sociale che individua la società (art. 2292 c.c.) et similia. Si tratta pur sempre di identificati che la norma riconosce e tutela in ragione delle rispettive funzioni perlopiù economico-commerciali, ma essi non assurgono alla dignità del nome, proprio in quanto la loro disciplina non riflette il principio della soggettività o capacità di diritto che compete all’essere umano soltanto.