Il positivismo giuridico ed il concetto di lacuna del diritto secondo L. Lombardi Vallauri
Il “dogma” della completezza della legge è proprio della concezione statualistica dell’ordinamento, secondo la quale è diritto ciò che corrisponde al comando emanato dall’autorità costituita, ossia dallo Stato.
In primo luogo occorre fare chiarezza riguardo ai tre concetti fondamentali appena menzionati: ordinamento, diritto, legge. Il diritto in senso oggettivo – da non confondersi con il diritto in senso soggettivo, il quale si sostanzia in un potere o signoria della volontà del singolo – è l’ordinamento giuridico. Con ordinamento giuridico s’intende un insieme o sistema di norme (di condotta e di struttura, generali e individuali) che, nel rispetto o per la realizzazione di alcuni fondamentali valori, organizza un corpo sociale. Tale definizione implica l’identità tra, da un lato, il concetto di diritto in senso oggettivo e, dall’altro lato, quello di ordinamento giuridico; resta da definire la posizione che rispetto ad essi occupa la legge. Ed è proprio su quest’aspetto che s’innesta il nucleo centrale della questione qui dibattuta: può la legge definirsi completa? Può, in altre parole, accettarsi la teoria legalista, per la quale non vi è diritto al di fuori della legge? Aderendo alle asserzioni legaliste vi sarebbe identità perfetta tra legge e diritto, dunque, in ultima analisi, tra legge ed ordinamento, posta l’identificazione del diritto in senso oggettivo con quest’ultimo. Ne consegue l’esclusione dell’esistenza di altre fonti del diritto diverse dalla legge statale, quali ad es. la consuetudine, le correnti normative consolidate dalle pronunce giurisprudenziali, la prassi amministrativa, l’equità. Alla luce di tali considerazioni, il motivo della riconduzione della tesi della completezza della legge alla concezione statualistica dell’ordinamento è evidente: eliminando ogni altra fonte del diritto diversa dalla legge statale, si riconosce allo Stato il potere esclusivo di organizzare il funzionamento della società civile.
Le origini del pensiero legalista sono da individuarsi nel movimento intellettuale che ha condotto all’elaborazione del principio della separazione dei poteri: le funzioni fondamentali svolte dall’autorità statale, individuate nella funzione legislativa, nella funzione esecutiva ed in quella giudiziaria, devono essere affidate ad organismi tra loro diversi ed indipendenti. La ripartizione del potere sovrano in potere legislativo, esecutivo e giudiziario, teorizzata da John Locke (Two Treatises on Government, 1690) e mezzo secolo più tardi rielaborata con originalità sul continente da Montesquieu (De l’Esprit des lois, 1748), segna il superamento dell’assolutismo e sta alla base del costituzionalismo moderno. Con particolare riferimento a Montesquieu, egli reclama la scissione dell’autorità sovrana in tre nuclei distinti in base alla logica secondo cui è il potere a bloccare il potere stesso: ciò che consente di limitare il potere sovrano è un meccanismo di scomposizione dello stesso in più sfere separate, in modo che ciascuna di esse circoscriva l’estensione delle altre. Tali sfere non devono pertanto concentrarsi né nella stessa persona né nello stesso gruppo di individui, in quanto se il potere di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati facessero capo allo stesso soggetto, o allo stesso insieme di soggetti, non vi sarebbe libertà. Lo scopo ultimo è quello di proteggere i cittadini dagli arbitri perpetrati dagli organi del potere costituito.
De l’Esprit des lois riprende la classificazione aristotelica dei regimi politici, distinguendo tra il governo repubblicano, a sua volta distinto a seconda che il potere risieda nell’intero popolo (democrazia) o nella sola componente aristocratica, il governo monarchico e quello dispotico. Nel contesto repubblicano il giudice vede il proprio ruolo relegato ad una condizione di passività, dovendo limitarsi ad un’applicazione meccanica ed impersonale della legge. Celebre l’espressione montesquiana che assegna al magistrato la mera funzione di bocca della legge, o bouche de la loi.
La dottrina della divisione dei poteri conduce al rischio di educare il giudice ad una sorta di automatismo nei confronti del diritto, posto che il compito di riflettere criticamente sulla legge è di spettanza di chi elabora la legge stessa. Gli effetti sono paradossali: il positivismo legalista ha rappresentato (sebbene preterintenzionalmente) la base ideologica di riferimento della cieca obbedienza al diritto nazista da parte dei giuristi tedeschi, i quali consideravano la volontà della legge formalmente intesa come volontà da seguire in ogni caso.
La tripartizione del potere statale si combina con la nozione di parlamentarismo democratico. A proposito di quest’ultimo lo stesso Montesquieu, guardando al modello sperimentato oltre Manica, difende i pregi di un regime rappresentativo imperniato su una Camera bassa, eletta dal popolo, ed una Camera alta, di composizione elitaria, alle quali va attribuito in forma congiunta il potere di fare le leggi. In tale sistema di governo, delle tre funzioni in cui si articola l’autorità statale è quella legislativa ad assumere piena valenza democratica, venendo esercitata da un corpo di rappresentanti del popolo che trova espressione nell’istituzione parlamentare. Ne deriva il primato della funzione legislativa in quanto manifestazione della volontà generale.
Il formalismo giuridico riprende i concetti di divisione dei poteri e di parlamentarismo democratico e li svuota di significato. Secondo l’ottica legalistico-formale il diritto, da identificarsi con la legge dello Stato, non è valido in funzione del suo contenuto, bensì in funzione della sola circostanza di essere stato posto in conformità ad un metodo specifico; tale metodo si oggettiva nell’iter parlamentare, il quale deve la propria forza legittimante al voto popolare. Applicando questo criterio, anche delle leggi come quelle promulgate durante la Germania di Hitler risulterebbero valide se votate da rappresentanti dei cittadini regolarmente eletti.
Il postulato legalista di cui si è parlato all’inizio, secondo cui la legge è tutto il diritto, non è un concetto astratto e privo d’importanza in quanto è stato per alcuni aspetti assorbito dalla legislazione contemporanea.
L’articolo 12 delle c.d. Preleggi al Codice Civile italiano stabilisce quanto segue:
«Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.
Se la controversia non può essere decisa con una precisa disposizione si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato».
Il legislatore, nel richiamare i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, ha inteso escludere il ricorso al diritto naturale. I principi generali dell’ordinamento giuridico statale formano una sorta di norma generale a cui ricorrere per regolare tutti quei casi i quali non sono espressamente regolati da norme giuridiche precise e non possono nemmeno risolversi per il tramite di disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe. Quanto alla loro individuazione, la dottrina prevalente ritiene che essi corrispondano a norme (positive) di tenore generale o di rango costituzionale.
Quanto alla possibilità del giudice di rifiutare di pronunciarsi, in tutte le codificazioni moderne egli ha l’obbligo di decidere in ogni caso. Si veda ad es. l’articolo 4 del Titolo Preliminare al Codice Civile francese, relativo alla pubblicazione, agli effetti e all’applicazione delle leggi in generale: esso dispone il divieto del non liquet, ossia della facoltà del giudice di non pronunciarsi in caso di dubbio. La norma in questione afferma che il giudice che rifiuti di giudicare sotto pretesto dell’oscurità della legge verrà ritenuto colpevole di denegata giustizia, divenendo passibile sul piano penale.
È precisamente la combinazione di questo genere di obbligo con il postulato legalista per il quale la legge è tutto il diritto a fondare il concetto di completezza della legge statale, in quanto affermare che il giudice non possa mai astenersi dal giudicare un caso sottoposto alla sua cognizione equivale ad affermare che il diritto, e dunque la legge, fornisca sempre una risposta applicabile, dal momento che tra diritto e legge vi è identità.
Nella critica della concezione legalista elaborata da Luigi Lombardi Vallauri assume importanza centrale il concetto di lacuna del diritto. Vallauri, per arrivare a smentire la tesi della completezza della legge, ipotizza in via provvisoria che tale completezza vi sia e che al giudice non servano altri strumenti al di fuori di una rigorosa logica applicata al testo legale. Ciò che in tal modo ottiene è la prova di come, al contrario, nella legge positiva esistano larghi spazi vuoti che l’interprete è chiamato a colmare con valutazioni autonome.
Le lacune sulle quali si concentra l’attività dimostrativa compiuta da Vallauri sono quelle intrasistematiche, che si constatano quando si voglia mantenere un punto di vista interno al sistema legale. Le lacune intrasistematiche si dividono a loro volta in statiche, che la legge presenta sul piano astratto, e dinamiche, che la legge presenta nel momento della propria attuazione pratica.
Un esempio di lacune statiche è rappresentato da quelle disposizioni di tenore generale o formulate dal legislatore in modo vago. Si pensi al concetto transnazionale di bona fides, che è stato oggetto di studio e definizione tanto in diritto quanto in filosofia. Se un determinato atto giuridico viene compiuto in buona fede, significa che la parte che lo compie ignora di ledere l’altrui diritto. Il Codice Civile italiano, all’articolo 1147, comma 1, fa espresso riferimento a tale aspetto, disponendo che «E’ possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto». La buona fede sarebbe dunque definibile come la convinzione di fare ciò che si è convinti debba essere fatto: in quanto convinzione, essa è fede, ed in quanto si rapporta a ciò che dovrebbe essere fatto, essa è buona. Colui che agisce in buona fede agirebbe pertanto con la convinzione di compiere il bene. Ma un simile concetto presenta un elevato grado d’indeterminatezza, prestando il fianco a mille dubbi circa l’individuazione, caso per caso, degli estremi concreti di tale comportamento. Quali sono, cioè, le condizioni che una data condotta umana deve soddisfare perché possa affermarsi la sussistenza in essa della buona fede? È illuminante il rilievo a questo proposito compiuto dal filosofo italiano Emanuele Severino. Rispetto all’affermazione che colui che agisce in buona fede agirebbe con la convinzione di compiere il bene, Severino nota come in realtà una tale persona non esista e non possa esistere, perché non esiste una forma di convinzione (ossia di fede) che riesca, in quanto tale, a liberarsi dal dubbio, in quanto è il dubbio stesso a fondare la fede. Anche se l’agente ha effettivamente agito nella convinzione di non ledere l’altrui diritto, tale convinzione, in quanto soggettiva, non è mai assoluta.
Di fronte all’alone d’incertezza che circonda il centro semantico dell’espressione “comportamento tenuto in buona fede”, il giudice non può evitare di determinare volta per volta, a sua discrezione, se il soggetto agente ignorasse o meno l’illiceità della propria condotta.
Oltre alla bona fides, i concetti giuridici dal contenuto incerto, che costringono il giudice ad una valutazione discrezionale dei fatti, sono numerosi: per es., il concetto di buon costume, di stato di necessità, di forza maggiore, colpa, diligenza del buon padre di famiglia.
Altri casi di lacunosità statica della legge sono rappresentati dal rinvio, implicito od esplicito, da parte del legislatore alla “dottrina e giurisdizione”, frequente quando l’organo legiferante non intenda risolvere normativamente controversie dottrinali di fondo, e dall’assunzione nel testo legale di “principi” o “massime”.
Vi sono poi delle lacune della legge che derivano dalla mancanza da parte del legislatore di aggiornate conoscenze tecnico-scientifiche, sociologiche e psicologiche circa i fatti in riferimento ai quali è chiamato ad intervenire.
Il perfetto legislatore, oltre a conoscere in modo impeccabile la totalità delle complesse dinamiche che regolano la società contemporanea, dovrebbe anche conoscere integralmente il corpus legale preesistente perché non si creino antinomie, ossia episodi d’incompatibilità logica tra norme di legge. Può razionalmente pretendersi che il legislatore conosca ogni singola legge che forma parte del sistema legale all’interno del quale opera? Si tratta di un insieme spesso vastissimo, composto di migliaia di leggi, delle quali possono sfuggire parti importanti nell’urgenza di legiferare. Proprio per questo gli ordinamenti giuridici, tutti, contengono delle antinomie, che Vallauri equipara alle lacune in quanto quando la legge non fornisce un criterio preciso per risolverle, l’interprete manca di una norma univoca da applicare. In genere i sistemi giuridici prevedono regole o principi che indicano un certo modo di risolvere le antinomie, cioè criteri per stabilire, tra due norme incompatibili, quale norma debba prevalere sull’altra (ad es. il criterio secondo cui la legge “superiore” prevale su quella “inferiore” o quello per cui la legge “speciale” prevale sulla legge “generale”). Un sistema giuridico potrebbe essere considerato come davvero coerente se contenesse regole che consentano di superare ogni possibile antinomia: in un sistema di questo tipo, la creazione di norme incompatibili da parte di organi competenti darebbe luogo ad antinomie soltanto apparenti, destinate a scomparire una volta utilizzate le regole preposte al loro superamento. Quanto più un ordinamento è complesso, caratterizzato da una pluralità di fonti e da una grande quantità di norme, tanto più è probabile che esso presenti contrasti tra norme e, al tempo stesso, che possieda principi per la loro soluzione; la prassi giudiziaria ha però dimostrato come tali principi non siano mai in grado di risolvere le antinomie in maniera univoca.
Oltre che nella sua conoscenza completa tanto dei complessi aspetti della fenomenologia sociale quanto del corpus giuridico preesistente, il legislatore è limitato anche nella capacità di formulare il proprio volere senza generare controversie interpretative. Tale limite discende dalle caratteristiche che sono proprie del linguaggio verbale: ciascuna lingua ha infatti un numero finito di fonemi, dove il fonema è un’unità linguistica che può produrre variazioni di significato se scambiata con un’altra unità; a partire da un numero finito di fonemi è possibile costruire un numero infinito di parole; la relazione tra ciascuna parola ed il proprio significato è arbitraria; in qualsiasi lingua è possibile produrre un numero infinito di frasi. In altri termini, nella comunicazione umana è presente un grado ineliminabile di ambiguità. Considerato il particolare contesto che presiede al nascere del dettato della legge, caratterizzato dal conflitto di intenzioni e di interessi ideologici, politici ed economici tra le varie forze politiche in parlamento, l’ambiguità del processo di scrittura delle leggi è aggravata dalla mancanza di una volontà politica unitaria.
Le lacune dinamiche si possono suddividere in due categorie: le incognite dell’individuale e le incognite del divenire.
Le prime riguardano il confronto delle previsioni legislative con i casi di specie. Partendo dal postulato che la legge sia completa, il caso concreto analizzato dovrebbe rientrare nella norma generale attraverso una particolare tecnica argomentativa nota come sillogismo:
α) secondo la norma x, il locatore di un bene è colui il quale si obbliga a far utilizzare ad un altro soggetto una cosa per un determinato tempo;
β) Tizio è un locatore, in quanto la sua condotta integra perfettamente gli estremi della condotta del locatore;
γ) alla condotta di Tizio deve applicarsi la norma x.
Dalle proposizioni α) e β), assunte come premesse, si desume γ), la quale ne costituisce la conclusione. Vallauri si riferisce a tale operazione deduttiva con l’espressione di sillogismo giudiziario. Il problema che si pone nella vita reale è che i casi di specie rimessi all’apprezzamento del giudice da un lato sono prodotti dall’intreccio di più norme giuridiche, dall’altro implicano una serie di circostanze complesse di cui almeno una parte sfugge alla previsione normativa.
Questo fenomeno si verifica tanto nelle controversie riguardanti ipotesi normative tipizzate dal legislatore, quali ad es. l’omicidio colposo o la violenza sessuale (che non sono mai di facile soluzione per via della loro carica morale), quanto nei casi di fattispecie normative non chiaramente individuate. Si pensi alla figura della c.d. risarcibilità del danno da nascita indesiderata, che ricorre quando la gestante viene privata della possibilità d’interrompere la gravidanza per via dell’omessa diagnosi di malformazioni congenite del feto. In riferimento a questa fattispecie, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione italiana hanno, con la sentenza n. 25767 del dicembre 2015, analizzato il caso di due genitori la cui bambina è nata affetta dalla sindrome di Down, i quali chiedevano al personale sanitario il risarcimento dei danni assumendo che la madre fosse stata avviata al parto senza esaminare le condizioni di salute del feto.
Nell’ordinamento italiano, come in molti ordinamenti stranieri, il legislatore non prevede una normativa ad hoc per il risarcimento del danno da nascita indesiderata, limitandosi a regolare l’istituto generale della responsabilità civile: a causa di questo vuoto legislativo restano insolute importanti questioni interpretative. In primo luogo quella della classificazione della responsabilità medica come responsabilità di tipo contrattuale o come responsabilità aquiliana. In secondo luogo, le questioni del riparto dell’onere probatorio e della legittimazione del figlio al risarcimento del danno per impossibilità ad un’esistenza sana e dignitosa.
Si tratta di problemi complessi, rispetto ai quali il ragionamento del sillogismo giudiziario sarebbe del tutto inefficace.
Con riferimento alle incognite del divenire, esse riguardano il rapporto della legge con l’evoluzione della realtà sociale, culturale, storica e scientifica. Si pensi al concetto di sciopero: mentre ora è considerato un diritto il cui esercizio è, ancorché nel rispetto di limiti determinati, legittimo, in principio era invece qualificato come lesione della proprietà privata ed inadempimento contrattuale. È inevitabile che nel corso del tempo si producano nuovi fatti e nuovi criteri, ma il legislatore non può occuparsi di tutti (solo in quest’ipotesi le lacune dinamiche non esisterebbero), perché i tempi tecnici di produzione di un testo di legge non sono tali che si possa realizzare una sorta di legislazione a getto continuo.
Alla luce dell’insieme delle considerazioni fin’ora svolte, appare evidente che la legge sia lacunosa, sia se considerata quale testo astratto sia se considerata quale corpus di disposizioni da confrontare con la vita pratica. Tali lacune devono essere necessariamente colmate dal libero apprezzamento dell’interprete, il quale interviene a riempire i vuoti normativi dell’ordinamento giuridico con proprie valutazioni, riflessioni, analisi.
Vallauri esamina, tra gli altri, l’espediente di auto integrazione delle lacune chiamato référé législatif, che prevede la possibilità che il giudice ricorra al legislatore qualora sia in dubbio, dunque qualora sia dinanzi ad una lacuna della legge. Questo tipo di disposizione si trova nella maggior parte delle codificazioni più antiche, fino ad arrivare a quelle illuministiche. Se il giudice può rivolgersi all’organo legiferante affinché questi intervenga a chiarire i punti oscuri di una data norma di legge, il legislatore diviene, oltre all’autorità che prevede e disciplina in via generale i casi umani, anche l’autorità che risolve il litigio singolo tra due cittadini. In altre parole il legislatore si trasformerebbe in giudice, il che costituirebbe un paradosso se si tiene conto che il référé législatif appartiene pienamente alla logica legalista e che il legalismo ha come base ideologica proprio la teoria della separazione dei poteri. Senza contare le disastrose implicazioni pratiche a cui quest’istituto potrebbe condurre (e ha effettivamente condotto nel passato): dinanzi alla mole di lavoro che quotidianamente intasa le corti giudiziarie, i giudici più timorati, o pigri, coglierebbero ogni occasione per proclamare la natura dubbia del caso sottoposto alla loro cognizione così da rimetterlo all’analisi del parlamento.
Nella sua dimostrazione Vallauri guarda con speciale interesse anche ad un’altra soluzione escogitata per colmare le lacune senza far intervenire una valutazione autonoma del giurista: la c.d. “negazione logica” delle lacune. Le lacune non possono esistere se non in apparenza, in quanto l’ordinamento contiene una norma generale di chiusura in cui è possibile sussumere tutti i casi non previsti da norme particolari. Una variante degna di nota di tale concezione è quella elaborata da Hans Kelsen.
Nella visione kelseniana del diritto, affinché una norma esista come norma è necessaria e sufficiente la sua conformità ad una norma di grado superiore che ne stabilisca almeno il modo della produzione; senza questa norma legittimante o convalidante, l’atto di posizione della norma sarebbe semplice fatto, incapace di produrre una proposizione dotata di esistenza normativa. È quindi necessario, per ogni norma, risalire ad una norma superiore, secondo una costruzione a gradi dell’ordinamento ch’egli chiama Stufenbau. Onde evitare un processo in infinitum, Kelsen ricorre all’artificio logico della c.d. “norma fondamentale” o Grundnorm. Quest’ultima è una norma non fondata su altra norma, quindi non valida essa stessa, eppure capace di conferire validità alla Costituzione e attraverso essa a tutte le norme dell’ordinamento. La Grundnorm non può consistere in una norma di tipo giusnaturalistico, essendo Kelsen un giuspositivista. Si veda la sua definizione di dottrina pura del diritto: pura poiché è una teoria del diritto positivo che cerca unicamente di rispondere alle domande “che cosa è” e “come è” il diritto, e non alle domande “come esso deve essere” o “come esso deve essere costituito”. La norma fondamentale non può quindi essere concepita in termini di norma di comportamento, assumendo piuttosto un carattere puramente ipotetico; essa, a differenza di tutte le altre norme che compongono l’ordinamento, non è posta ma presupposta. La Grundnorm non sarebbe altro che un presupposto della conoscenza giuridica, essendo priva di ogni elemento naturale.
La teoria di Kelsen può, alla luce di questi rilievi, riassumersi nei seguenti passaggi logici essenziali:
1. Una norma ha il suo fondamento di validità nella validità di un’altra norma.
2. La ricerca del fondamento di validità di una norma non può, però, proseguire all’infinito: ha termine in una norma ultima, suprema, presupposta come valida (norma fondamentale). Se ci sono norme valide, c’è una norma ultima, o prima, la cui validità è presupposta.
3. Tutte (e solo) le norme la cui validità può essere ricondotta ad un’unica e medesima norma fondamentale costituiscono un ordinamento (sistema) normativo (la norma fondamentale è il loro comune fondamento di validità).
In merito al problema specifico dell’integrazione delle lacune, Kelsen è tra i sostenitori della norma generale di chiusura come norma generale di libertà: tutto ciò che non è regolato dalla legge è permesso. Le conseguenze pratiche sono paradossali: in assenza di una specifica norma di legge, il giudice dovrebbe sempre respingere la pretesa attorea, se si tratta di causa civile, o la tesi presentata dalla pubblica accusa, se si tratta di causa penale. Rispetto a tale concezione Vallauri riprende un’argomentazione già espressa da François Gény, autore di una critica della tesi della completezza dell’ordinamento giuridico e sostenitore del principio secondo cui le lacune presenti nella legge debbano colmarsi non solo per auto integrazione ma anche per etero integrazione. Secondo Vallauri, la teoria in base alla quale tutto ciò che non è regolato dalla legge viene fatto oggetto di automatica sussunzione in una generale norma permissiva implica, se collocata nel quadro della completezza della legge, che l’assenza di una previsione normativa (lungi dall’essere una lacuna, poiché la legge è completa ed in quanto tale priva di lacune) è da leggersi come l’espressione di una tacita volontà di prevedere quel certo comportamento come permesso, nel senso di tutelato contro chiunque altro voglia impedirlo. Ciò equivarrebbe a sostituire alla non-previsione da parte del legislatore una previsione di quella condotta come tutelata contro altrui comportamenti confliggenti, facendo compiere alla condotta stessa quello che Vallauri definisce un “salto deontico”: il comportamento viene fatto passare dalla non qualificazione, che è mancanza di status deontico, a quel preciso status deontico che è il permesso. Gli effetti che ne deriverebbero renderebbero la tutela del giudice arbitraria ed incoerente. Inoltre la prassi giudiziaria ha smentito l’esistenza di questa norma generale esclusiva in quanto, di fronte ad un caso non regolato, i giuristi si sono sempre sforzati di regolarlo nel modo che gli sembrava di volta in volta più adeguato alle particolari circostanze di fatto.
Un altro importante espediente di auto integrazione delle lacune della legge è quello dell’analogia, definibile come l’estensione di principi che possono trarsi dalla legge a casi che si distinguono da quelli decisi dalla legge stessa in modo soltanto inessenziale (v. Windscheid). Un esempio efficace riportato da Vallauri a tal proposito è quello di una norma relativa alla sala d’aspetto delle stazioni, la quale afferma «vietato introdurre cani». Un uomo con un orso ammaestrato alla catena chiede di entrare nella sala; potrà farlo senza infrangere la norma? La risposta è negativa se si ritiene che il legislatore scrivendo “cani” abbia voluto riferirsi anche ad altri animali (se cioè si ritiene la differenza tra cani ed orsi inessenziale). Il ragionamento analogico prevede che si sostituisca il soggetto della proposizione normativa con un soggetto che abbia “estensione” maggiore: in questo caso al soggetto “cani” si sostituisce la categoria generale cui i cani appartengono, ossia quella di “animali”. Il principio che così si desume dalla norma è «vietato introdurre animali», il quale si applica anche all’ipotesi dell’orso ammaestrato.
La difficoltà che s’incontra nell’uso dell’analogia è data dal fatto che stabilire se, per restare nell’esempio, le differenze tra cani ed orsi siano inessenziali è un passaggio arbitrario (si può solo ritenere che sia così). Ogni qualvolta è possibile ricorrere all’analogia è altrettanto legittimo, sul piano strettamente logico, utilizzare il c.d. argomento a contrario, che conduce al risultato opposto. L’argomento a contrario è una tecnica interpretativa la quale si fonda sull’assunto che il legislatore abbia detto esattamente ciò che intendeva dire, sicché ciò che non ha detto evidentemente non voleva dirlo, in quanto se avesse voluto dirlo l’avrebbe detto. Tornando ancora una volta al caso dei cani e degli orsi, in base a tale linea argomentativa se il legislatore avesse voluto vietare l’ingresso nella sala d’aspetto delle stazioni, oltre ai cani, anche agli orsi, l’avrebbe specificato; se non l’ha fatto, è perché non ne aveva l’intenzione. Da questo punto di vista l’applicazione della tecnica analogica sarebbe contraria alla volontà del legislatore.
Partendo dai rilievi fin qui svolti possono trarsi le seguenti conclusioni:
I. La legge non è completa, presentando degli spazi vuoti o lacune.
II. L’auto integrazione delle lacune non è ipotizzabile in quanto condurrebbe a conseguenze paradossali, sia se intesa nella forma di una norma generale che interviene a “chiudere” l’ordinamento giuridico, sia se intesa nella forma di operazioni puramente logiche, paragonabili alle trasformazioni della matematica, mediante cui trarre dalla legge nuovo diritto.
III. Le lacune devono necessariamente venire colmate per mezzo del compimento di valutazioni autonome ad opera dell’interprete.
Vallauri spiega come il “valore”, ossia il diritto “naturale”, s’inserisca nel diritto positivo come necessario criterio d’integrazione. In tale quadro prende forma un altro concetto, quello di “politica” come attuazione di valori in un dato contesto storico: l’attività del giurista, scrive Vallauri, è sempre politica del diritto. Viene così smentito il postulato legalista più volte menzionato secondo il quale la legge è tutto il diritto, in quanto il diritto si compone anche di un corredo di valori fondamentali a cui sono ispirate le valutazioni del giudice.
Da ultimo può compiersi un’osservazione sul nesso tra il legalismo ed il parlamentarismo democratico. Il primato del legislativo, sfociato in celebrazione della legge e del codice, è anche conseguenza del passaggio storico che ha sancito l’imporsi dei parlamenti democratici. La volontà parlamentare espressa nella legge deve prevalere poiché sono i cittadini stessi ad eleggere il parlamento.
Questa giustificazione perde di vigore se si considera che in alcuni sistemi contemporanei caratterizzati dalla particolare numerosità delle leggi, come quello italiano, si assiste al c.d. fenomeno della delegificazione. Per delegificazione s’intende lo strumento di semplificazione normativa che determina (oltre ad un’alterazione degli equilibri costituzionali propri del sistema di separazione dei poteri) il trasferimento, in settori determinati normalmente rimessi alla legge, del potere normativo dall’assemblea parlamentare al governo.
Visto il largo uso che viene fatto di questo strumento, il numero di disposizioni emanate dal governo in qualità di surrogato del parlamento è destinato a crescere, con l’effetto di privare le norme positive della loro essenza democratica. Non è più il popolo a legiferare attraverso i rappresentanti parlamentari, bensì la cerchia dei titolari del potere esecutivo. La prassi della delegificazione nella società contemporanea smentisce così ulteriormente le tesi dei legalisti: di fronte ad un governo che si appropria delle funzioni naturalmente spettanti al parlamento, l’assunto secondo il quale la legge democratica è buona in quanto tale, poiché decisa da rappresentanti dei cittadini, non può più trovare accoglimento.
Bibliografia
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Il “dogma” della completezza della legge è proprio della concezione statualistica dell’ordinamento, secondo la quale è diritto ciò che corrisponde al comando emanato dall’autorità costituita, ossia dallo Stato.
In primo luogo occorre fare chiarezza riguardo ai tre concetti fondamentali appena menzionati: ordinamento, diritto, legge. Il diritto in senso oggettivo – da non confondersi con il diritto in senso soggettivo, il quale si sostanzia in un potere o signoria della volontà del singolo – è l’ordinamento giuridico. Con ordinamento giuridico s’intende un insieme o sistema di norme (di condotta e di struttura, generali e individuali) che, nel rispetto o per la realizzazione di alcuni fondamentali valori, organizza un corpo sociale. Tale definizione implica l’identità tra, da un lato, il concetto di diritto in senso oggettivo e, dall’altro lato, quello di ordinamento giuridico; resta da definire la posizione che rispetto ad essi occupa la legge. Ed è proprio su quest’aspetto che s’innesta il nucleo centrale della questione qui dibattuta: può la legge definirsi completa? Può, in altre parole, accettarsi la teoria legalista, per la quale non vi è diritto al di fuori della legge? Aderendo alle asserzioni legaliste vi sarebbe identità perfetta tra legge e diritto, dunque, in ultima analisi, tra legge ed ordinamento, posta l’identificazione del diritto in senso oggettivo con quest’ultimo. Ne consegue l’esclusione dell’esistenza di altre fonti del diritto diverse dalla legge statale, quali ad es. la consuetudine, le correnti normative consolidate dalle pronunce giurisprudenziali, la prassi amministrativa, l’equità. Alla luce di tali considerazioni, il motivo della riconduzione della tesi della completezza della legge alla concezione statualistica dell’ordinamento è evidente: eliminando ogni altra fonte del diritto diversa dalla legge statale, si riconosce allo Stato il potere esclusivo di organizzare il funzionamento della società civile.
Le origini del pensiero legalista sono da individuarsi nel movimento intellettuale che ha condotto all’elaborazione del principio della separazione dei poteri: le funzioni fondamentali svolte dall’autorità statale, individuate nella funzione legislativa, nella funzione esecutiva ed in quella giudiziaria, devono essere affidate ad organismi tra loro diversi ed indipendenti. La ripartizione del potere sovrano in potere legislativo, esecutivo e giudiziario, teorizzata da John Locke (Two Treatises on Government, 1690) e mezzo secolo più tardi rielaborata con originalità sul continente da Montesquieu (De l’Esprit des lois, 1748), segna il superamento dell’assolutismo e sta alla base del costituzionalismo moderno. Con particolare riferimento a Montesquieu, egli reclama la scissione dell’autorità sovrana in tre nuclei distinti in base alla logica secondo cui è il potere a bloccare il potere stesso: ciò che consente di limitare il potere sovrano è un meccanismo di scomposizione dello stesso in più sfere separate, in modo che ciascuna di esse circoscriva l’estensione delle altre. Tali sfere non devono pertanto concentrarsi né nella stessa persona né nello stesso gruppo di individui, in quanto se il potere di fare le leggi, quello di eseguire le decisioni pubbliche e quello di giudicare i delitti o le controversie dei privati facessero capo allo stesso soggetto, o allo stesso insieme di soggetti, non vi sarebbe libertà. Lo scopo ultimo è quello di proteggere i cittadini dagli arbitri perpetrati dagli organi del potere costituito.
De l’Esprit des lois riprende la classificazione aristotelica dei regimi politici, distinguendo tra il governo repubblicano, a sua volta distinto a seconda che il potere risieda nell’intero popolo (democrazia) o nella sola componente aristocratica, il governo monarchico e quello dispotico. Nel contesto repubblicano il giudice vede il proprio ruolo relegato ad una condizione di passività, dovendo limitarsi ad un’applicazione meccanica ed impersonale della legge. Celebre l’espressione montesquiana che assegna al magistrato la mera funzione di bocca della legge, o bouche de la loi.
La dottrina della divisione dei poteri conduce al rischio di educare il giudice ad una sorta di automatismo nei confronti del diritto, posto che il compito di riflettere criticamente sulla legge è di spettanza di chi elabora la legge stessa. Gli effetti sono paradossali: il positivismo legalista ha rappresentato (sebbene preterintenzionalmente) la base ideologica di riferimento della cieca obbedienza al diritto nazista da parte dei giuristi tedeschi, i quali consideravano la volontà della legge formalmente intesa come volontà da seguire in ogni caso.
La tripartizione del potere statale si combina con la nozione di parlamentarismo democratico. A proposito di quest’ultimo lo stesso Montesquieu, guardando al modello sperimentato oltre Manica, difende i pregi di un regime rappresentativo imperniato su una Camera bassa, eletta dal popolo, ed una Camera alta, di composizione elitaria, alle quali va attribuito in forma congiunta il potere di fare le leggi. In tale sistema di governo, delle tre funzioni in cui si articola l’autorità statale è quella legislativa ad assumere piena valenza democratica, venendo esercitata da un corpo di rappresentanti del popolo che trova espressione nell’istituzione parlamentare. Ne deriva il primato della funzione legislativa in quanto manifestazione della volontà generale.
Il formalismo giuridico riprende i concetti di divisione dei poteri e di parlamentarismo democratico e li svuota di significato. Secondo l’ottica legalistico-formale il diritto, da identificarsi con la legge dello Stato, non è valido in funzione del suo contenuto, bensì in funzione della sola circostanza di essere stato posto in conformità ad un metodo specifico; tale metodo si oggettiva nell’iter parlamentare, il quale deve la propria forza legittimante al voto popolare. Applicando questo criterio, anche delle leggi come quelle promulgate durante la Germania di Hitler risulterebbero valide se votate da rappresentanti dei cittadini regolarmente eletti.
Il postulato legalista di cui si è parlato all’inizio, secondo cui la legge è tutto il diritto, non è un concetto astratto e privo d’importanza in quanto è stato per alcuni aspetti assorbito dalla legislazione contemporanea.
L’articolo 12 delle c.d. Preleggi al Codice Civile italiano stabilisce quanto segue:
«Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.
Se la controversia non può essere decisa con una precisa disposizione si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato».
Il legislatore, nel richiamare i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato, ha inteso escludere il ricorso al diritto naturale. I principi generali dell’ordinamento giuridico statale formano una sorta di norma generale a cui ricorrere per regolare tutti quei casi i quali non sono espressamente regolati da norme giuridiche precise e non possono nemmeno risolversi per il tramite di disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe. Quanto alla loro individuazione, la dottrina prevalente ritiene che essi corrispondano a norme (positive) di tenore generale o di rango costituzionale.
Quanto alla possibilità del giudice di rifiutare di pronunciarsi, in tutte le codificazioni moderne egli ha l’obbligo di decidere in ogni caso. Si veda ad es. l’articolo 4 del Titolo Preliminare al Codice Civile francese, relativo alla pubblicazione, agli effetti e all’applicazione delle leggi in generale: esso dispone il divieto del non liquet, ossia della facoltà del giudice di non pronunciarsi in caso di dubbio. La norma in questione afferma che il giudice che rifiuti di giudicare sotto pretesto dell’oscurità della legge verrà ritenuto colpevole di denegata giustizia, divenendo passibile sul piano penale.
È precisamente la combinazione di questo genere di obbligo con il postulato legalista per il quale la legge è tutto il diritto a fondare il concetto di completezza della legge statale, in quanto affermare che il giudice non possa mai astenersi dal giudicare un caso sottoposto alla sua cognizione equivale ad affermare che il diritto, e dunque la legge, fornisca sempre una risposta applicabile, dal momento che tra diritto e legge vi è identità.
Nella critica della concezione legalista elaborata da Luigi Lombardi Vallauri assume importanza centrale il concetto di lacuna del diritto. Vallauri, per arrivare a smentire la tesi della completezza della legge, ipotizza in via provvisoria che tale completezza vi sia e che al giudice non servano altri strumenti al di fuori di una rigorosa logica applicata al testo legale. Ciò che in tal modo ottiene è la prova di come, al contrario, nella legge positiva esistano larghi spazi vuoti che l’interprete è chiamato a colmare con valutazioni autonome.
Le lacune sulle quali si concentra l’attività dimostrativa compiuta da Vallauri sono quelle intrasistematiche, che si constatano quando si voglia mantenere un punto di vista interno al sistema legale. Le lacune intrasistematiche si dividono a loro volta in statiche, che la legge presenta sul piano astratto, e dinamiche, che la legge presenta nel momento della propria attuazione pratica.
Un esempio di lacune statiche è rappresentato da quelle disposizioni di tenore generale o formulate dal legislatore in modo vago. Si pensi al concetto transnazionale di bona fides, che è stato oggetto di studio e definizione tanto in diritto quanto in filosofia. Se un determinato atto giuridico viene compiuto in buona fede, significa che la parte che lo compie ignora di ledere l’altrui diritto. Il Codice Civile italiano, all’articolo 1147, comma 1, fa espresso riferimento a tale aspetto, disponendo che «E’ possessore di buona fede chi possiede ignorando di ledere l’altrui diritto». La buona fede sarebbe dunque definibile come la convinzione di fare ciò che si è convinti debba essere fatto: in quanto convinzione, essa è fede, ed in quanto si rapporta a ciò che dovrebbe essere fatto, essa è buona. Colui che agisce in buona fede agirebbe pertanto con la convinzione di compiere il bene. Ma un simile concetto presenta un elevato grado d’indeterminatezza, prestando il fianco a mille dubbi circa l’individuazione, caso per caso, degli estremi concreti di tale comportamento. Quali sono, cioè, le condizioni che una data condotta umana deve soddisfare perché possa affermarsi la sussistenza in essa della buona fede? È illuminante il rilievo a questo proposito compiuto dal filosofo italiano Emanuele Severino. Rispetto all’affermazione che colui che agisce in buona fede agirebbe con la convinzione di compiere il bene, Severino nota come in realtà una tale persona non esista e non possa esistere, perché non esiste una forma di convinzione (ossia di fede) che riesca, in quanto tale, a liberarsi dal dubbio, in quanto è il dubbio stesso a fondare la fede. Anche se l’agente ha effettivamente agito nella convinzione di non ledere l’altrui diritto, tale convinzione, in quanto soggettiva, non è mai assoluta.
Di fronte all’alone d’incertezza che circonda il centro semantico dell’espressione “comportamento tenuto in buona fede”, il giudice non può evitare di determinare volta per volta, a sua discrezione, se il soggetto agente ignorasse o meno l’illiceità della propria condotta.
Oltre alla bona fides, i concetti giuridici dal contenuto incerto, che costringono il giudice ad una valutazione discrezionale dei fatti, sono numerosi: per es., il concetto di buon costume, di stato di necessità, di forza maggiore, colpa, diligenza del buon padre di famiglia.
Altri casi di lacunosità statica della legge sono rappresentati dal rinvio, implicito od esplicito, da parte del legislatore alla “dottrina e giurisdizione”, frequente quando l’organo legiferante non intenda risolvere normativamente controversie dottrinali di fondo, e dall’assunzione nel testo legale di “principi” o “massime”.
Vi sono poi delle lacune della legge che derivano dalla mancanza da parte del legislatore di aggiornate conoscenze tecnico-scientifiche, sociologiche e psicologiche circa i fatti in riferimento ai quali è chiamato ad intervenire.
Il perfetto legislatore, oltre a conoscere in modo impeccabile la totalità delle complesse dinamiche che regolano la società contemporanea, dovrebbe anche conoscere integralmente il corpus legale preesistente perché non si creino antinomie, ossia episodi d’incompatibilità logica tra norme di legge. Può razionalmente pretendersi che il legislatore conosca ogni singola legge che forma parte del sistema legale all’interno del quale opera? Si tratta di un insieme spesso vastissimo, composto di migliaia di leggi, delle quali possono sfuggire parti importanti nell’urgenza di legiferare. Proprio per questo gli ordinamenti giuridici, tutti, contengono delle antinomie, che Vallauri equipara alle lacune in quanto quando la legge non fornisce un criterio preciso per risolverle, l’interprete manca di una norma univoca da applicare. In genere i sistemi giuridici prevedono regole o principi che indicano un certo modo di risolvere le antinomie, cioè criteri per stabilire, tra due norme incompatibili, quale norma debba prevalere sull’altra (ad es. il criterio secondo cui la legge “superiore” prevale su quella “inferiore” o quello per cui la legge “speciale” prevale sulla legge “generale”). Un sistema giuridico potrebbe essere considerato come davvero coerente se contenesse regole che consentano di superare ogni possibile antinomia: in un sistema di questo tipo, la creazione di norme incompatibili da parte di organi competenti darebbe luogo ad antinomie soltanto apparenti, destinate a scomparire una volta utilizzate le regole preposte al loro superamento. Quanto più un ordinamento è complesso, caratterizzato da una pluralità di fonti e da una grande quantità di norme, tanto più è probabile che esso presenti contrasti tra norme e, al tempo stesso, che possieda principi per la loro soluzione; la prassi giudiziaria ha però dimostrato come tali principi non siano mai in grado di risolvere le antinomie in maniera univoca.
Oltre che nella sua conoscenza completa tanto dei complessi aspetti della fenomenologia sociale quanto del corpus giuridico preesistente, il legislatore è limitato anche nella capacità di formulare il proprio volere senza generare controversie interpretative. Tale limite discende dalle caratteristiche che sono proprie del linguaggio verbale: ciascuna lingua ha infatti un numero finito di fonemi, dove il fonema è un’unità linguistica che può produrre variazioni di significato se scambiata con un’altra unità; a partire da un numero finito di fonemi è possibile costruire un numero infinito di parole; la relazione tra ciascuna parola ed il proprio significato è arbitraria; in qualsiasi lingua è possibile produrre un numero infinito di frasi. In altri termini, nella comunicazione umana è presente un grado ineliminabile di ambiguità. Considerato il particolare contesto che presiede al nascere del dettato della legge, caratterizzato dal conflitto di intenzioni e di interessi ideologici, politici ed economici tra le varie forze politiche in parlamento, l’ambiguità del processo di scrittura delle leggi è aggravata dalla mancanza di una volontà politica unitaria.
Le lacune dinamiche si possono suddividere in due categorie: le incognite dell’individuale e le incognite del divenire.
Le prime riguardano il confronto delle previsioni legislative con i casi di specie. Partendo dal postulato che la legge sia completa, il caso concreto analizzato dovrebbe rientrare nella norma generale attraverso una particolare tecnica argomentativa nota come sillogismo:
α) secondo la norma x, il locatore di un bene è colui il quale si obbliga a far utilizzare ad un altro soggetto una cosa per un determinato tempo;
β) Tizio è un locatore, in quanto la sua condotta integra perfettamente gli estremi della condotta del locatore;
γ) alla condotta di Tizio deve applicarsi la norma x.
Dalle proposizioni α) e β), assunte come premesse, si desume γ), la quale ne costituisce la conclusione. Vallauri si riferisce a tale operazione deduttiva con l’espressione di sillogismo giudiziario. Il problema che si pone nella vita reale è che i casi di specie rimessi all’apprezzamento del giudice da un lato sono prodotti dall’intreccio di più norme giuridiche, dall’altro implicano una serie di circostanze complesse di cui almeno una parte sfugge alla previsione normativa.
Questo fenomeno si verifica tanto nelle controversie riguardanti ipotesi normative tipizzate dal legislatore, quali ad es. l’omicidio colposo o la violenza sessuale (che non sono mai di facile soluzione per via della loro carica morale), quanto nei casi di fattispecie normative non chiaramente individuate. Si pensi alla figura della c.d. risarcibilità del danno da nascita indesiderata, che ricorre quando la gestante viene privata della possibilità d’interrompere la gravidanza per via dell’omessa diagnosi di malformazioni congenite del feto. In riferimento a questa fattispecie, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione italiana hanno, con la sentenza n. 25767 del dicembre 2015, analizzato il caso di due genitori la cui bambina è nata affetta dalla sindrome di Down, i quali chiedevano al personale sanitario il risarcimento dei danni assumendo che la madre fosse stata avviata al parto senza esaminare le condizioni di salute del feto.
Nell’ordinamento italiano, come in molti ordinamenti stranieri, il legislatore non prevede una normativa ad hoc per il risarcimento del danno da nascita indesiderata, limitandosi a regolare l’istituto generale della responsabilità civile: a causa di questo vuoto legislativo restano insolute importanti questioni interpretative. In primo luogo quella della classificazione della responsabilità medica come responsabilità di tipo contrattuale o come responsabilità aquiliana. In secondo luogo, le questioni del riparto dell’onere probatorio e della legittimazione del figlio al risarcimento del danno per impossibilità ad un’esistenza sana e dignitosa.
Si tratta di problemi complessi, rispetto ai quali il ragionamento del sillogismo giudiziario sarebbe del tutto inefficace.
Con riferimento alle incognite del divenire, esse riguardano il rapporto della legge con l’evoluzione della realtà sociale, culturale, storica e scientifica. Si pensi al concetto di sciopero: mentre ora è considerato un diritto il cui esercizio è, ancorché nel rispetto di limiti determinati, legittimo, in principio era invece qualificato come lesione della proprietà privata ed inadempimento contrattuale. È inevitabile che nel corso del tempo si producano nuovi fatti e nuovi criteri, ma il legislatore non può occuparsi di tutti (solo in quest’ipotesi le lacune dinamiche non esisterebbero), perché i tempi tecnici di produzione di un testo di legge non sono tali che si possa realizzare una sorta di legislazione a getto continuo.
Alla luce dell’insieme delle considerazioni fin’ora svolte, appare evidente che la legge sia lacunosa, sia se considerata quale testo astratto sia se considerata quale corpus di disposizioni da confrontare con la vita pratica. Tali lacune devono essere necessariamente colmate dal libero apprezzamento dell’interprete, il quale interviene a riempire i vuoti normativi dell’ordinamento giuridico con proprie valutazioni, riflessioni, analisi.
Vallauri esamina, tra gli altri, l’espediente di auto integrazione delle lacune chiamato référé législatif, che prevede la possibilità che il giudice ricorra al legislatore qualora sia in dubbio, dunque qualora sia dinanzi ad una lacuna della legge. Questo tipo di disposizione si trova nella maggior parte delle codificazioni più antiche, fino ad arrivare a quelle illuministiche. Se il giudice può rivolgersi all’organo legiferante affinché questi intervenga a chiarire i punti oscuri di una data norma di legge, il legislatore diviene, oltre all’autorità che prevede e disciplina in via generale i casi umani, anche l’autorità che risolve il litigio singolo tra due cittadini. In altre parole il legislatore si trasformerebbe in giudice, il che costituirebbe un paradosso se si tiene conto che il référé législatif appartiene pienamente alla logica legalista e che il legalismo ha come base ideologica proprio la teoria della separazione dei poteri. Senza contare le disastrose implicazioni pratiche a cui quest’istituto potrebbe condurre (e ha effettivamente condotto nel passato): dinanzi alla mole di lavoro che quotidianamente intasa le corti giudiziarie, i giudici più timorati, o pigri, coglierebbero ogni occasione per proclamare la natura dubbia del caso sottoposto alla loro cognizione così da rimetterlo all’analisi del parlamento.
Nella sua dimostrazione Vallauri guarda con speciale interesse anche ad un’altra soluzione escogitata per colmare le lacune senza far intervenire una valutazione autonoma del giurista: la c.d. “negazione logica” delle lacune. Le lacune non possono esistere se non in apparenza, in quanto l’ordinamento contiene una norma generale di chiusura in cui è possibile sussumere tutti i casi non previsti da norme particolari. Una variante degna di nota di tale concezione è quella elaborata da Hans Kelsen.
Nella visione kelseniana del diritto, affinché una norma esista come norma è necessaria e sufficiente la sua conformità ad una norma di grado superiore che ne stabilisca almeno il modo della produzione; senza questa norma legittimante o convalidante, l’atto di posizione della norma sarebbe semplice fatto, incapace di produrre una proposizione dotata di esistenza normativa. È quindi necessario, per ogni norma, risalire ad una norma superiore, secondo una costruzione a gradi dell’ordinamento ch’egli chiama Stufenbau. Onde evitare un processo in infinitum, Kelsen ricorre all’artificio logico della c.d. “norma fondamentale” o Grundnorm. Quest’ultima è una norma non fondata su altra norma, quindi non valida essa stessa, eppure capace di conferire validità alla Costituzione e attraverso essa a tutte le norme dell’ordinamento. La Grundnorm non può consistere in una norma di tipo giusnaturalistico, essendo Kelsen un giuspositivista. Si veda la sua definizione di dottrina pura del diritto: pura poiché è una teoria del diritto positivo che cerca unicamente di rispondere alle domande “che cosa è” e “come è” il diritto, e non alle domande “come esso deve essere” o “come esso deve essere costituito”. La norma fondamentale non può quindi essere concepita in termini di norma di comportamento, assumendo piuttosto un carattere puramente ipotetico; essa, a differenza di tutte le altre norme che compongono l’ordinamento, non è posta ma presupposta. La Grundnorm non sarebbe altro che un presupposto della conoscenza giuridica, essendo priva di ogni elemento naturale.
La teoria di Kelsen può, alla luce di questi rilievi, riassumersi nei seguenti passaggi logici essenziali:
1. Una norma ha il suo fondamento di validità nella validità di un’altra norma.
2. La ricerca del fondamento di validità di una norma non può, però, proseguire all’infinito: ha termine in una norma ultima, suprema, presupposta come valida (norma fondamentale). Se ci sono norme valide, c’è una norma ultima, o prima, la cui validità è presupposta.
3. Tutte (e solo) le norme la cui validità può essere ricondotta ad un’unica e medesima norma fondamentale costituiscono un ordinamento (sistema) normativo (la norma fondamentale è il loro comune fondamento di validità).
In merito al problema specifico dell’integrazione delle lacune, Kelsen è tra i sostenitori della norma generale di chiusura come norma generale di libertà: tutto ciò che non è regolato dalla legge è permesso. Le conseguenze pratiche sono paradossali: in assenza di una specifica norma di legge, il giudice dovrebbe sempre respingere la pretesa attorea, se si tratta di causa civile, o la tesi presentata dalla pubblica accusa, se si tratta di causa penale. Rispetto a tale concezione Vallauri riprende un’argomentazione già espressa da François Gény, autore di una critica della tesi della completezza dell’ordinamento giuridico e sostenitore del principio secondo cui le lacune presenti nella legge debbano colmarsi non solo per auto integrazione ma anche per etero integrazione. Secondo Vallauri, la teoria in base alla quale tutto ciò che non è regolato dalla legge viene fatto oggetto di automatica sussunzione in una generale norma permissiva implica, se collocata nel quadro della completezza della legge, che l’assenza di una previsione normativa (lungi dall’essere una lacuna, poiché la legge è completa ed in quanto tale priva di lacune) è da leggersi come l’espressione di una tacita volontà di prevedere quel certo comportamento come permesso, nel senso di tutelato contro chiunque altro voglia impedirlo. Ciò equivarrebbe a sostituire alla non-previsione da parte del legislatore una previsione di quella condotta come tutelata contro altrui comportamenti confliggenti, facendo compiere alla condotta stessa quello che Vallauri definisce un “salto deontico”: il comportamento viene fatto passare dalla non qualificazione, che è mancanza di status deontico, a quel preciso status deontico che è il permesso. Gli effetti che ne deriverebbero renderebbero la tutela del giudice arbitraria ed incoerente. Inoltre la prassi giudiziaria ha smentito l’esistenza di questa norma generale esclusiva in quanto, di fronte ad un caso non regolato, i giuristi si sono sempre sforzati di regolarlo nel modo che gli sembrava di volta in volta più adeguato alle particolari circostanze di fatto.
Un altro importante espediente di auto integrazione delle lacune della legge è quello dell’analogia, definibile come l’estensione di principi che possono trarsi dalla legge a casi che si distinguono da quelli decisi dalla legge stessa in modo soltanto inessenziale (v. Windscheid). Un esempio efficace riportato da Vallauri a tal proposito è quello di una norma relativa alla sala d’aspetto delle stazioni, la quale afferma «vietato introdurre cani». Un uomo con un orso ammaestrato alla catena chiede di entrare nella sala; potrà farlo senza infrangere la norma? La risposta è negativa se si ritiene che il legislatore scrivendo “cani” abbia voluto riferirsi anche ad altri animali (se cioè si ritiene la differenza tra cani ed orsi inessenziale). Il ragionamento analogico prevede che si sostituisca il soggetto della proposizione normativa con un soggetto che abbia “estensione” maggiore: in questo caso al soggetto “cani” si sostituisce la categoria generale cui i cani appartengono, ossia quella di “animali”. Il principio che così si desume dalla norma è «vietato introdurre animali», il quale si applica anche all’ipotesi dell’orso ammaestrato.
La difficoltà che s’incontra nell’uso dell’analogia è data dal fatto che stabilire se, per restare nell’esempio, le differenze tra cani ed orsi siano inessenziali è un passaggio arbitrario (si può solo ritenere che sia così). Ogni qualvolta è possibile ricorrere all’analogia è altrettanto legittimo, sul piano strettamente logico, utilizzare il c.d. argomento a contrario, che conduce al risultato opposto. L’argomento a contrario è una tecnica interpretativa la quale si fonda sull’assunto che il legislatore abbia detto esattamente ciò che intendeva dire, sicché ciò che non ha detto evidentemente non voleva dirlo, in quanto se avesse voluto dirlo l’avrebbe detto. Tornando ancora una volta al caso dei cani e degli orsi, in base a tale linea argomentativa se il legislatore avesse voluto vietare l’ingresso nella sala d’aspetto delle stazioni, oltre ai cani, anche agli orsi, l’avrebbe specificato; se non l’ha fatto, è perché non ne aveva l’intenzione. Da questo punto di vista l’applicazione della tecnica analogica sarebbe contraria alla volontà del legislatore.
Partendo dai rilievi fin qui svolti possono trarsi le seguenti conclusioni:
I. La legge non è completa, presentando degli spazi vuoti o lacune.
II. L’auto integrazione delle lacune non è ipotizzabile in quanto condurrebbe a conseguenze paradossali, sia se intesa nella forma di una norma generale che interviene a “chiudere” l’ordinamento giuridico, sia se intesa nella forma di operazioni puramente logiche, paragonabili alle trasformazioni della matematica, mediante cui trarre dalla legge nuovo diritto.
III. Le lacune devono necessariamente venire colmate per mezzo del compimento di valutazioni autonome ad opera dell’interprete.
Vallauri spiega come il “valore”, ossia il diritto “naturale”, s’inserisca nel diritto positivo come necessario criterio d’integrazione. In tale quadro prende forma un altro concetto, quello di “politica” come attuazione di valori in un dato contesto storico: l’attività del giurista, scrive Vallauri, è sempre politica del diritto. Viene così smentito il postulato legalista più volte menzionato secondo il quale la legge è tutto il diritto, in quanto il diritto si compone anche di un corredo di valori fondamentali a cui sono ispirate le valutazioni del giudice.
Da ultimo può compiersi un’osservazione sul nesso tra il legalismo ed il parlamentarismo democratico. Il primato del legislativo, sfociato in celebrazione della legge e del codice, è anche conseguenza del passaggio storico che ha sancito l’imporsi dei parlamenti democratici. La volontà parlamentare espressa nella legge deve prevalere poiché sono i cittadini stessi ad eleggere il parlamento.
Questa giustificazione perde di vigore se si considera che in alcuni sistemi contemporanei caratterizzati dalla particolare numerosità delle leggi, come quello italiano, si assiste al c.d. fenomeno della delegificazione. Per delegificazione s’intende lo strumento di semplificazione normativa che determina (oltre ad un’alterazione degli equilibri costituzionali propri del sistema di separazione dei poteri) il trasferimento, in settori determinati normalmente rimessi alla legge, del potere normativo dall’assemblea parlamentare al governo.
Visto il largo uso che viene fatto di questo strumento, il numero di disposizioni emanate dal governo in qualità di surrogato del parlamento è destinato a crescere, con l’effetto di privare le norme positive della loro essenza democratica. Non è più il popolo a legiferare attraverso i rappresentanti parlamentari, bensì la cerchia dei titolari del potere esecutivo. La prassi della delegificazione nella società contemporanea smentisce così ulteriormente le tesi dei legalisti: di fronte ad un governo che si appropria delle funzioni naturalmente spettanti al parlamento, l’assunto secondo il quale la legge democratica è buona in quanto tale, poiché decisa da rappresentanti dei cittadini, non può più trovare accoglimento.
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