Empatia, la chiave mancante: come la comprensione dell’altro può prevenire ogni forma di abuso

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Empatia, la chiave mancante: come la comprensione dell’altro può prevenire ogni forma di abuso

 

Di fronte a un’escalation globale di abusi – fisici, psicologici, sociali – l’empatia emerge come l’antidoto culturale più sottovalutato. Ma è davvero praticata?

In un’epoca segnata da crescenti tensioni sociali, disuguaglianze e fenomeni di violenza diffusa, la parola “empatia” è sempre più presente nel dibattito pubblico. Ma se ne parla più di quanto la si pratichi. Secondo un report dell’UNICEF (2023), oltre 1 miliardo di bambini nel mondo è esposto ogni anno a qualche forma di violenza fisica, sessuale o psicologica. In Europa, l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ha rilevato che il 33% delle donne ha subito abusi fisici o sessuali almeno una volta nella vita. L’empatia, intesa come capacità di comprendere e condividere le emozioni altrui, può essere un potente strumento preventivo.

Il deficit empatico è un problema educativo e sociale

Uno studio della University of Michigan ha evidenziato che i livelli di empatia tra i giovani universitari americani sono diminuiti del 40% negli ultimi trent’anni. Le cause? L’aumento dell’individualismo, la riduzione dell’interazione diretta a favore di quella virtuale e la pressione costante delle performance personali. Questo declino si riflette in una maggiore difficoltà a riconoscere il dolore altrui – una delle condizioni che spesso precede situazioni di abuso, bullismo o indifferenza.

In Italia, il Ministero dell’Istruzione ha avviato nel 2022 un piano pilota per inserire l’educazione all’empatia nei programmi scolastici primari. I primi risultati, pubblicati nel 2024, hanno mostrato che gli studenti coinvolti hanno avuto una riduzione del 27% negli episodi di bullismo segnalati, oltre a un aumento significativo della collaborazione in classe.

L’empatia nelle istituzioni: ancora troppo poco

Nonostante l’evidenza dei benefici, le politiche pubbliche restano ancorate a logiche punitive piuttosto che preventive. Solo 12 paesi europei hanno attivato programmi strutturati di formazione all’empatia per forze dell’ordine, educatori e operatori sanitari. Questo malgrado le evidenze: la rivista Psychology, Crime & Law ha pubblicato nel 2021 uno studio secondo cui i detenuti che avevano seguito programmi di sviluppo empatico mostravano un tasso di recidiva inferiore del 35% rispetto a chi non ne aveva mai preso parte.

Empatia come tecnologia sociale

Se considerata come “tecnologia sociale”, l’empatia può trasformare radicalmente l’interazione umana. Le aziende che hanno implementato politiche di leadership empatica (come Google e Microsoft) registrano un calo del turnover del personale fino al 25% e una maggiore resilienza interna. Nel contesto sociale, la promozione attiva dell’empatia contribuisce a ridurre non solo l’abuso, ma anche la discriminazione, l’emarginazione e l’intolleranza.

Interessante il pensiero di Angelo Sanzio:” Sarà una coincidenza ma quanto di parla di violenza contro le donne o di genere, dall’altra parte c’è sempre un uomo.

Mia Martini, nella sua canzone “gli uomini non cambiano” era riuscita a trasmettere in modo semplice ma struggente questa eterna sfida: una donna che fin da piccola anela alla conquista di un uomo, alla sua approvazione, al suo compiacimento. Si inizia da piccole e forse non si finisce mai: “io ti conquisterò”, “tu mi amerai”. 

Gli essi viventi, tra cui anche gli esseri umani sono fatti per stare insieme e non da soli. Questo “stare insieme” è regolato da codici scritti e no, che nel tempo disegnano le nostre abitudini e scrivono le nostre coscienze. Molto di quello e di CHI siamo dipende da cosa ascoltiamo, dal contesto in cui cresciamo, da cosa vediamo, da cosa leggiamo: quindi si, tutti possiamo modificare e migliorare i nostri pensieri, non siamo destinati a seguire le orme di nessuno, a meno che non vogliamo farlo noi. Ed ecco perché ognuno di noi ha sia il potere che la responsabilità di cambiare la società che vive. È interessante apprendere che in un paese come la Danimarca fin dagli anni ’90 l’empatia veniva insegnata a scuola. Anche in Italia alcuni Istituti scolastici hanno firmato un accordo per aderire al metodo facendo nascere a prima rete di Scuole dell’empatia.

Questo perché il cambiamento è possibile ma avviene solo attraverso la conoscenza, la conoscenza e la comprensione dell’altro: l’altro visto come un me dall’altro parte. L’altro che sente quello che sento io, perché anche i suoi sentimenti, come i miei, si trovano nel cuore; l’altro che tamburella le dita sulle note della stessa canzone che piace a me…L’altro che è semplicemente un altro IO. 

Se tutti coltivassero quotidianamente questo sentimento e uscissero dal proprio IO per incontrale l’IO dell’altro, non ci sarebbe più bullismo, sopraffazione sull’altro, violenza.

Credo che l’uomo sia capace di fare cose più difficili e complesse, ad esempio andare e tornare dalla luna… credo che coltivare e mostrare empatia e gentilezza, senza pregiudizio sia alla portata di chiunque si reputi un essere umano…intelligente.”

L’empatia non è una dote innata, ma una competenza che può – e deve – essere coltivata. Farlo significa investire sulla prevenzione degli abusi, sulla qualità della convivenza civile e sul futuro delle nuove generazioni. In un mondo che spesso normalizza l’egoismo e il disinteresse, riscoprire l’importanza di “sentire con l’altro” non è idealismo: è sopravvivenza civile.

“Io” è anche “l’altro”

In una società multietnica, l’identità non si perde: si costruisce nel confronto. E comprendere chi ci sta accanto diventa una forma di riscoperta personale.

Chi sono io, oggi, in una società dove convivono decine di lingue, religioni e visioni del mondo? È una domanda che attraversa scuole, quartieri, famiglie. E che impone una riflessione urgente: l’identità non è un confine da difendere, ma un ponte da costruire. In un’Italia sempre più multietnica – oltre 5,2 milioni di cittadini stranieri secondo l’ISTAT 2024 – riscoprire l’altro significa anche ridefinire sé stessi.

La convivenza con culture diverse non è più un’eccezione, ma la regola del presente. Le seconde generazioni crescono tra due o più mondi, e lo fanno spesso in un clima di tensione, tra integrazione a metà e diffidenza sociale. Ma se l’altro è percepito come minaccia, è perché l’“io” è fragile. E spesso, non ancora compreso.

L’identità non è un recinto

L’identità non è una moneta da conservare sottochiave, ma un racconto da riscrivere nel tempo”, spiega Laura Benassi, docente di pedagogia interculturale all’Università di Bologna. “È nel confronto con l’altro che impariamo a riconoscere ciò che conta davvero per noi.” Una visione confermata dai numeri: in scuole che promuovono il dialogo interculturale, gli episodi di discriminazione calano fino al 28%, secondo dati Miur 2024.

Eppure, il dibattito pubblico è ancora polarizzato: si contrappongono “noi” e “loro”, italiani e stranieri, tradizione e cambiamento. Come se la cultura fosse una fortezza da difendere e non una casa da abitare insieme.

La scuola laboratorio di cittadinanza

Nelle classi italiane si gioca una delle partite più importanti. Qui, il contatto tra diversità è quotidiano. A Milano, Torino e Napoli, alcuni istituti superiori hanno introdotto percorsi di educazione interculturale, laboratori teatrali e momenti di confronto tra studenti italiani e di origine straniera. I risultati? Più rispetto, più dialogo, meno conflitti. Lo conferma uno studio dell’Università di Padova, che rileva un aumento del 40% nelle competenze relazionali tra i ragazzi coinvolti. “Il problema non è la presenza dell’altro, ma l’assenza di strumenti per comprenderlo”, afferma Stefano, 17 anni, studente di un liceo multietnico di Torino. “Parlare, raccontarsi, ascoltare: è così che diventiamo davvero cittadini.”

L’altro come specchio

Il sociologo Zygmunt Bauman scriveva che la nostra identità è “liquida”, in continuo divenire. In questo senso, ogni incontro con l’altro è uno specchio. Non ci allontana da chi siamo, ma ci avvicina. A patto di voler guardare. Karim, 23 anni, nato a Bologna da genitori egiziani, dice: “All’inizio cercavo di sembrare italiano. Poi ho capito che ero già italiano, a modo mio. Ho due culture, e sono fortunato.”

Il futuro? Passa dall’ascolto

Per costruire una società davvero inclusiva serve più di una legge. Serve un cambiamento culturale. L’empatia, l’ascolto, il riconoscimento reciproco devono entrare nelle scuole, nei media, nella politica. Perché l’“io” non può essere compreso davvero senza l’altro. E senza questa comprensione, il rischio è restare prigionieri delle proprie paureIn fondo, la società multietnica non ci chiede di scegliere tra identità diverse, ma di imparare a convivere. E nel farlo, scoprire chi siamo davvero.