Ultraidentità
Chiunque sia alla prima esperienza da avatar in un social media virtuale si pone diversi problemi, a seconda del carattere, delle proprie attitudini o dal grado di interesse e coinvolgimento che lo ha portato a "impersonare" (mai concetto fu più congruo) la forma di Avatar.
Quali sono le regole del gioco? Qual è il mio scopo? Dove vado? Chi mi aiuta? Siamo come cuccioli che escono dal loro nido per la prima volta, siamo come farfalle uscite dalla loro spoglie di crisalide, mutati in un corpo che non conosciamo che eppure è il nostro. Il disorientamento è forte. La frustrazione è forte. Sperimentiamo su di noi una inadeguatezza che deriva da uno stato di bisogno totale, originato da fondamentali cambi di prospettiva, sia psicologici che culturali.
Da quando i social hanno fatto irruzione nelle nostre vite, la necessità di auto- rappresentarsi è diventata di fatto uno status sociale. Parliamo di noi stessi in una sorta di continua celebrazione identitaria, che da una parte compie un infinito panegirico di ogni nostra più minuscola attività quotidiana (siamo o non siamo i biografi accreditati di noi stessi?) e dall'altra ci permette di rieditare la nostra storia a piacere (e con la storia individuale la Storia stessa) ritraendoci come desideriamo essere riconosciuti.
Questo avviene al massimo grado della riedizione dell'immagine di sé, in quella particolare forma di ritrattistica a che è il selfie, dove si espone la propria intimità come a guardarsi dall'esterno indugiando sul proprio lato narcisistico e contemporaneamente pubblico.
Qui io intravvedo, per quanto agiografico ed edulcorato, il nucleo primitivo alla costruzione dell'identità digitale. Il selfie è in fondo uno strumento di educazione sentimentale alla costruzione del proprio sé immaginifico. Ne costituisce l'infanzia, e per la maggior parte di noi anche l'unica età della propriocezione digitale.
Ma per altri può essere il primo passo verso la Personomia e l'Avakindness, ovvero le due principali forme identitarie digitali sociali che ho riscontrato nella mia e esperienza e in quella di chi mi accompagna nei mondi virtuali.
La prima, è la traccia persistente delle nostre attività in rete, l'insieme dei nostri profili, dei nostri contributi alla creazione di contenuti, all'espressione di idee, opinioni e credenze.
La seconda è la predisposizione alla identificazione (e al trasferimento) della nostra identità in una maschera di cui assumiamo la forma e che ci permette di riconoscere l'umanità delle altre maschere che incontriamo. Una sorta di Empatia Digitale, lo definirei un nuovo senso derivato dalla esperienza d'essere Avatar.
"A man is not quite himself when he speaks in the first person. Give him a mask, and he will tell you the truth."
Oscar Wilde
"Un uomo non è del tutto sé stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità". Una affermazione che faccio mia in toto.
Anche se mi piacerebbe addentrarmi nel tema della maschera velatrice/svelatrice, che nella sua ambivalenza dimostra il suo irriducibile legame con l'umanità e il suo uso ancestrale in tutte le culture, mi limito a portare due esempi d'uso della storia recente di questa dualità.
La prima riguarda Anonymous, la maschera simbolo dell'antagonismo anarchico che riprende le fattezze del cospiratore cattolico Guy Fawkes, diventato simbolo di lotta ad ogni potere massificante e coercitivo e la maschera di The Mask (1994), il film di Chuck Russell interpretato da Jim Carrey che trasforma un anonimo impiegato in uno spumeggiante agente del caos. La prima è una icona indifferenziata, che svuota l'individuo che la porta della sua identità, spostando il senso sul puro simbolo, la seconda esalta una potenzialità rivelatrice della presenza nascosta di una identità irriducibile.
E verso questo secondo senso va la tesi di questo post, che afferma come nell'accezione drammaturgicamente classica della Commedia dell'Arte, la maschera e dunque l'avatar rappresenti sempre una identità.
L'identità rappresentata da un Avatar, intesa come maschera, è qualcosa di intimamente diversa da quella rappresentata in un profilo social, sebbene come abbiamo detto, per entrambi vale la regola che la forma con la quale si appare è una forma editata dalla realtà, La maschera cambia tutto, innalzando immediatamente la posta in gioco.
Rappresentarsi in un corpo non è semplice come nascondersi dietro una fotografia di sé più giovane di vent'anni o una icona sexy. Il corpo nel suo insieme, è una complessa e vastissima mappa espressiva, crea un paesaggio variabile rappresentato non solo dalla sua superficie, ma anche indissolubilmente, dal suo ipogeo interiore.
L'avatar a mio modo di vedere, è l'attualizzazione moderna di una visione del corpo che viene da lontano, da almeno quattro secoli di distanza, da quando Catherine de Rambouillet, ispirata dal romanzo "Clélie, histoire romaine" di Madeleine de Scudéry (1654) traccia la sua Carta del Tenero, rappresentazione geografica dei sentimenti e del corpo, che si trasfigura in paesaggio.
"Il paese di partenza si chiama “Nuova amicizia” e viene attraversato da un fiume di nome “Inclinazione”. Verso la sua foce si aggiungono altri due fiumi, quello di sinistra si chiama “Riconoscenza” e quello di destra “Stima”. Sul primo sorge il paese di “Tendre sur Reconnaissance”, sull’altro “Tendre sur Estime”. Questi fiumi sfociano nel mare Pericoloso e la riva oltre quel mare si chiamata “terra sconosciuta”. Questo mare rappresenta la passione. Pieno di scogli da superare che ostacolano la strada alla novità.
Per arrivare a Tendre-sur-Estime è necessario passare attraverso i piacevoli villaggi (sincerità, bontà, rispetto, galanteria, dolcezza, ecc.) ma se si sbaglia strada anche di poco poco si finisce nei paesi della Negligenza, della Leggerezza, dell’Oblio, fino a raggiungere il lago dell’Indifferenza.
Sulla sponda di sinistra del fiume Inclinazione ci sono ancora due strade, una buona e una cattiva. Quest’ultima passa attraverso i paesi: di Indiscrezione, Perfidia, Cattiveria e Orgoglio per tuffarsi nel mare dell’Inimicizia. La strada buona passa attraverso i paesi di Compiacimento, Sottomissione, Coccole, Assiduità, Prontezza, Sensibilità, Tenerezza, Obbedienza, Amicizia Costante, per arrivare a Tenerezza su Riconoscenza (Tendre sur Reconnaissance)."
(testo descrittivo di Laura Canali, tratto da Limes Online, Rivista italiana di geopolitica 26/07/2010)
Bisogna anche dire che la rappresentazione digitale non va esattamente soltanto nella direzione di una mappatura sottile del corpo sentimentale, anzi, va in direzioni anche molto diverse.
Ad esempio, l'esperienza dell'immersività vissuta attraverso il visore, a mio giudizio attenua e riduce di molto l'esperienza identitaria, e al momento non esalta per contro quella sensoriale. La visione in prima persona riduce l'esperienza del proprio corpo celandolo allo sguardo, rendendo l'avatar strutturalmente un supporto, una Shell relativamente spersonalizzata dal punto di vista identitario dell'Avakindness.
Seguendo questa direzione, dove l'avatar perde la necessità di esistere e ci si assume in prima persona l'onere di esistere e di rappresentarsi, si trovano livelli di realtà più idonei. Nella realtà aumentata degli ologrammi digitali, ad esempio, la presenza di un nostro rappresentante potrebbe considerarsi inefficace. Ci siamo già noi, in prima persona, in forma fisica o olografica a popolare la visione dei nostri interlocutori, e viceversa.
Per contro la realtà virtuale immersiva per sua natura ci isola da ogni relazione con lo spazio oggettivo in cui siamo. Non potendo così partecipare noi stessi sullo stesso piano di realtà in cui ci troviamo, abbiamo la necessità di creare un nostro rappresentante, un simbionte che agisca per nostro conto e nome.
È innegabile anche che nell'immersività , riducendo drasticamente la complessità del rapporto identitario con l'avatar, sia proprio che altrui, si può rendere più facile l'uso della tecnologia da parte degli utenti, che non necessariamente si vogliono confrontare con una interfaccia indiscutibilmente complessa come l'avatar che tra l'altro è al centro di una altrettanto complessa strumentazione per il controllo, la personalizzazione e l'interazione con i costrutti artificiali di oggetti, ambiente e avatar.
Non è un caso che in molte delle piattaforme moderne le forme di rappresentazione dell'avatar si riducano al minimo indispensabile, il volto, le mani, parte del tronco.
Ridotto ad una funzione di manichino, iconizzato, il corpo viene depauperato delle potenzialità espressive del sé, perdendo di dettaglio perde di senso, degli elementi in cui riconoscersi per distinguersi, ci rendiamo possessori di una figura indifferenziata e anonima, per cui completamente strumentale e sostituibile, indifferente al significante del nostro corpo.
Ma noi siamo il nostro Soma. Non potremmo essere noi stessi senza il corpo.
Come nella Carta del Tenero, il corpo dell'Avatar prende forma dai sentimenti e dal desiderio.
E considerando la forza dei sentimenti quanto agisca sull'animo umano, ne conseguo a partire dall'esperienza che traggo dalla quotidiana frequentazione di mondi virtuali, che la rappresentazione del corpo non è affatto indifferente al sé, non è semplicemente una icona, un segnaposto o una sintetica e mistificante immagine assunta a capriccio.
L'avatar con Avakindness, sei tu.