x

x

Razionalismo giuridico e giurisprudenza

Razionalismo giuridico e giurisprudenza
Razionalismo giuridico e giurisprudenza

Il diritto non può essere un sistema di finzioni. Esso ha una vocazione essenzialmente realistica.

Razionalismo giuridico e giurisprudenza

 

Il diritto non può essere un sistema di finzioni. Esso ha una vocazione essenzialmente realistica

 

Premessa

 

La presente Nota è occasionata da una recente Sentenza del Tribunale di Trapani. Questa Sentenza è stata preceduta da Sentenze della Corte costituzionale (le uniche efficaci e valevoli, com’è noto, erga omnes) e da Sentenze della Corte di Cassazione. Non è, quindi, una Sentenza «isolata». Essa è conforme alla giurisprudenza delle supreme Corti appena citate. Pur con qualche aspetto di novità, essa si inserisce (e continua) un indirizzo giurisprudenziale consolidato.

 

Il fatto

 

Ha destato, comunque, scalpore la recente Sentenza del Tribunale di Trapani (Sentenza del 6 luglio 2023), con la quale il citato Tribunale ha stabilito che un uomo (un essere umano maschio) è una donna.

 

Non si tratta – è bene precisarlo e in ciò sta l’aspetto innovativo rispetto alla precedente giurisprudenza – del riconoscimento del cambiamento di sesso, ma del riconoscimento di una sensazione/sentimento soggettivo che un tempo avrebbe sollevato sospetti sulla salute mentale dell’istante. Fino al 17 maggio 1990 l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) definiva, infatti, simili sensazioni/sentimenti malattie mentali; più propriamente l’OMS definì malattia mentale l’omosessualità. A maggior ragione tale sarebbe stata considerata un’istanza come quella de quo tesa al riconoscimento della relativa pretesa basata su una sensazione/sentimento soggettivo[1].

 

La cosa molto singolare è che il Cinquantatreenne di Erice che si è rivolto al Tribunale di Trapani per essere «riconosciuto» come donna non si era sottoposto a intervento chirurgico per il cambiamento di sesso, né intende per sua esplicita dichiarazione sottoporvisi. Egli è rimasto e intende rimanere come l’ha fatto Madre Natura ovvero conserverà gli attributi maschili come da nascita.

 

Il Tribunale di Trapani ha riconosciuto il suo diritto all’identità di genere «sentimentale» (che, nel caso de quo non riguarda la natura e che quindi non si sarebbe dovuta «riconoscere»). Il diritto all’identità di genere era già stato riconosciuto dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Cassazione[2], le quali hanno riconosciuto, come si è appena detto, che ciò costituisce «l’approdo di un’evoluzione culturale e ordinamentale volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere»; un’identità di genere psicologica, innaturale.

 

Sulla base di questo riconoscimento è stato possibile ed è possibile chiedere ed ottenere la rettifica anagrafica (nel caso del Tribunale di Trapani anche in assenza di intervento chirurgico che mai, comunque, rende un uomo donna né una donna uomo anche in presenza di asportazione dei rispettivi organi sessuali).

 

Tre considerazioni

 

Non entriamo nel merito della questione sotto il profilo morale. Intendiamo, piuttosto, in via preliminare sottolineare due aspetti accomunati dalla medesima matrice pur presentandosi essi sotto aspetti diversi. Entrambi sono, propriamente parlando, deliri.

 

Abbiamo più volte e in vari scritti richiamato l’attenzione sull’affermazione del Portalis, secondo il quale con la norma tutto sarebbe possibile. Questo romanista che presiedette la Commissione per la redazione del Codice di Napoleone del 1804, sostenne, infatti, che con la norma positiva statuale è possibile distruggere la realtà e crearne una nuova. Portalis sosteneva che ciò fosse possibile solamente con la norma ossia per volontà e decisione dello Stato. Non contava il sentimento personale, il desiderio del soggetto, la pretesa individuale.

 

Con l’affermazione della dottrina del personalismo contemporaneo l’impostazione è stata ribaltata: è il soggetto che avendo diritto – si dice – al riconoscimento delle sue aspirazioni, di tutte le sue aspirazioni, ha un primato sulla norma. L’ordinamento giuridico dello Stato deve solo garantire la realizzazione delle pretese individuali, non regolamentarle; rectius regolamentata può essere la modalità di esercizio, non il contenuto di quello che viene definito diritto soggettivo. Questo, a sua volta, non è la positivistica facultas agendi basata sulla norma agendi, posta dallo Stato. È, piuttosto, la facultas agendi secondo l’insindacabile opzione soggettiva, della cui realizzazione si fa garante lo Stato: lo Stato, per esempio, non entra nel merito dell’aborto procurato, del cambiamento di sesso per finalità di comodo, del «matrimonio» fra esseri umani dello stesso sesso, del suicidio assistito, dell’eutanasia e via dicendo, si limita ad assicurarne la realizzazione ove voluta.

 

La dottrina del personalismo contemporaneo, che caratterizza diverse Costituzioni «fatte in serie» (compresa quella italiana), impone la «neutralità» dell’ordinamento giuridico (cosa che a noi pare impossibile): Ciriaco De Mita, per esempio, sostenne che esso deve essere finalizzato alla tutela e alla garanzia di tutti i valori soggettivi, i quali dipendono dalle scelte dell’individuo[3].

 

C’è, quindi, una differenza tra la prospettiva del Portalis e quella del personalismo contemporaneo anche se entrambe – lo si è già detto – derivano dalla medesima matrice, assolutamente razionalistica.

 

C’è una seconda considerazione che è opportuno fare. Il razionalismo giuridico è una forma di radicale irrazionalismo. Esso ha la presunzione di sostituire integralmente la realtà, anzi di costituirla ex novo. In ultima analisi, è una forma di nichilismo formalizzato.

 

Non si tratta di una teoria astratta. Essa ha trovato applicazione in e da parte di diversi ordinamenti giuridici. Per fare alcuni esempi basterà pensare innanzitutto al bail in che presume di far dipendere la natura del creditore e del debitore da una definizione convenzionale, legata, per giunta, a situazioni valutate ideologicamente sulla base di interessi non sempre legittimi: che un creditore nei confronti di un istituto di credito diventi debitore ope legis nei confronti dello stesso a causa dell’incapacità dei suoi amministratori o per mala gestio dei medesimi, è cosa contraria a ogni forma di elementare buon senso, vale a dire essa va contro le naturali esigenze dell’intelligenza umana.

 

Che il matrimonio, poi, sia privo di finalità oggettiva (la procreazione) come generalmente pretendono di stabilire le norme che regolano le «unioni civili», soprattutto quelle fra omosessuali, è cosa altrettanto inconcepibile: essa è dettata dalla presunzione di dare ordine al disordine con norme assolutamente arbitrarie.

 

Che il diritto soggettivo – è il terzo esempio di delirio – dipenda assolutamente dalla norma positiva è presunzione e pretesa arbitraria, contraria alle esigenze elementari della giustizia. Il diritto, infatti, preesiste alla norma, anzi alla stessa legge positiva la quale dovrebbe essere partecipazione del diritto, sua determinazione[4]. Anche il diritto soggettivo preesiste alla norma, la quale dovrebbe essere mera indicazione/prescrizione di ciò che è giusto nelle concrete circostanze e in determinati casi[5]. Aveva ragione Rosmini, a questo proposito, allorché sosteneva che la persona è il diritto umano sussistente[6]. Non, si badi bene, la volontà della persona, ma la persona in sé come l’intese Severino Boezio: rationalis naturae individua substantia[7]. Il diritto soggettivo non è facoltà concessa dall’ordinamento, non è pretesa dell’individuo, qualsiasi pretesa dell’individuo, ma «presa d’atto» di ciò che all’individuo spetta per natura e che egli è tenuto a far valere.

 

Un’osservazione

 

A queste tre osservazioni ne va aggiunta un’altra. Le supreme Corti (Costituzionale e di Cassazione) non da oggi adottano criteri, per la «lettura» giuridica dei casi, inidonei a dare loro risposte veramente giuridiche. Anche nel caso della Sentenza del Tribunale di Trapani la cosa emerge in tutta evidenza.

 

Qual è il problema? Le supreme Corti, in particolare quella Costituzionale, eleggono il criterio dell’effettività a criterio ermeneutico supremo. Non si tratta della sola vigenza formale delle norme. La vigenza è considerata, infatti, sotto un profilo diverso che lato sensu potremmo definire sostanziale.

 

Soprattutto la Corte Costituzionale, sin dagli anni ’60 del secolo scorso, ha ritenuto di dover interpretare le norme costituzionali alla luce dell’evoluzione sociale, vale a dire alla luce del costume impostosi.

 

Allora si trattava della legittimità dell’art. 559 CP che puniva l’adulterio. Ebbene, la Corte Costituzionale in un primo momento (Sentenza n. 64/1961) lo ritenne legittimo costituzionalmente. A distanza di solo sette anni lo ritenne, al contrario, illegittimo costituzionalmente (Sentenze n.  126/1968 e n. 147/1969).

 

Da notare che la Corte Costituzionale era composta in parte dagli stessi giudici che nel 1964 avevano sentenziato la legittimità costituzionale dell’art. 559 CP. Il fatto va segnalato non perché abbia in sé rilievo giuridico, ma perché è significativo, molto significativo, per quel che riguarda il cambiamento di parere.

 

Dunque, la Corte Costituzionale negli anni ’60 ritenne di poter sentenziare in senso opposto a quanto sentenziato qualche anno prima circa la legittimità dell’art. 559 CP, perché – disse – la società era mutata, nel costume cioè era invalsa una valutazione diversa dell’adulterio.

 

Il che significa, secondo la Corte, che le norme, anche quelle costituzionali, dipendono dai convincimenti diffusi e dalle pratiche largamente applicate nella società. In altre parole la Costituzione non è regola per la società ma è la società regola per la Costituzione. La Costituzione, in ultima analisi, adottando questo criterio sarebbe inutile. Questo canone è dettato dalla dottrina di Schmitt, che, hegelianamente ed erroneamente, ritiene che l’effettività sia la realtà: l’effettività evolve e, quindi, evolve anche la realtà.

 

Anche l’ordinamento giuridico, pur rimanendo formalmente tale, assume significati diversi. Le sue prescrizioni non sono assolute. Al contrario, sono relative: relative alla mentalità che si afferma; relative ai costumi praticati; relative alle mode di pensiero e di vita; relative all’ethos che non è l’etica. Il positivismo di Schmitt e la sua totale dipendenza dalle dottrine tedesche sono assoluti.

 

Non che Kelsen (nemico giurato di Schmitt) parta da premesse diverse ed approdi a risultati diversi: anche per Kelsen, infatti, l’ordinamento non va discusso, ma solo applicato e applicato coerentemente in quanto e solamente in quanto sistema. Con un apparente vantaggio: esso offrirebbe una momentanea certezza[8] che la dottrina di Schmitt non assicurerebbe nemmeno contingentemente. Applicando la teoria di Kelsen, la giurisprudenza non offrirebbe sorprese, mentre applicando la teoria di Schmitt essa riserverebbe (o potrebbe riservare) sempre sorprese: Kelsen si appella alla scienza dell’ordinamento, Schmitt alla sociologia (sia pure a una «sociologia filosofica») che determina l’ordinamento «concreto», la sua «lettura» e la sua applicazione.

 

Un rilievo

 

Il fatto che il riconoscimento di cui parla la giurisprudenza cui fa riferimento la citata Sentenza del Tribunale di Trapani sia conseguenza dell’approdo di un’evoluzione culturale e ordinamentale, significa che la cultura non è conoscenza (ed eventualmente conoscenza approfondita) dell’ordine naturale ma presupposto a sé stante, frutto dell’effettività sociologica cui si è accennato con riferimento alla dottrina di Schmitt. L’effettività sociologica sta alla base delle identità le quali necessariamente sono autoreferenziali. Non offrono, cioè – le identità – giustificazioni delle loro scelte e del loro operare[9]. Sono sempre semplici dati di fatto. Ci sono identità che non ammettono la proprietà privata; altre che considerano l’infibulazione un diritto/dovere dei genitori verso le figlie; altre ancora che affermano che tutto ciò che è prassi è per questo diritto. Per questo la proprietà è un furto? L’infibulazione cessa di essere violenza? Ogni prassi è moralmente e giuridicamente legittima?

 

L’evoluzione ordinamentale non può essere dettata e orientata evidentemente da simili criteri. La giuridicità dell’ordinamento non può dipendere né dall’identità collettiva né dall’identità soggettiva[10]. Essa ha radici nella giustizia che non è né opinione né opzione ingiustificata. È, per questo, che una giurisprudenza che la ignori è esercizio di mero potere, non presupposto della potestas, tanto meno e ancora prima dichiarazione di ciò che è giusto.

 

Il razionalismo giuridico è un’assurdità

 

Il diritto non può essere un sistema di finzioni. Esso ha una vocazione essenzialmente realistica[11]. Deve dare risposte secondo giustizia alle controversie che sorgono nella vita, in particolare a quelle che sorgono nella vita sociale. Il sistema di legalità «astratta» è un’iniuria alla giustizia.

 

Per questo il legislatore innanzitutto ma anche i giudici e gli operatori del diritto (gli avvocati) dovrebbero impegnarsi sempre a cercare di far trionfare l’equità. Il legislatore, infatti, dovrebbe legiferare non per tentare di mandare ad effetto ideologie ma per offrire regole ricavate dal diritto: sempre dovrebbe ricordare la massima secondo la quale «non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est regula fiat» (Paolo D. 50, 17, 1).

 

I giudici, poi, dovrebbero ricordare costantemente il «summum ius summa iniuria» di Cicerone, non considerarsi «bouche de la loi», di qualsiasi norma. Tanto meno dovrebbero applicare le norme secondo «letture» ideologiche mascherate da ermeneutica delle stesse. Gli avvocati, infine, non sono chiamati a «vincere» in qualsiasi modo le cause, anche passando sopra alla giustizia. Non si tratta di questione meramente deontologica ma di un imperativo morale e di un’esigenza autenticamente giuridica.

 

Tutto questo postula il rifiuto del razionalismo giuridico, reso evidente anche dalla citata Sentenza del Tribunale di Trapani.

 

Conseguenze

 

È appena il caso di ricordare, concludendo, che il razionalismo giuridico produce (o almeno favorisce) necessariamente ingiustizie. Il «riconoscimento» che un essere umano maschile è fittiziamente donna comporta (o può comportare) una serie di conseguenze. Per esempio attualmente può favorire l’utilizzo delle «quote rosa»; può anticipare il suo diritto alla pensione oppure, ove fosse prevista la leva obbligatoria maschile, l’esclusione dal servizio militare e via dicendo.

 

Si tratta di finzioni che hanno il loro peso e di finzioni che il Codice civile «respinge» decisamente (si pensi, per esempio, a quanto prescrive l’art. 1414 relativamente al contratto simulato). Perché la simulazione dovrebbe essere accolta e produrre effetti in molti altri casi e in altri settori?                                                                                     

 

 

[1] L’OMS il 17 maggio 1990 cancellò l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Definì simultaneamente l’omosessualità «una variante naturale del comportamento umano». Definendo l’omosessualità come «una variante naturale», l’OMS conservò il concetto di natura. Naturali, infatti, sono anche le malattie sia pure considerate sotto il profilo della sola effettività. L’effettività, però, non è sempre e necessariamente la realtà ontica: la malattia è effettiva, la salute è onticamente reale. La fisiologia, infatti, è condizione per l’individuazione della patologia. Dire che l’omosessualità è «una variante naturale del comportamento umano» significa accontentarsi di una descrizione sociologica, rinunciando a cogliere la realtà. L’omosessualità, infatti, è un disordine naturale.

Sul problema della «natura», anche prescindendo dall’omosessualità, si registrano atteggiamenti e definizioni che rivelano schizofrenia. Per esempio, si dice che la natura non esiste, che essa è un fatto culturale, un prodotto dell’uomo. Nello stesso tempo, però, si afferma che è necessario riservare spazi alla natura (Unione Europea). In questo caso alla natura «fisica». Esiste, però, anche la natura «filosofica», vale a dire l’essenza delle «cose», che riguarda, quindi, tutti gli enti che hanno l’atto di essere.

[2] Cfr. Sentenze della Corte costituzionale n. 161/1985, n. 561/1987, soprattutto n. 221/2015. Per quel che attiene alla giurisprudenza della Corte di Cassazione civile si veda innanzitutto la Sentenza n. 15138/2015.

[3] Ciriaco De Mita, da Segretario nazionale della Democrazia cristiana, rilasciò ad Arrigo Levi una lunga intervista, raccolta nel volume C. DE MITA, Intervista sulla Democrazia cristiana (Bari, Laterza, 1986). In un passo di questa intervista Ciriaco De Mita è particolarmente esplicito. Egli afferma che un ordinamento giuridico cristiano, cioè conforme al diritto naturale classico, sarebbe intollerante, antidemocratico (pp. 199-200).

[4] Fra le opere di autori contemporanei, a questo proposito, ne vanno segnalate due: M. AYUSO, De la ley a la ley, Madrid, Marcial Pons, 2001 e M. BASTIT, Naissance de la loi moderne, Parigi, PUF, 1990.

[5] Michel Villey ha visto nel «diritto soggettivo» la genesi della contemporanea pretesa [cfr. M. VILLEY, La formation de la pensée juridique moderne, Parigi, PUF, 2013 (III ed.), nonché ID. Seize essais de la philosophie du droit, Parigi, Dalloz, 2001 (IV ed.)]. Sotto un certo profilo è indubbio che il diritto soggettivo della modernità ha una genesi gnostico-nichilistica. Il diritto soggettivo gnostico-nichilistico è teorizzato dalle moderne dottrine giuridiche che fanno della norma positiva statale la sua fonte. A noi pare che la norma positiva statale non possa essere la fonte del diritto (cfr. D. CASTELLANO, Quale diritto? Su fonti, forme e fondamento della giuridicità, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2015, particolarmente pp. 27-57 e pp. 117-134). In più riteniamo che il diritto soggettivo, per essere tale, necessiti di un fondamento ontico. Non dipende, quindi, dalla volontà dello Stato bensì dall’ordine naturale delle «cose».

[6] Cfr. A. ROSMINI, Filosofia del diritto, a cura di R. Orecchia, vol. I, Padova, Cedam, 1967, p. 192.

[7] Cfr. S. BOEZIO, Liber de persona et duabus naturis contra Eutychen et Nestorium, in PL 64, 1343.

[8] Sul problema della certezza del diritto e sulle insufficienze delle teorie moderne a garantirla si rinvia a D. CASTELLANO, Del Diritto e della Legge, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019, particolarmente pp. 35-43.

[9] Sulla questione dell’insufficienza delle identità «politiche» a trovare il fondamento dell’ordine politico si rinvia a D. CASTELLANO, La verità della politica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2002, pp. 69-79.

[10] Anche l’identità intesa come «nazione» è inidonea a legittimare lo Stato e il Diritto pubblico. Sull’argomento si rinvia a D. CASTELLANO, Politica. Parole chiave, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019, particolarmente pp. 11-22.

[11] Sulla questione si rinvia al citato volume D. CASTELLANO, Quale diritto?, pp. 93-116.